Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana – sez. giurisdizionale, 4/9/2007 n. 719

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Prendendo avvio dalla sentenza in oggetto menzionata, si riportano in sintesi, deducendoli dalla motivazione della stessa, i principi affermatisi nel tempo in materia di affidamento diretto di un servizio, affidamento diretto che ad ogni modo deve essere considerato un’eccezione di stretta interpretazione al sistema ordinario dell’evidenza pubblica e deve rispondere alla esistenza di specifici requisiti, in assenza dei quali può essere leso il principio della par condicio con conseguente illegittimità.
Pertanto viene ritenuto essenziale, ai fini del controllo analogo: a) il possesso dell’intero capitale azionario (che tuttavia da solo è condizione necessaria, ma non sufficiente a determinare il controllo analogo come ritiene C. d. S. . V 22-12-05 n. 7345, vedi oltre): b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.
Il caso concreto analizzato nel caso in oggetto vedeva il Comune di Catania il quale aveva bandito una gara per l’affidamento del servizio di illuminazione votiva nei cimiteri cittadini.
Entrando nel merito della questione occorre premettere alcune considerazioni generali sulla normativa europea di riferimento e sulla costituzione economica, formale e sostanziale, che essa ha indotto anche nel nostro Paese. Il principio della concorrenza è uno dei basamenti della costituzione economica europea, soprattutto in relazione al mondo delle commesse pubbliche. Nei considerando delle direttive “lavori”, “servizi” e “forniture” (oggi accomunate nella direttiva n. 18 del 2004), espressamente si fa riferimento alla volontà dell’Unione Europea
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di garantire la completa parità di accesso di tutte le imprese europee al monte dei contratti pubblici, che costituisce, e di ciò l’Unione ha piena coscienza, il volano economico più consistente nel sistema interventista in vigore in Europa. Tale attenzione e l’accentuazione del principio della concorrenza hanno conseguenze molteplici. Per ciò che qui interessa, la conseguenza rilevante è che le imprese europee (ma con ciò si intende anche quelle dello stesso Paese del cui ordinamento giuridico si giudica) devono essere poste sullo stesso piano, concedendo loro le medesime opportunità, sia sotto il profilo dell’accesso ai contratti pubblici (e quindi attraverso il sistema ordinario della evidenza pubblica), sia impedendo che particolari situazioni economiche pongano alcune di esse in una condizione di privilegio o comunque di favore economico. Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento.
L’Unione Europea è ben consapevole della esistenza di situazioni nelle quali l’interesse pubblico affidato ad un soggetto pubblico sia più proficuamente curato attraverso un soggetto imprenditoriale che ad esso risponda direttamente, in virtù di un rapporto di proprietà azionaria o comunque di controllo diretto. In tal caso non considera a priori contrario ai principi del trattato affidare il contratto senza procedere ad una gara, ma a precise condizioni. Infatti, una tale evenienza depaupera il monte contrattuale a disposizione di tutte le imprese europee, e per questo il sistema dell’affidamento diretto deve, in primo luogo, essere considerato un’eccezione di stretta interpretazione (quella che nel linguaggio giudiziario della Corte di giustizia viene, infatti, definita “eccezione Teckal”) al sistema ordinario delle gare; in secondo luogo deve rispondere alla sussistenza di ben precisi presupposti, in assenza dei quali l’affidamento è idoneo a turbare la par condicio e quindi a violare il trattato (e le direttive).
