Consulta: inammissibile la questione su pena detentiva per diffamazione militare

La Corte Costituzionale dichiara inammissibile la questione sulla sola pena detentiva prevista per il reato di diffamazione militare.

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La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione di illegittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione: vediamo il perché. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

Corte costituzionale sentenza n.127 del 23-06-2025

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Indice

1. Il fatto


Il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale militare di Napoli era chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio di un militare in relazione alla condotta, svolta nell’esercizio dell’attività sindacale, di diffamazione militare. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

VOLUME

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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione


In relazione alla vicenda giudiziaria suesposta, il Tribunale militare partenopeo sollevava d’ufficio, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questione di legittimità costituzionale del citato art. 227, nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione.
In particolare, in punto di rilevanza, il giudice a quo riteneva che, poiché la diffamazione militare è punita soltanto con la pena detentiva, la mancata previsione di una pena pecuniaria alternativa determinerebbe il contrasto con l’art. 10 CEDU, nell’interpretazione consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo, rilevandosi al contempo come non si voleva prospettare l’adozione di una sentenza additiva o manipolativa della norma censurata, bensì quella di una sentenza di mero annullamento, con conseguente espansione della disciplina della diffamazione comune di cui all’art. 595 del codice penale, affermandosi in tal guisa la rilevanza della questione, in quanto il suo accoglimento avrebbe imposto al giudicante l’adozione di una sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione con trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria ordinaria.
Ciò posto, per quanto invece concerne la non manifesta infondatezza, il rimettente riteneva come la norma incriminatrice della diffamazione militare contrastasse con gli artt. 117, primo comma, Cost., e 10 CEDU.
Nel dettaglio, il giudice a quo, premesso che la libertà di espressione è tutelata sia dall’art. 21 Cost. sia dall’art. 10 CEDU, che, secondo la giurisprudenza europea, «non si ferma davanti al cancello della caserma» e si applica anche ai militari, osservava che, giusta il consolidato orientamento della Corte di Strasburgo, la norma censurata risulterebbe contraria all’art. 10 CEDU in quanto la previsione, anche solo in astratto, della pena detentiva per i reati di diffamazione sarebbe eccessiva e sproporzionata, salvo nella circostanza eccezionale della grave lesione di altri diritti fondamentali, come accade, per esempio, nel caso dei discorsi di odio o dell’istigazione alla violenza (si richiamano Corte EDU, grande camera, 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre contro Romania; prima sezione, 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia; prima sezione, 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia; seconda sezione, 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia), rammentandosi nel medesimo senso della Consulta, l’ordinanza n. 132 del 2020 e la successiva sentenza n. 150 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), affermando che «[p]roprio l’indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva […] rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall’art. 21 Cost., quanto dall’art. 10 CEDU», atteso che «una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) è divenuta ormai incompatibile con l’esigenza di “non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”».
Orbene, per il Tribunale militare di Napoli, tali princìpi, riconosciuti dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, dovrebbero essere applicati anche con riferimento alla fattispecie della diffamazione militare, che, come affermato dalla sentenza n. 273 del 2009 della Consulta, si distingue dalla diffamazione comune di cui all’art. 595 cod. pen., con la quale si pone in rapporto di specialità, esclusivamente per la qualità del soggetto attivo e della persona offesa, che nella prima devono essere entrambi militari, tenuto conto altresì del fatto che non osterebbe all’accoglimento della questione nemmeno la sentenza della Corte costituzionale n. 215 del 2017, ove si è ritenuta non irragionevole la mancata ricomprensione dell’ingiuria militare (art. 226 cod. pen. mil. pace) nell’ambito della decriminalizzazione, disposta dal decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), con riferimento, tra l’altro, all’ingiuria “comune”, in considerazione della «peculiare posizione del cittadino che entra […] nell’ordinamento militare», che non rende «affatto irragionevole imporre al militare una più rigorosa osservanza di regole di comportamento» posto che il giudizio di non irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio non avrebbe attinto la diversa questione della necessità di una sanzione detentiva per l’ingiuria militare.
La questione sollevata, si aggiungeva per di più, non riguarda l’illegittimità costituzionale per diversità del trattamento sanzionatorio tra diffamazione militare e diffamazione comune, in violazione dell’art. 3 Cost., bensì la necessità, in una società democratica, di non prevedere la sola pena detentiva per sanzionare tutte le condotte di diffamazione militare, senza prevedere una pena pecuniaria alternativa.
D’altronde, per il giudice rimettente, l’applicabilità dell’art. 10 CEDU anche alla diffamazione militare andrebbe affermata pure qualora il reato non fosse commesso a mezzo della stampa o comunque nell’esercizio dell’attività giornalistica; del resto, la diffamazione contestata nel giudizio a quo risulta commessa nell’ambito di attività sindacale, che ormai, a seguito della sentenza n. 120 del 2018 della Corte costituzionale, rinviene compiuta previsione normativa nella legge 28 aprile 2022, n. 46 (Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo), nonché nel decreto legislativo 24 novembre 2023, n. 192, recante «Disposizioni per il riassetto della legge 28 aprile 2022, n. 46, nel codice di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, e per il coordinamento normativo delle ulteriori disposizioni legislative che disciplinano gli istituti della rappresentanza militare, ai sensi dell’articolo 16, comma 1, lettere a), b) e c), della medesima legge n. 46 del 2022».
Anche la giurisprudenza di legittimità, tra l’altro, ha ritenuto che «escludere la pena detentiva – riservandola soltanto ai c.d. discorsi d’odio – alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell’esercizio dell’attività giornalistica), e, dall’altro, il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica» (Corte di Cassazione, Quinta Sezione penale, sentenza 17 febbraio-14 aprile 2021, n. 13993).

