La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, ovvero il divieto automatico di permessi premio per due anni per i soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia
Indice
1. Il fatto: il delitto durante il permesso premio
Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto era chiamato a decidere su un’istanza di permesso premio.
In particolare, nell’ambito di tale procedimento, l’istante si trovava detenuto presso la Casa circondariale di Terni in esecuzione di una sentenza di condanna alla pena della reclusione di nove anni e quattro mesi per vari reati, tra i quali una tentata rapina aggravata e un tentato omicidio e, dopo essere stato ininterrottamente detenuto dal 2017, a partire dal febbraio 2023 l’istante aveva beneficiato di vari permessi premio, dapprima per alcune ore e poi anche per più giorni, allo scopo di rinsaldare i propri vincoli familiari.
Nel 2024, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Velletri lo aveva rinviato a giudizio per un tentativo di introdurre in carcere, al rientro da un permesso premio, un quantitativo di sostanza stupefacente da consegnare a un altro detenuto.
Ciò posto, la nuova istanza di permesso premio era corredata da un parere negativo dell’istituto penitenziario nel quale, purtuttavia, si dava atto come il condannato si fosse, nel frattempo, «riposizionato nel modo di comportarsi», e che è «considerato un punto di riferimento per il Personale di Polizia e gli Ispettori di Reparto per la disponibilità che mostra nel cercare di mediare per la buona soluzione di situazioni difficili e critiche nell’ambito della sezione di appartenenza», fermo restando che l’istante si era sempre sostenuto la propria innocenza rispetto ai fatti addebitatigli del marzo 2023.
A fronte di ciò, il Magistrato di sorveglianza osservava come la richiesta di permesso premio avrebbe dovuto essere considerata inammissibile, stante il tenore della disposizione censurata posto che l’istante era allo stato indagato per un delitto doloso asseritamente commesso nel 2023, durante l’espiazione della pena, ciò avrebbe determinato l’inammissibilità di nuove richieste di concessione di permesso premio sino al 2025. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia
Cosa cambia nel processo penale
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2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Alla luce della situazione esposte, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto sollevava, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 27, commi secondo e terzo, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; in via subordinata, questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo, in relazione ai medesimi parametri, nella sola parte in cui prevede che la concessione dei permessi premio è vietata anche nei confronti di coloro i quali siano «imputati» per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, prima che siano decorsi due anni dalla commissione del fatto.
In particolare, in punto di rilevanza, il giudice a quo notava che, solo qualora la disposizione fosse stata dichiarata costituzionalmente illegittima, si sarebbe potuta valutare valutare nel merito la sussistenza delle condizioni richieste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso al permesso premio, valorizzando, «eventualmente, tanto le caratteristiche del fatto di reato che il condannato è accusato di aver posto in essere nel rientro da un precedente permesso premio, quanto il percorso trattamentale compiuto in seguito, e sino alla data odierna, al fine di rinvenire i segnali di una condotta che si sia via via regolarizzata e mostri, dinamicamente, i progressi dell’interessato».
Invece, in punto di non manifesta infondatezza, il magistrato di sorveglianza evidenziava innanzitutto che, sebbene questioni simili a quelle sollevate nel caso di specie fossero state già dichiarate infondate con la sentenza della Consulta n. 296 del 1997, tuttavia, si osservava però al contempo che tale pronuncia si concludeva «con un espresso invito al legislatore […] a rivedere la disposizione sotto un duplice profilo: circoscrivere meglio la tipologia di delitto doloso la cui commissione effettivamente comprometterebbe il giudizio sulla regolarità della condotta […] e rivedere la durata indifferenziata del periodo biennale di esclusione del beneficio».
Orbene, tale indicazione non sarebbe mai stata accolta dal legislatore nei ventisette anni nel frattempo trascorsi, ancorché una commissione di riforma dell’ordinamento penitenziario (la cosiddetta commissione Giostra) avesse proposto di eliminare l’automatismo contenuto nella disposizione censurata.
Inoltre, dovrebbe registrarsi oggi «un complesso di interventi, anche della stessa Corte Costituzionale, che ha contribuito a delineare “un quadro normativo ben differente”» rispetto a quello presente al momento della pronuncia del 1997.
Il rimettente osservava a tal riguardo come la disposizione censurata preveda – in ottica sanzionatoria rispetto alla scarsa affidabilità dimostrata dal condannato – una preclusione delimitata nel tempo, ma assoluta ed invincibile, alla concessione di permessi premio, che si fonderebbe su una presunzione assoluta di temporanea inidoneità; cosicché al magistrato di sorveglianza sarebbe impedito di valutare «qualsiasi progresso in concreto compiuto dal condannato nel corso dell’ulteriore periodo detentivo vissuto sino al momento della valutazione, e senza che possa rilevare una delibazione relativa alla concreta gravità del fatto di cui l’interessato risulta imputato, per come allo stato evincibile dagli atti».