Il rispetto delle eccezioni dell’obbligo della gara, però, non è sufficiente per ricondurre l’affidamento diretto all’interno dell’alveo della concorrenza e della par condicio tra le imprese. Si è accennato poc’anzi al pericolo che si creino particolari situazioni di privilegio per alcune imprese. Una situazione di tal fatta si verifica quando un’impresa usufruisca, sostanzialmente, di un aiuto di Stato,
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vale a dire di una provvidenza economica pubblica atta a diminuirne o coprirne i costi. Il privilegio economico non necessariamente si concretizza, brutalmente, nel contributo o sussidio diretto o nell’agevolazione fiscale o contributiva, ma anche garantendo una posizione di mercato avvantaggiata rispetto alle altre imprese. Anche in questo senso, il privilegio non necessariamente si realizza in modo semplicistico introducendo limiti e condizioni alla partecipazione delle imprese concorrenti, ma anche, ed in maniera più sofisticata, garantendo all’impresa una partecipazione sicura al mercato cui appartiene, garantendo, in sostanza, l’acquisizione sicura di contratti il cui provento sia in grado di coprire, se non tutte, la maggior parte delle spese generali, in sintesi: un minimo garantito. Non è necessario che ciò determini profitto, purché l’impresa derivi da tali contratti quanto è sufficiente a garantire e mantenere l’apparato aziendale. In una tale situazione, è fin troppo evidente che ogni ulteriore acquisizione contrattuale potrà avvenire offrendo sul mercato condizioni concorrenziali, poiché l’impresa non deve imputare al nuovo contratto anche la parte di costi generali già coperta, ma solo il costo diretto di produzione. Gli ulteriori contratti, sostanzialmente, diventano più che marginali e permettono o la realizzazione di un profitto maggiore rispetto all’ordinaria economia aziendale del settore, ovvero di offrire sul mercato prezzi innaturalmente più bassi, perché non gravati dall’ammortamento delle spese generali. Nell’uno o nell’altro caso, il meccanismo del minimo garantito altera la par condicio delle imprese in maniera ancora più grave perché con riflessi anche sul mercato dei contratti privati. L’impresa beneficiaria di questa sorta di minimo garantito, infatti, è competitiva non solo nelle gare pubbliche, ma anche rispetto ai committenti privati, sicché, in definitiva, un tale sistema diviene in sé assai più pericoloso e distorcente di una semplice elusione del sistema delle gare. Potenzialmente ciò induce ed incoraggia il capitalismo di Stato e conduce alla espulsione delle imprese private marginali.
Dai rischi sopra segnalati discendono direttamente le misure che l’Unione Europea ha adottato per contenere il fenomeno dell’affidamento diretto. Esse si indirizzano, sostanzialmente, su due strade: da un lato assimilare quanto più possibile l’impresa assegnataria alla medesima amministrazione appaltatrice;
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dall’altro non introdurre nell’ambito del mercato privato l’elemento di disturbo, costituito da tale tipo di impresa. Al primo obiettivo corrispondono i principi che, sincreticamente, possiamo indicare come quelli del “controllo analogo”; al secondo, il principio della “attività prevalente”, vale a dire della tendenziale esclusività della attività economica a favore dell’azionista: l’impresa pubblica non può in nessun modo inserirsi nel mercato privato nel quale costituirebbe un elemento di disturbo e pericolo.
Dall’esame della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, di cui infra, emerge con chiarezza che questo imprenditore non può essere un vero imprenditore. Egli non rischia, costituisce solo un braccio operativo della Pubblica Amministrazione, professionalizzato e capace di acquisire sul mercato i mezzi e le professionalità necessarie, ma sostanzialmente equiparabile a quelle figure tradizionali del diritto amministrativo, ormai scomparse, quali le aziende autonome o gli organi con personalità giuridica. I motivi per cui un soggetto pubblico opera la scelta di agire attraverso una società per azioni ad hoc costituita, anziché apprestare all’uopo un ufficio tecnico, possono essere i più vari. Dalla esigenza di sottrarsi alla contabilità pubblica, a quella di acquisire uomini e mezzi in maniera flessibile attingendo al mercato, e quindi aderendo alle sue logiche dei prezzi e delle retribuzioni; dalla temporaneità della intrapresa, alla particolare professionalità non reperibile attraverso il reclutamento pubblico etc. Ciò non rileva molto, ciò che l’Unione Europea pretende è che tale esperienza rimanga confinata all’interno del soggetto pubblico azionista o proprietario, e che un tale imprenditore non abbia margini e discrezionalità per invadere il mercato libero.
E’ fin troppo facile, ormai, comprendere la genesi e il significato delle condizioni poste dalla giurisprudenza europea alla utilizzazione di un affidamento indiretto:
a. La totale proprietà delle azioni, o comunque del capitale, da parte del soggetto pubblico;
b. Il controllo totale della volontà formale della persona giuridica attraverso l’espressione degli amministratori;
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c. La sussistenza di un controllo specifico non solo sulle procedure formali di manifestazioni di volontà (contratti), ma anche sulle politiche aziendali, per garantire che esse non si evolvano in direzione contraria o comunque diversa dai semplici e stringenti bisogni tecnici dell’azionista. E’ quello che, in sostanza, definiamo “controllo analogo”.
d. L’esclusività dell’attività a favore dei soggetti pubblici (uno o più non rileva) che l’hanno costituita o che ne sono proprietari.