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2. Le argomentazioni sostenute dalla parte costituita (Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato)


Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale militare di Napoli fosse dichiarata inammissibile o non fondata.
In particolare, per tale parte, la questione sarebbe inammissibile in ragione della palese carenza di rilevanza dal momento che, nel caso di specie, il giudice dell’udienza preliminare non era chiamato a irrogare la sanzione detentiva prevista dalla norma censurata, ma soltanto a decidere sull’accoglimento o meno della richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato, così come la rilevanza avrebbe potuto essere individuata nel difetto di giurisdizione che discenderebbe dalla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, poiché il vaglio di ammissibilità era propedeutico all’eventuale accoglimento nel merito della questione.
Del resto, sempre ad avviso di siffatta parte, anche nella successiva fase del giudizio, la rilevanza della questione avrebbe potuto essere affermata solo in seguito all’accertamento della responsabilità dell’imputato e alla valutazione della gravità della condotta contestata.
Ciò posto, l’Avvocatura dello Stato affermava oltre tutto che la questione sarebbe stata comunque non fondata visto che, premesso che l’ordinanza di rimessione non aveva considerato la previsione di carattere generale di cui all’art. 22 cod. pen. mil. pace, che non contempla la possibilità di applicare pene pecuniarie, la diversità di disciplina e dunque l’utilizzazione della sola pena detentiva sarebbe giustificata dalla diversità dei beni giuridici tutelati dalla diffamazione militare (l’effettività della disciplina militare e la necessaria coesione delle Forze armate, quali beni strumentali all’adempimento del dovere di difesa della Patria, qualificato come «sacro» dall’art. 52 Cost.) e dalla diffamazione comune (la libertà di informazione e di critica nell’esercizio dell’attività giornalistica, a salvaguardia delle quali si è sviluppata la giurisprudenza europea sulla illegittimità convenzionale della sola pena detentiva).