Così ricostruita, tale disposizione, per il rimettente, apparirebbe «distonica rispetto a molte altre previsioni della legge penitenziaria, che restringono la portata di simili preclusioni all’intervenuta condanna dell’interessato, anche in relazione alla concessione di misure alternative, dunque molto più ampie del permesso oggi richiesto, oppure alla loro revoca», richiamandosi in particolare: l’art. 47-ter, comma 9, ordin. penit., che impone la revoca della detenzione domiciliare in caso di condanna per evasione; l’art. 54, comma 3, ordin. penit., che parimenti impone la revoca della liberazione anticipata in caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio; l’art. 58-quater, commi 1 e 3, ordin. penit., che prevede l’inammissibilità triennale di ulteriori istanze relative a qualsiasi beneficio penitenziario nei confronti del condannato che sia stato riconosciuto colpevole di evasione. I riferimenti alla condanna contenuti in tali disposizioni sarebbero «pacificamente interpretati come riferibili a un titolo definitivo» (si citavano all’uopo: Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenze 27 febbraio-4 luglio 2018, n. 30140 e 27 gennaio-25 febbraio 2011, n. 7514) dato che vi sarebbero «altre disposizioni normative che derivano effetti negativi per l’interessato in conseguenza di accertamenti assai meno stabili», quali ad esempio, nell’art. 47-quater, comma 6, ordin. penit., la mera imputazione per uno dei delitti previsti dall’art. 380 del codice di procedura penale; ovvero, nell’art. 51, quarto comma, ordin. penit., la semplice denuncia per il delitto di evasione commessa durante l’esecuzione della semilibertà; o ancora, nell’art. 58-quater, comma 5, ordin. penit., la mera imputazione per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni commesso da chi ha posto in essere una condotta di evasione, ovvero durante il lavoro all’esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.
Tali ultime disposizioni si differenzierebbero, tuttavia, dalla disciplina ora censurata, poiché nel primo caso la tipologia di reato rilevante è precisamente circoscritta, e il giudice ha comunque la mera facoltà di revocare la misura alternativa; nel secondo caso, la conseguenza negativa che deriva dalla denuncia è la sola sospensione della misura, mentre la sua revoca discende dalla sola condanna definitiva; nel terzo caso, infine, sarebbe ancora una volta «decisamente più delineata» la tipologia di reato la cui commissione determina la preclusione.
Il profilo di irragionevolezza della disposizione ora censurata risiederebbe dunque, per il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, «nella previsione della ostatività biennale, collegata ad una istanza di permesso premio, nei confronti del condannato che riveste anche la qualità di imputato per un fatto commesso nel corso dell’esecuzione penale, laddove in tutte le altre disposizioni astrattamente a lui applicabili per la tipologia di reati che ha commesso, viene dato rilievo negativo dirimente ad eventuali fattispecie di reato sopravvenuto, soltanto laddove le stesse abbiano superato il vaglio del passaggio in giudicato della condanna».
In effetti, la disposizione censurata equiparerebbe irragionevolmente la posizione di chi è stato definitivamente condannato per un reato con chi ne sia solo imputato, con ciò ponendosi in contrasto con l’art. 27, secondo comma, Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., con l’art. 6 CEDU e l’art. 48 CDFUE visto che, rispetto all’imputato, potrebbe del tutto mancare il vaglio del giudice «anche circa l’esistenza di eventuali giustificati motivi per l’agire di cui si è imputati, o di altre circostanze esimenti»; e comunque difetterebbe «la stabilità del giudizio garantita per il condannato in via definitiva […] per un tempo che può consumare (e normalmente consuma) anche interamente il biennio di ostatività».
Il magistrato di sorveglianza sarebbe così tenuto «a ritenere l’interessato alla stregua di un condannato in via definitiva, senza poter apprezzare discrezionalmente gli elementi che sono già deducibili dagli atti».
Il giudice a quo richiamava per di più la direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e in particolare il suo considerando n. 16, ove si stabilisce che la presunzione di innocenza è violata se «decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata», fermo restando che la preclusione in esame si caratterizzerebbe altresì per una «fissità nelle conseguenze ostative […] eccentrica, ed irragionevole, rispetto al quadro normativo complessivo», ove si consideri che il condannato, per il quale è inibito l’accesso ai permessi premio, potrebbe tuttavia ottenere misure alternative «che consentono all’interessato spazi di libertà ben più ampi di quelli di un mero permesso premio», quali l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare.