Le condizioni sopra indicate non escludono l’autonomia gestionale ed operativa della impresa, allo stesso modo in cui nel caso di socio unico di una società privata, questi orienta secondo la sua indiscutibile ed insindacabile volontà la politica dell’impresa posseduta, ma questa attua gli indirizzi attraverso la professionalità e le scelte operative autonome dei suoi dirigenti ed impiegati. Allo stesso tempo, però, la volontà del socio unico è, in questo particolare caso, regolamentata dal diritto europeo nel senso che gli è del tutto interdetto perseguire obiettivi e risultati imprenditoriali in concorrenza nel mercato pubblico o privato dei contratti. Alcuni passi della giurisprudenza europea chiariranno ancor meglio il rapporto tra il controllo analogo ed i poteri dei consigli di amministrazione ed il concetto della attività prevalente o esclusiva.
Come è noto nella prima sentenza dedicata all’argomento (causa Teckal C-107/98 sentenza del 18 novembre 1999) in un importante passaggio la Corte si espresse nel seguente modo: “Può avvenire diversamente (la stipulazione di un contratto tra un soggetto pubblico e una persona giuridicamente distinta senza il ricorso alla gara n. d. r.) solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano.”
In quel procedimento l’Avvocato generale, nelle proprie conclusioni, aveva sottolineato che: “Se ammettiamo la possibilità delle amministrazioni aggiudicatrici di potersi rivolgere a enti separati, al cui controllo procedere in modo assoluto o relativo, per la fornitura di beni in violazione della normativa comunitaria in materia, ciò aprirebbe gli otri di Eolo per elusioni contrastanti con
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l’obiettivo di assicurare una libera e leale concorrenza che il legislatore comunitario intende conseguire attraverso il coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture.” con ciò chiarendo l’obiettivo finale della impostazione giuridica, cui precedentemente si è accennato.
Aggiungeva ancora l’Avvocato generale che si sarebbe dovuto procedere alla gara qualora si giungesse alla conclusione “che i rapporti tra il comune e **** sono conseguenza dell’incontro di due volontà autonome che rappresentano interessi giuridici distinti, conformemente all’abituale schema di rapporti che caratterizza i rapporti contrattuali di due soggetti distinti, e questa conclusione risulta anche dall’esame delle condizioni contrattuali”
Questa ultima considerazione apre alla valutazione degli interessi in campo e quindi della realtà economica sottostante al fenomeno dell’affidamento diretto e sarà sviluppata dalla giurisprudenza comunitaria e del Consiglio di Stato.
Come è stato osservato da autorevole giurisprudenza (Consiglio di Stato, V, 13 luglio 2006, n. 4440) l’espressione usata dalla Corte nella sentenza Teckal non chiariva cosa dovesse intendersi per “controllo analogo” fornendo però alcune indicazioni significative. Si ammetteva, infatti, che l’affidatario potesse non essere un ufficio interno della amministrazione e che questo soggetto ben poteva svolgere una parte della propria attività anche a favore di altri soggetti pubblici o privati. A questa ultima conclusione la Corte perveniva nel paragrafo 50 della sentenza dettando, sostanzialmente, due condizioni per quello che in futuro sarebbe stato chiamato affidamento in house o diretto: il controllo analogo, appunto, e la realizzazione della propria attività per “la parte più importante di essa” a favore del soggetto affidante.
La giurisprudenza della Corte ha successivamente meglio specificato il concetto di controllo analogo, astenendosi dal dettare un decalogo espresso e puntuale, ma utilizzando lo strumento tipicamente pretorio della decisione del caso concreto per indicare, quale sorta di precedente, la regola, vale a dire la ripetitività ragionevole della decisione, cui si atterrà in futuro.
E così si è precisato (sentenze Truley/Bestattung Wien C-373/00 del 27 febbraio 2003, punto 68; Comm/Repubblica Francese. C-232/99 del 1 febbraio 2001, punti 48 e 49) che il concetto di controllo analogo si risolve in quello di “dipendenza”. Ed ancora che ciò presuppone (sentenze Stadt Halle, C-26/03,
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Parking Brixen C-458/03) un’influenza determinante da parte del soggetto affidante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti (sentenza Parking Brixen, punto 65), sia sulle attività gestionali direttamente connesse al raggiungimento degli scopi sociali. Poiché ciò determina l’insufficienza degli usuali poteri di vigilanza e controllo previsti dal diritto societario per i soci unici o di maggioranza (art. 2497 bis del c.c.) (sentenza Parking Brixen, punto 69), è necessario predisporre procedure e strumenti di più incisivo intervento, quali un ufficio di interfaccia ad hoc.