4. La soluzione adottata dalla Consulta: inammissibile la questione


La Corte costituzionale reputava innanzitutto fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza proposta dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri.
Secondo il Giudice delle leggi, infatti, la giurisprudenza costituzionale ritiene manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto premature e ipotetiche (ex plurimis, sentenza n. 217 del 2019; ordinanze n. 210 del 2020 e n. 259 del 2016), le questioni vertenti su disposizioni delle quali il rimettente non è chiamato a fare applicazione, e ciò tanto, ai sensi dell’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
In particolare, quanto alla questione della mancata previsione di una circostanza attenuante, sollevata nel corso dell’udienza preliminare allorquando il giudice rimettente non era chiamato a decidere sulla responsabilità degli imputati, si è affermato: «[i]nnanzitutto, il rimettente ha sollevato tale questione nel corso dell’udienza preliminare, omettendo di indicare se gli imputati avessero formulato la richiesta di definizione del giudizio con il rito abbreviato di cui all’art. 438 del codice di procedura penale o con il cosiddetto patteggiamento, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. […]. Pertanto il giudice rimettente non è chiamato a decidere sulla responsabilità degli imputati e quindi neppure, in ipotesi, a riconoscere la circostanza attenuante, la cui mancata previsione è oggetto di censura. Ciò rende meramente eventuale e ipotetica – nonché comunque prematura – l’odierna questione. Per costante orientamento di questa Corte, infatti, la questione incidentale è irrilevante e, dunque, inammissibile se l’applicazione della norma censurata è solo eventuale e successiva (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2020 e n. 217 del 2019; ordinanze n. 210 e n. 42 del 2020)» (sentenza n. 114 del 2021).
Orbene, per la Consulta, nella fattispecie qui in esame, la questione di legittimità costituzionale era rimessa ad essa dal giudice dell’udienza preliminare, investito della decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero, epperciò non chiamato a deliberare sulla responsabilità penale dell’imputato e, di conseguenza, sull’applicazione della sanzione penale astrattamente comminata dal legislatore in guisa tale che si erano venuti a determinare dei profili decisori che, in assenza di una richiesta di riti alternativi, competevano al giudice del dibattimento.
In altri termini, ad avviso del Giudice delle leggi, poiché la censura proposta concerneva esclusivamente il trattamento sanzionatorio della diffamazione militare, era da escludere che in questa fase processuale il giudice dovesse fare applicazione del frammento di norma censurato (ordinanza n. 56 del 2023).
La rilevanza prospettata dal giudice rimettente, ad avviso del quale l’accoglimento della questione, con la conseguente espansione applicativa della norma comune di cui all’art. 595 cod. pen., avrebbe tra l’altro comportato una declaratoria di difetto di giurisdizione, con trasmissione degli atti alla competente autorità giudiziaria ordinaria, per la Consulta, appariva sovrapporre indebitamente il profilo, logicamente propedeutico, dell’ammissibilità a quello del merito, dilatando indebitamente il perimetro della rilevanza dato che, nella fase processuale dell’udienza preliminare, in assenza di richiesta di riti alternativi, il tema della pena (detentiva) non viene in considerazione, sicché il giudice di tale fase non è legittimato a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma che la prevede.
Chiarito ciò, i giudici di legittimità costituzionale reputavano altresì la suddetta questione inammissibile per un ulteriore profilo rilevabile d’ufficio.
Invero, la Consulta, prendendo atto che il giudice rimettente, nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, sosteneva che l’applicabilità dell’art. 10 CEDU pure alla diffamazione militare va affermata anche se il reato non è commesso con il mezzo della stampa o comunque nell’esercizio dell’attività giornalistica e di quella sindacale, evidenziava però come, nonostante questo, tuttavia, il rimettente non considerasse in concreto che la specifica condotta diffamatoria rilevante nel giudizio a quo risultava tenuta nell’ambito di un’attività sindacale in campo militare, vale a dire un’attività che, come lo stesso giudice a quo rilevava, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2018, ha trovato compiuta previsione normativa prima nella legge n. 46 del 2022 e poi nel d.lgs. n. 192 del 2023.
Ebbene, per il Giudice delle leggi, pur sottolineando la «forte […] similitudine tra attività sindacale e giornalistica» ai fini del riconoscimento dell’art. 10 CEDU, il giudice a quo aveva omesso qualsivoglia motivazione in ordine all’applicabilità o meno – per il profilo dell’esercizio di un diritto – della relativa causa di giustificazione, ancorché richiamata al fine di argomentare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Nella fattispecie, in effetti, il giudice rimettente, sebbene avesse evidenziato il contesto – l’attività sindacale, posta in essere nell’esercizio di un diritto riconosciuto anche al personale militare – nel quale la ritenuta diffamazione risulta commessa, non si era in alcun modo confrontato, foss’anche in termini di mera plausibilità, con la problematica dell’eventuale rilevanza della causa di giustificazione.
Orbene, ad avviso della Corte, per quanto non sia chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato, il giudice dell’udienza preliminare è nondimeno tenuto a formulare una prognosi sulla «ragionevole previsione di condanna» (art. 425, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 23, comma 1, lettera l, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, recante «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari») che, ove positiva, comporta il rinvio a giudizio, mentre, ove negativa, comporta una sentenza di non luogo a procedere, tanto più se si considera che l’eventuale sussistenza di cause di giustificazione o di cause di non punibilità rientra nel perimetro entro il quale il giudice dell’udienza preliminare è tenuto a formulare tale giudizio (ordinanza n. 56 del 2023).
Nella specie, invece, pur non essendo il giudice rimettente tenuto a una decisione anticipata sull’applicabilità della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto sindacale – peraltro richiamato per invocare l’applicabilità dell’art. 10 CEDU –, avrebbe dovuto quantomeno argomentare, in termini di non implausibilità, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della scriminante (sentenza n. 94 del 2023) e, di conseguenza, la rilevanza penale del fatto, sia pure nella limitata prospettiva della «ragionevole previsione di condanna» quale regola di giudizio dell’udienza preliminare prevista dall’art. 425, comma 3, cod. proc. pen..
Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione di legittimità costituzionale sollevata nei termini suesposti era dichiarata pertanto inammissibile.

5. Conclusioni: inammissibilità della questione suesposta


Fermo restando che, come è noto, l’art. 227 del codice penale militare di pace dispone che il “militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi”, con la decisione in esame, la Consulta ha dichiarato inammissibile l’illegittimità costituzionale di siffatta norma incriminatrice nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione.
Di conseguenza, per effetto di tale pronuncia, codesto reato continua ad essere punito con la reclusione militare fino a sei mesi.
Questa è dunque la novità che connota la sentenza qui in commento.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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