Inoltre, come la sentenza n. 296 del 1997 avrebbe riconosciuto, far dipendere la preclusione dalla commissione di qualsiasi delitto doloso sarebbe soluzione irragionevolmente generica, che abbraccerebbe «una molteplicità di condotte dal disvalore penale assai distante», impedendo «di apprezzare in concreto il significato dell’agito del condannato e la sua proiezione in termini di affidabilità futura».
Infine, il giudice a quo ripercorreva le pronunce della Consulta, che avevano gradualmente rimosso automatismi ostativi conseguenti alla commissione di reati.
Nel dettaglio, era richiamata anzitutto la sentenza n. 186 del 1995, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, ordin. penit., che disponeva la revoca obbligatoria della liberazione anticipata in caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio.
Orbene, proprio tale pronuncia, per la Consulta, aiuterebbe ad illuminare un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della disposizione ora in esame con riguardo all’art. 27, terzo comma, Cost., giacché la preclusione in essa prevista impedirebbe al magistrato di sorveglianza «di valutare in concreto il significato dell’involuzione eventualmente verificatasi nel percorso rieducativo della persona e la capacità della stessa di fare emenda e di rimettersi in cammino, guadagnando così un nuovo giudizio di meritevolezza all’accesso al permesso».
Il rimettente ricordava altresì la sentenza n. 173 del 1997, con cui è stata dichiarata illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, ultimo comma, ordin. penit., che nella versione all’epoca vigente disponeva la sospensione automatica della detenzione domiciliare in caso di denuncia per ingiustificato allontanamento dall’abitazione.
La sentenza n. 189 del 2010, proseguiva il rimettente, ha bensì dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale proposte con riferimento all’art. 58-quater, comma 1, ordin. penit., che dispone la preclusione alla concessione di taluni benefici penitenziari al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di evasione ai sensi dell’art. 385 del codice penale sulla base però di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata già adottata dalla giurisprudenza di legittimità, che avrebbe consentito al giudice a quo di superare la preclusione. Interpretazione che sarebbe invece da escludere rispetto alla disposizione ora all’esame, stante il suo inequivoco dato letterale.
Era, infine, citata la sentenza n. 173 del 2021, nella quale la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ordin. penit., che dispone il divieto di concessione di taluni benefici per un periodo di tre anni dal momento della revoca di una misura alternativa, ritenendo che alla base della preclusione vi fosse «una valutazione effettuata proprio dalla magistratura di sorveglianza, caso per caso, e a fronte di un esame nel merito del tipo di violazioni commesse dal condannato nel corso della misura», e ciò varrebbe a distinguere quella ipotesi dal caso in esame, nel quale «alla magistratura di sorveglianza non spetta invece alcun vaglio in concreto circa gli agiti del detenuto, anche soltanto imputato di un reato doloso commesso durante l’esecuzione penale», trattandosi di un vaglio – sosteneva il rimettente – che è «diverso ed altro da quelli propri della sede di cognizione», poiché «tiene necessariamente conto del significato concreto degli agiti in quel percorso, sempre illuminato dal finalismo rieducativo, che è proprio dell’esecuzione penale».
Vero che anche la magistratura di sorveglianza fonderebbe talvolta «le proprie decisioni, allo stato degli atti, anche su informative di p.s., prima ancora che su pendenze penali»; ma in tali casi spetterebbe comunque «alla giurisdizione rieducativa una lettura in concreto di quanto riferito ed un vaglio che, perciò, è effettuato con esercizio di prudente discrezionalità e mettendo in rapporto quanto narrato con l’immaginata progressione risocializzante».
Per tutte queste ragioni, il rimettente sollecitava, in via principale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella sua interezza.
In via subordinata, invita il Giudice delle leggi a dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione nella sola parte in cui prevede che la concessione dei permessi premio è vietata prima che siano decorsi due anni dalla commissione del fatto anche nei confronti di coloro i quali siano meramente imputati – e non condannati – per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale.
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3. La soluzione adottata dalla Consulta
I giudici di legittimità costituzionale, dopo avere reputato le questioni suesposte ammissibili, evidenziavano che, prima di affrontare il merito delle questioni, convenisse subito evidenziare dubbi di legittimità costituzionale analoghi a quelli ora formulati era stati giudicati non fondati dalla medesima Corte costituzionale, nella sentenza n. 296 del 1997.