Il controllo analogo, nella visione della Corte europea, è costituito da una serie di poteri pregnanti: a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione, il che garantisce esattamente il controllo dell’indirizzo strategico ed operativo della società; b) indicazione dei dirigenti; c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale. Spetta, ovviamente, al soggetto controllante provare la sussistenza di tali circostanze che lo legittimino all’utilizzazione della “eccezione Teckal”, poiché l’affidamento diretto è l’eccezione (vedi su questi punti: C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440, V 30 agosto 2006, n. 5072).
Ha osservato ancora la Corte (sentenza Truley/Bestattung Wien C-373/00 punti 70-74) che “Per quanto riguarda, in particolare, il criterio relativo al controllo della gestione, … esso deve creare una dipendenza nei confronti dei poteri pubblici equivalente a quella che esiste allorché uno degli altri due criteri alternativi, (previsti dall’articolo 1 lettera b), secondo comma terzo trattino delle direttive allora in vigore 92/50, 93/36 e 93/37. ndr) è soddisfatto”, vale a dire il finanziamento che provenga in modo maggioritario dai poteri pubblici oppure la nomina da parte di questi ultimi di una maggioranza dei membri che costituiscono l’organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza di tale organismo, che permetta ai poteri pubblici d’influenzare le decisioni del suddetto organismo in materia di appalti pubblici (v. anche sentenza Commissione/Francia, C-237/99 punti 48 e 49).
L’ingerenza sostanziale dell’ente controllante si deve realizzare non sotto un profilo formale ma sostanziale, impedendo, in concreto, l’attuazione di politiche aziendali che, di fatto, incidano sulla concorrenza nel modo sopra segnalato. Anche in questo caso l’atteggiamento pragmatico della giurisprudenza
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comunitaria, sostanzialmente sembra richiamarsi al meccanismo logico tipico del così detto ”effetto utile” che è, praticamente, uno dei fili conduttori dei principi ermeneutici europei.
E quindi la Corte ha sottolineato (Truley/Bestattung Wien citata) che non è sufficiente un mero controllo a posteriori per soddisfare il criterio del “controllo analogo”, perché, per definizione, un tale controllo non consente alle pubbliche autorità di influenzare preventivamente (atteso che un’influenza successiva è una contraddizione logica) le decisioni dell’organismo interessato in materia di appalti pubblici.
Nella stessa sentenza la Corte individua a contrario quale sia concretamente il tipo di organizzazione manageriale atto a soddisfare le esigenze segnalate, là dove, accogliendo le osservazioni dell’avvocato generale, ritiene che la città di Vienna in effetti, esercitasse un tale tipo di controllo per il fatto che la Bestattung Wien è direttamente assoggettata al controllo della città di Vienna, in ragione della sua appartenenza ad una società – la WSH – il cui intero capitale è nelle mani di tale ente locale. Ed ancora per il fatto che dall’ordinanza di rinvio emerge anche che il contratto sociale della Bestattung Wien prevede espressamente che il Kontrollamt della città di Vienna ha il diritto non solo di controllare il bilancio di esercizio di detta società ma altresì di accertarsi che «l’amministrazione corrente sia esatta, regolare, improntata a risparmio, redditizia e razionale». Lo stesso punto del contratto sociale autorizza inoltre il Kontrollamt a visitare i locali e gli impianti aziendali di detta società e a riferire sul risultato di tali verifiche agli organi competenti nonché ai soci e alla città di Vienna. Siffatte prerogative consentono quindi un controllo attivo sulla gestione della suddetta società.
Se estrapoliamo da questo passaggio i principi astratti riflessi dalla situazione di fatto, giungiamo alla conclusione che essenziale, ai fini del controllo analogo, sono: a) il possesso dell’intero capitale azionario (che tuttavia da solo è condizione necessaria, ma non sufficiente a determinare il controllo analogo come ritiene C. d. S. . V 22-12-05 n. 7345, vedi oltre): b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i
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luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.