Fotografando la prassi osservata nell’intero arco della propria giurisprudenza, in effetti, il Giudice delle leggi ha recentemente rilevato che il tendenziale rispetto dei propri precedenti – unitamente alla coerenza dell’interpretazione con il testo delle norme interpretate e alla persuasività delle motivazioni – è condizione essenziale per l’autorevolezza delle decisioni di qualsiasi giurisdizione superiore; e che ciò vale anche, in speciale misura, per il giudice costituzionale (sentenza n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto).
Tuttavia, come per ogni altra giurisdizione superiore, ad avviso degli stessi giudici di legittimità costituzionale, è ben possibile rimeditare i propri orientamenti, e se del caso modificarli, allorché sussistano «ragioni di particolare cogenza che rendano non più sostenibili le soluzioni precedentemente adottate: ad esempio, l’inconciliabilità dei precedenti con il successivo sviluppo della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale o di quella delle Corti europee; il mutato contesto sociale o ordinamentale nel quale si colloca la nuova decisione o – comunque – il sopravvenire di circostanze, di natura fattuale o normativa, non considerate in precedenza; la maturata consapevolezza sulle conseguenze indesiderabili prodotte dalla giurisprudenza pregressa» (sentenza n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto), trattandosi, questi, di criteri largamente diffusi nella giurisprudenza costituzionale comparata, e che sono altresì stati nella sostanza richiamati dalla Corte di Cassazione in plurime occasioni, anche recenti, quanto alla possibilità di modificare i propri precedenti orientamenti (Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 28 marzo 2024, n. 8486, punto 8; e, in senso analogo, sentenza 4 dicembre 2024, n. 31136, punto 7).
Ora, la sentenza n. 296 del 1997 ha affrontato, e risolto nel senso della non fondatezza, due questioni che il rimettente sostanzialmente ripropone: in primo luogo, quella relativa all’asserito contrasto con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. (punto 5 del Considerato in diritto); in secondo luogo – dopo aver escluso taluni profili di irragionevole disparità di trattamento che non vengono in considerazione in questa sede – quella relativa all’allegato irragionevole sacrificio del principio della finalità rieducativa della pena (punto 7 del Considerato in diritto), che l’ordinanza di rimessione oggi all’esame prospetta evocando, assieme, gli artt. 27, terzo comma, e 3 Cost..
Pertanto, alla luce di ciò, per la Consulta, occorreva, allora, verificare se – rispetto a entrambi i profili – sussistessero ragioni tali da indurla a rimeditare quella decisione, tenendo conto in particolare della successiva evoluzione del contesto normativo e giurisprudenziale.
Premesso ciò, con riguardo anzitutto alla presunzione di non colpevolezza, i giudici di legittimità costituzionale notavano prima di tutto come la sentenza n. 296 del 1997 avesse ritenuto le censure dei rimettenti «esorbitant[i] rispetto alle finalità perseguite dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione».
Nel dettaglio, la presunzione di non colpevolezza, aveva osservato quella pronuncia, «è […] coessenzialmente legata al fatto di reato per cui è stata elevata la nuova imputazione e non può essere estesa ad aspetti che nel caso di specie concernono il trattamento penitenziario conseguente al delitto per cui è in corso l’esecuzione della pena» (punto 5 del Considerato in diritto).
Una tale conclusione, tuttavia, per la Corte, risultava oggi distonica rispetto alle declinazioni medio tempore conferite alla presunzione di non colpevolezza (o di innocenza, secondo la denominazione corrente nelle fonti internazionali e unionali) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla cui interpretazione l’ordinamento nazionale è in linea di principio vincolato in forza dell’art. 32 CEDU (sentenze n. 348 del 2007, punto 4.6. del Considerato in diritto, e n. 349 del 2007, punto 6.2. del Considerato in diritto) (infra, 4.1.), nonché dai recenti sviluppi del diritto dell’Unione (infra, 4.2.) e della stessa giurisprudenza di questa Corte (infra, 4.3.).
Quanto alla giurisprudenza di Strasburgo, una recente pronuncia della Consulta ha sottolineato che la presunzione di innocenza fondata sull’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, «assume un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente endoprocessuale» (sentenza n. 182 del 2021, punto 9 del Considerato in diritto).
Da una parte – ha proseguito questa Corte sovranazionale, citando ampiamente la sentenza della grande camera, 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito – «la presunzione di innocenza costituisce una “garanzia procedurale” destinata ad operare “nel contesto di un processo penale”, producendo effetti sul piano dell’“onere della prova”, sulla operatività delle “presunzioni legali di fatto e di diritto”, sull’applicabilità del “privilegio contro l’autoincriminazione”, nonché in ordine “alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature, da parte della Corte processuale o di altri funzionari pubblici, della colpevolezza di un imputato”.
Dall’altra, la presunzione di innocenza, “in linea con la necessità di assicurare che il diritto garantito” dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU “sia pratico e effettivo”, estende i suoi effetti al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di “proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato”» (punto 9 del Considerato in diritto).
La tutela garantita dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU si estende, dunque, per il Giudice delle leggi, oltre lo specifico procedimento penale nel quale si controverte della possibile responsabilità penale dell’imputato.
In particolare, secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, essa si estende non solo ai procedimenti giudiziari successivi, ma anche a quelli paralleli nei quali il fatto di reato addebitato alla persona, ma non ancora definitivamente accertato a suo carico, possa assumere una qualche rilevanza: ad esempio, al procedimento di revoca della sospensione condizionale della pena (Corte EDU, sentenza 3 ottobre 2002, Böhmer contro Germania, paragrafo 57 e seguenti; 12 novembre 2015, El Kaada contro Germania, paragrafo 56 e seguenti); al procedimento penale in cui debba valutarsi l’integrazione di una circostanza aggravante (sentenza 19 giugno 2012, Hajnal contro Serbia, paragrafo 131; sentenza 14 marzo 2019, Kangers contro Lettonia, paragrafo 61); al procedimento in cui si debba decidere sulla proroga della custodia cautelare in carcere (sentenza 31 ottobre 2013, Perica Oreb contro Croazia, paragrafo 147).
Ciò posto, quanto all’ordinamento UE, il diritto alla presunzione di innocenza è oggi espressamente riconosciuto dall’art. 48, paragrafo 1, CDFUE: disposizione il cui significato e la cui portata – in forza della previsione generale di cui all’art. 52, paragrafo 3, CDFUE – incorporano il livello minimo di tutela previsto dalla corrispondente disposizione della CEDU, e cioè dell’art. 6, paragrafo 2, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo fermo restando che, a livello di diritto derivato, il principio della presunzione di innocenza ha trovato poi specifica declinazione nell’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343/UE, secondo il quale «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, […] le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole»; obbligo che ha trovato attuazione nell’ordinamento italiano, tra l’altro, con il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, recante «Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali».
Quanto infine alla giurisprudenza costituzionale, anch’essa ha ormai riconosciuto che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. si estende a tutti i procedimenti giudiziari nei quali possa assumere una qualche rilevanza un fatto di reato addebitato alla persona in un procedimento penale, ma in quella sede non ancora definitivamente accertato.
Già da epoca immediatamente successiva alla sentenza n. 296 del 1997, del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato che, dal principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, discende la necessità che la commissione di un nuovo reato nel periodo indicato dall’art. 445, comma 2, cod. proc. pen. successivo alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, cui la legge ricollega effetto ostativo all’estinzione del precedente reato, sia accertata con sentenza di condanna irrevocabile (ordinanza n. 107 del 1998 e, con riferimento all’estinzione del reato conseguente alla sospensione condizionale della pena, ordinanze n. 210 del 2020 e n. 101 del 2019).
Più di recente sempre in sede di giustizia costituzionale, nell’esaminare una disposizione che stabilisce la revoca della sanzione sostitutiva dell’espulsione dello straniero qualora questi rientri illegalmente nel territorio dello Stato, commettendo così il reato corrispondente, è stato affermato che il giudice dell’esecuzione non può «procedere ad un accertamento incidentale dell’illecito penale sulla base della sola notizia di reato conseguente al riscontro della presenza dello straniero sul territorio nazionale da parte delle forze di polizia, senza con ciò stesso violare la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost., il cui superamento esige lo svolgimento di un giudizio in cui l’imputato sia posto in condizione di difendersi adeguatamente» (sentenza n. 163 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto).
È, dunque, ormai chiaro, per la Consulta, che la presunzione di innocenza, lungi dal limitare i propri effetti all’interno del singolo procedimento o processo penale avente ad oggetto la possibile responsabilità penale dell’individuo, implica un generale divieto di considerare quello stesso individuo colpevole del reato a lui ascritto dal pubblico ministero, fermo restando che tale divieto opera, segnatamente, nell’ambito di qualsiasi procedimento giudiziario parallelo allo stesso procedimento o processo penale, sino a che la colpevolezza sia stata giudizialmente accertata, in via definitiva, nella sede sua propria.
Dal che, per la Corte, l’ormai evidente frizione con il principio in parola di una disposizione che, come quella censurata nel caso di specie, obbliga un giudice (qui, il magistrato di sorveglianza) all’adozione di un provvedimento negativo a carico dell’interessato, per il solo fatto che questi sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero.