Ed infatti, testualmente, conclude la Corte: “Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve risolvere la questione nel senso che un mero controllo a posteriori non soddisfa il criterio del controllo della gestione figurante all’art. 1, lett. b), secondo comma, terzo trattino, della direttiva 93/36. Soddisfa per contro detto criterio una situazione in cui, da un lato, le pubbliche autorità verificano non solo i conti annuali dell’organismo considerato, ma anche la sua amministrazione corrente sotto il profilo dell’esattezza, della regolarità, dell’economicità, della redditività e della razionalità e, dall’altro, le stesse autorità sono autorizzate a visitare i locali e gli impianti aziendali del suddetto organismo e a riferire sul risultato di tali verifiche a un ente locale che detenga, tramite un’altra società, il capitale dell’organismo di cui trattasi.”
Si può quindi concludere che è necessario si realizzi quello che è definito “controllo strutturale”, ma che questo non può limitarsi agli aspetti formali relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario.
Questo ultimo punto, del possesso del capitale sociale, richiede una precisazione.
L’aspetto non era stato sufficientemente trattato nella sentenza Teckal, ma la Corte ha avuto modo di ulteriormente approfondirlo, giungendo a conclusioni molto trancianti vale a dire che condicio sine qua non perché si verifichi un legittimo affidamento diretto è che il capitale sociale appartenga interamente al soggetto pubblico, dato che “la partecipazione anche minoritaria di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi” (Stadt Halle, C-26/03, punto 49, 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32). Ancora una volta la Corte appunta la sua attenzione sulla situazione di vantaggio che deriverebbe indirettamente al soggetto privato il quale, per il solo fatto di essere associato con un soggetto pubblico, godrebbe di un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti privati, sia nei
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riguardi dell’appalto pubblico, sia nei confronti del mercato privato (punto 51 della sentenza Stadt Halle citata).
Appare evidente dalla giurisprudenza citata, tuttavia, che il requisito del possesso totale della mano pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente. Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza in ordine ai poteri di indirizzo e controllo che si è sopra richiamata, atteso che, soprattutto nel nostro ordinamento giuridico, la condizione di socio unico proprietario non necessariamente garantisce un potere diretto sulle strategie e sugli indirizzi della società, dovendo la volontà di esso comunque essere filtrata ed attuata dagli organi societari. Per tale motivo la Corte ha superato il precedente orientamento di cui era espressione C.d.S., V, 22 dicembre 2005 n. 7345 già citata.
Ma ancora, la Corte si è spinta più avanti, prevenendo la possibilità concretamente realizzatasi in varie circostanze, che il soggetto economico avvantaggiato dall’affidamento diretto perché interamente pubblico, rientrasse successivamente nel circuito privato. Da ciò il principio per cui lo statuto dell’affidatario diretto non deve prevedere la cessione, anche solo di parte, del capitale azionario a futuri soci privati.
Si è già osservato che nella sentenza Teckal la Corte richiama la situazione di dipendenza sostanziale tra il soggetto affidante e affidatario anche sotto il profilo della prevalenza della attività svolta dall’impresa affidataria (“la parte più importante ….”).
Si sono già esplicitati i motivi economici sottostanti a questa impostazione. La limitazione della attività “privata” della impresa non rileva nei confronti del mercato pubblico delle commesse, quanto piuttosto nei confronti del mercato privato. I requisiti funzionali soddisfatti dal “controllo analogo” sono sufficienti per qualificare l’impresa come, sostanzialmente, un braccio operativo della amministrazione, sotto i due profili sostanziali della supremazia e della proprietà; essi, però, non sono sufficienti ad impedire la distorsione della concorrenza nel mercato privato, anzi, paradossalmente, la aggravano perché permettono, in astratto, che solide imprese pubbliche, ben governate dagli organi pubblici, acquisite remunerative commesse pubbliche, si presentino sul mercato privato in condizioni di forte concorrenza.
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Pertanto, unitamente agli altri elementi qualificanti, quali il controllo totalitario della partecipazione (sentenze Stadt Halle, C-26/03, punti 49 e 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32) l’esercizio diretto deve essere caratterizzato dalla quasi esclusività, quantitativa e qualitativa, delle attività svolte dall’impresa nei confronti dell’Ente controllante (sentenza Carbotermo spa C-340/04, punti 62, 63, 64).
Questo ultimo punto giova essere brevemente approfondito.