D’altronde, agli effetti pratici, una simile disposizione vincola il giudice a “presumere colpevole” l’imputato, nel senso che essa sottrae al magistrato di sorveglianza stesso ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto, nonché di valutare la sua rilevanza rispetto al thema decidendum nel singolo procedimento, con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza: ciò che, in sostanza, la Corte costituzionale ha avuto modo recentemente di evidenziare, allorché ha sottolineato la necessità che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un procedimento penale conclusosi con un provvedimento di archiviazione siano «oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati, dovendosi in particolare assicurare all’interessato le più ampie possibilità di contraddittorio, secondo le regole procedimentali o processuali vigenti nel settore ordinamentale coinvolto» (sentenza n. 41 del 2024, punto 3.8. del Considerato in diritto).
Orbene, a questo punto della disamina, ribadito quanto esposto già in precedenza, vale a dire come la sentenza n. 296 del 1997 avesse altresì escluso il contrasto della disposizione censurata con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., i Giudici delle leggi evidenziavano oltre tutto come la sentenza in parola avesse rammentato i propri già allora numerosi precedenti che avevano censurato «l’utilizzazione da parte del legislatore di meccanismi che sottraggono al magistrato di sorveglianza la verifica dell’effettiva incidenza di un determinato fatto-reato sul trattamento penitenziario» ma, tuttavia, aveva ritenuto che il meccanismo preclusivo in discussione – non determinante una esclusione definitiva dal beneficio – potesse superare lo scrutinio di legittimità costituzionale: «[l]’incentivazione alla “regolare condotta carceraria attraverso la promessa del permesso premio” può giustificare che, in presenza di delitti di natura dolosa, la nuova concessione possa rimanere preclusa per un determinato periodo di tempo».
Un simile meccanismo, per la Corte, non fu dunque ritenuto idoneo a compromettere la funzione rieducativa della pena, essendo la preclusione qui «inquadrata nel presupposto di quella regolare condotta del condannato che è essenziale per la concedibilità di permessi premio», tenuto conto altresì del fatto che sempre la Corte costituzionale aveva espresso l’auspicio che il legislatore rivedesse l’automatismo in esame, «in relazione alle tipologie di delitti dolosi la cui commissione effettivamente comprometta il giudizio sulla regolarità della condotta e, conseguentemente, faccia presumere la pericolosità del condannato, nonché in relazione alla indifferenziata durata del periodo di esclusione dal beneficio» (punto 7 del Considerato in diritto).
Ebbene, la Consulta prendeva atto di come quasi trent’anni fossero trascorsi da quell’auspicio, e l’automatismo criticato da questo organo di rilevanza costituzionale, sempre per il Giudice delle leggi, si manteneva intatto, nonostante le proposte di riforma nel frattempo formulate per rimediare ai profili critici evidenziati in quell’occasione.
In particolare, un primo schema di decreto legislativo recante riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), g), i), l), m), o), r), s), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) aveva previsto l’abrogazione della disposizione ora censurata, in conformità alle indicazioni contenute nella relazione della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario istituita con decreto del Ministro della giustizia del 2 luglio 2013 (cosiddetta commissione Giostra) (pagina 114).
Più nel dettaglio, tale schema fu presentato alle Camere, ottenendo parere favorevole sull’abrogazione della disposizione censurata, ma non fu poi adottato dal Governo.
D’altra parte, la sentenza n. 296 del 1997 – la quale aveva ritenuto che i profili critici evidenziati ancora non attingessero la soglia dell’illegittimità costituzionale – si poneva essa stessa in rapporto di problematica conciliabilità non soltanto con la giurisprudenza che considera incompatibili con gli artt. 3 e 31 Cost. gli automatismi nell’esecuzione minorile, e che avrebbe condotto la Consulta, a pochi mesi di distanza, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione con riferimento ai condannati minorenni (sentenza n. 403 del 1997); ma anche, e soprattutto, con la serie di pronunce che, già da epoca precedente il 1997, avevano censurato automatismi simili anche nell’ambito dell’esecuzione penale concernente i condannati adulti.
In particolare, con la sentenza n. 186 del 1995, la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., la disposizione di cui all’art. 54, terzo comma, ordin. penit., nella parte in cui prevedeva la revoca della liberazione anticipata in caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio, anziché stabilire che la liberazione anticipata è revocata se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio.
In particolare, siffatta pronuncia aveva stigmatizzato l’«indifferenza normativa per qualsiasi tipo di apprezzamento in ordine alla compatibilità o meno degli effetti che scaturiscono dalla liberazione anticipata rispetto al valore sintomatico che in concreto può assumere l’intervenuta condanna»; indifferenza che lasciava, secondo i giudici di legittimità costituzionale, «presupporre che al fondo di una simile rigorosa opzione [stesse] nulla più che un preciso disegno volto ad assicurare, attraverso un meccanismo di tipo meramente sanzionatorio, la sola “buona condotta” del soggetto in espiazione di pena, relegando così nell’ombra proprio quella funzione di impulso e di stimolo ad una efficace collaborazione nel trattamento rieducativo che costituisce l’essenza stessa dell’istituto» (punto 2 del Considerato in diritto).
La sentenza n. 173 del 1997, di pochissimo anteriore alla n. 296 del 1997, aveva, a sua volta, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-ter, ultimo comma, ordin. penit., nella parte in cui faceva derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato, previsto dal comma 8 dello stesso articolo, di ingiustificato allontanamento dall’abitazione.
Ebbene, pur non venendo allora in considerazione il principio di presunzione di non colpevolezza, la sentenza aveva sottolineato come una «brusca ed automatica sospensione» della detenzione domiciliare, senza possibilità per il giudice di valutare caso per caso le «circostanze in cui l’allontanamento denunciato come reato è avvenuto», avrebbe potuto «interrompere senza sufficiente ragione un percorso risocializzativo e riabilitativo», compromettendo così la finalità rieducativa perseguita dalle misure alternative alla detenzione (punto 5 del Considerato in diritto).
Ciò posto, la giurisprudenza costituzionale, successiva al 1997, aveva confermato la tendenziale illegittimità costituzionale degli automatismi in materia di revoca o preclusione dei benefici e delle misure alternative, conseguenti alla commissione di nuovi reati da parte del condannato; insistendo, per converso, sulla necessità di una puntuale valutazione da parte del giudice della sorveglianza circa il significato concreto del fatto rispetto al percorso trattamentale intrapreso dal condannato e al giudizio relativo alla sua eventuale persistente pericolosità sociale.
In quest’ottica, la sentenza n. 189 del 2010 aveva, ad esempio, giudicato inammissibili questioni di legittimità costituzionale relative alle preclusioni all’accesso a benefici penitenziari stabilite dall’art. 58-quater, comma 1, ordin. penit. a carico di coloro che siano stati condannati per evasione, ritenendo che il giudice rimettente non avesse esperito un’interpretazione conforme alla Costituzione della stessa fermo restando che, in base a tale interpretazione, il giudice avrebbe comunque dovuto «valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato responsabile del reato di cui all’art. 385 cod. pen.» (punto 3 del Considerato in diritto), al fine di accertare o escludere la sua effettiva e perdurante pericolosità sociale, nonché i suoi progressi trattamentali.
Più di recente, e in via generale, la Consulta ha enunciato il «criterio “costituzionalmente vincolante”» che «esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999), […] giacché ove non fosse consentito il ricorso a criteri individualizzanti “l’opzione repressiva fini[rebbe] per relegare nell’ombra il profilo rieducativo” (sentenza n. 257 del 2006)» (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto; nonché, nello stesso senso, sentenze n. 56 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto, e n. 253 del 2019, punto 8.2. del Considerato in diritto).
Infine, allorché la Corte costituzionale si è trovata a vagliare la legittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ordin. penit., nella parte in cui dispone il divieto di concessione di taluni benefici per un periodo di tre anni dal momento della revoca di una misura alternativa, ha ritenuto che tale preclusione – pur definita «severa e opinabile dal punto di vista delle scelte di politica penitenziaria» – superasse il vaglio di legittimità costituzionale soltanto sulla base della considerazione che il tribunale di sorveglianza dispone normalmente la revoca nei soli casi più gravi di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura, e in particolare quando sia dimostrata «la necessità di una regressione del percorso rieducativo e di un almeno temporaneo ripristino del regime di detenzione, in particolare in funzione di contenimento di un concreto rischio di recidiva evidenziatosi in capo al condannato» (sentenza n. 173 del 2021, punto 3.3.3. del Considerato in diritto).
Nel compiere tali valutazioni, proseguiva questa Corte nel suo ragionamento decisorio, il Tribunale «non potrà non tenere conto anche delle conseguenze particolarmente gravose associate alla revoca, e in particolare della preclusione – nell’arco di un intero triennio – relativa alla concessione di ogni altra misura alternativa o beneficio penitenziario, diversi dalla liberazione anticipata» (ancora, punto 3.3.3. del Considerato in diritto) il che assicura, almeno nella decisione che determina il successivo effetto preclusivo, un margine significativo di discrezionalità in capo al giudice della sorveglianza, al di fuori di ogni automatismo incompatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost..
Per il Giudice delle leggi, la disposizione ora all’esame azzera, invece, ogni margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale, ogni qualvolta egli risulti essere stato condannato (o sia addirittura semplicemente imputato) per qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale, e ciò per due anni dalla commissione del fatto: un lasso di tempo tutt’altro che trascurabile, per chi trascorre la propria vita in un carcere.
Ebbene, alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte, la Consulta riteneva come le conclusioni, su cui era pervenuta sul punto la sentenza n. 296 del 1997, non fossero più, oggi, sostenibili e che la disposizione censurata dovesse, conseguentemente, essere dichiarata costituzionalmente illegittima.
Più precisamente, le ragioni da ultimo esposte – relative all’incompatibilità dell’automatismo preclusivo rispetto alla nuova concessione di permessi premio con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – comportano, per i giudici di legittimità costituzionale, la caducazione dell’intera disposizione, con conseguente assorbimento delle ulteriori censure (sollevate in riferimento agli artt. 27, secondo comma, Cost.; 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU; 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 48 CDFUE) relative al frammento della disposizione concernente la posizione di chi sia soltanto imputato della commissione di un nuovo reato durante l’esecuzione della pena, restando altresì assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 3 Cost., del resto meramente ancillare rispetto a quella relativa al contrasto con la funzione rieducativa della pena.
Ad ogni modo, per la Consulta, il venir meno dell’automatismo previsto dalla disposizione all’esame non esclude, naturalmente, che il magistrato di sorveglianza possa fondare la propria valutazione anche su fatti emergenti da informative di polizia o rapporti delle autorità penitenziarie, suscettibili di integrare ipotesi di reato dal momento che, in materia di permessi premio, l’art. 30-ter, comma 1, ordin. penit. conferisce al magistrato di sorveglianza il compito di accertare, da un lato, la «regolare condotta» del condannato – a sua volta dimostrata, in base al comma 8, dal «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali» –; e, dall’altro, l’assenza di pericolosità sociale del condannato stesso.
Per la Corte, nel contesto di tali accertamenti, il magistrato di sorveglianza dovrà, dunque, necessariamente tener conto anche di eventuali notitiae criminis relative a condotte addebitate a chi richieda il permesso premio (come il tentativo di introdurre sostanze stupefacenti in carcere al rientro da un precedente permesso, per il quale il richiedente nel procedimento a quo risulta essere imputato), e ciò indipendentemente dalla circostanza se tali condotte integrino in concreto tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di un reato, e siano in effetti suscettibili di dar luogo a una responsabilità penale del richiedente: profilo, questo, sul quale il magistrato di sorveglianza non può né deve esprimersi, ben potendo egli fondare il diniego di un beneficio anche su fatti rispetto ai quali il parallelo giudizio penale di cognizione si sia concluso con una pronuncia di proscioglimento per assenza di querela (Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 9 settembre-17 novembre 2021, n. 41796), o addirittura di assoluzione perché i fatti – pur ritenuti sussistenti nella loro materialità – non integravano una fattispecie di reato (Sezione prima penale, sentenza 29 febbraio-9 maggio 2024, n. 18351), purché il magistrato di sorveglianza valuti liberamente le evidenze relative alle condotte in questione, senza essere vincolato dalle valutazioni su di esse compiute da un pubblico ministero, né a quelle contenute in una decisione giudiziaria non ancora definitiva, essendo altresì essenziale che, pur in presenza di una condanna definitiva del richiedente, il magistrato di sorveglianza possa – altrettanto liberamente – valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa.
Per tutte siffatte considerazioni, la Corte costituzionale dichiarava pertanto l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
4. Conclusioni: illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354
La Corte costituzionale, con la decisione qui in esame, come appena visto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 che, come è noto, prevedeva quanto segue: “Nei confronti dei soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto”.
Pur tuttavia, nella pronuncia in esame, oltre a venir meno tale rigida preclusione di ordine temporale ostativa alla concessione dei permessi-premio, la Consulta ritiene però necessario chiarire che il venir meno dell’automatismo previsto dalla disposizione (dichiarata illegittima costituzionalmente) non impedisce che il magistrato di sorveglianza possa comunque basare la propria valutazione su fatti provenienti da informative di polizia o rapporti delle autorità penitenziarie, che potrebbero integrare ipotesi di reato, fermo restando che, nel contesto di tali accertamenti, il magistrato di sorveglianza deve prendere in considerazione eventuali notizie di reato, riguardanti condotte attribuite a chi richiede il permesso premio, come, ad esempio, il tentativo di introdurre stupefacenti in carcere, dovendo ciò avvenire indipendentemente dal fatto che tali condotte siano effettivamente configurabili come reato o meno.
Queste sono dunque le principali novità che discendono dall’emissione di siffatta pronuncia.
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