Sembrano ormai chiari, ripercorrendo l’iter logico ed evolutivo della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, i motivi e gli scopi ultimi delle norme, anche pretorie, consolidatesi nella materia. La giurisprudenza traccia dell’affidatario diretto un ritratto stringente, che, in parole povere e sincreticamente, potremmo definire come una mera articolazione interna della pubblica amministrazione sia pure sotto una forma giuridica che ne separa la personalità.
Che questa articolazione svolga i suoi compiti contrattuali esclusivamente nei confronti dell’Ente è, quindi, conseguenza logica ed ineludibile.
La giurisprudenza della Corte si è astenuta dall’indicare parametri numerici, quali principalmente la quota di fatturato ”pubblico” rispetto a quello privato, e con saggezza.
Più ancora che l’individuazione di una soglia percentuale necessita un giudizio pragmatico nel caso concreto che si basi, però, non solo sull’aspetto quantitativo, ma anche su quello qualitativo. In altri termini, la natura dei servizi, opere o beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto nel mercato pubblico e privato. Che un’impresa creata per gestire lo spin off immobiliare di un grande ente locale come una Provincia, fornisca, saltuariamente, una sola volta nell’anno, e in quantità irrisoria rispetto al fatturato pubblico, un servizio di global service ad una grande impresa privata dello stesso territorio, particolarmente importante sotto il profilo sociale, potrebbe non violare il principio della prevalenza. Ma se la stessa operazione, negli stessi limiti quantitativi, cominciasse ad inserirsi in un piano aziendale di espansione, anche territoriale, ciò implicherebbe una
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rilevanza “qualitativa” della operazione in contrasto con il principio della prevalenza.
Sotto questo profilo la giurisprudenza della Corte e del Consiglio di Stato mostrano di ritenere a priori che l’espansione territoriale, anche a vantaggio di altri enti pubblici analoghi, violi la prevalenza. Questo Consiglio condivide pienamente questo indirizzo.
Sembra piuttosto evidente che l’impresa controllata da un ente locale, nel momento in cui partecipa ad una gara fuori territorio, sia pure bandita da un ente locale analogo a quello che la controlla (in ipotesi comune e comune) si pone nei confronti del mercato imprenditoriale locale come concorrente sleale (per i motivi ampiamente sopra illustrati) e quindi non solo questa sua espansione può condurre da un lato alla inammissibilità della sua partecipazione alla gara, fino a che dura il regime di affidamento diretto nei confronti del suo ente controllante, ma anche al venire meno della sua qualifica di soggetto “affidatario diretto” (o soggetto in house come si dice nel gergo comune), sì che delle due l’una: o l’impresa non partecipa a gare fuori territorio, e mantiene così il suo status, o vi partecipa, e perde il suo status, con le ovvie conseguenze nei confronti della legittimità dell’affidamento diretto già realizzato o da realizzare. Già con la sentenza n. 4586 del Consiglio di Stato, sez. V, del 3 settembre 2001, si era ritenuto che il vincolo territoriale entrasse in gioco qualora la distrazione di mezzi e di risorse fosse realmente apprezzabile e tale da creare nocumento agli interessi della comunità locale espressione della società.
Il Consiglio giudicava la questione sotto il profilo dell’interesse pubblico dell’ente promotore della società, preoccupandosi che non si verificasse una sorta di “peculato per distrazione” delle risorse dall’una all’altra comunità locale. L’extraterritoriale influenza, quindi, la legittimazione alla gara nella visione del Consiglio. La tesi è esatta e condivisibile, sotto questo profilo, ma deve essere integrata con le considerazioni di diritto comunitario sopra esposte. In effetti, la circostanza che l’affidatario diretto impieghi risorse consistenti fuori del territorio di competenza del suo ente promotore, è non solo indice di una possibile cura affievolita dell’interesse pubblico di questi, ma anche, e soprattutto, della rilevanza della attività a favore di soggetto diverso dal suo ente proprietario.
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Quindi l’extraterritorialità della attività incide, a priori, proprio sul concetto di prevalenza, particolarmente nel senso qualitativo che si vedrà infra.
A fortiori, infine, è del tutto da escludere un affidamento diretto da parte del secondo soggetto pubblico, atteso che esso, pur rivestendo una qualificazione pubblica, non è proprietario del pacchetto azionario e dunque non esercita alcun controllo, né analogo né difforme, sull’impresa affidataria.
Per concludere sul punto, si deve ritenere che il criterio della prevalenza (“la parte più importante…”) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante.
A tale proposito si ricorda la più volte citata sentenza della Corte Europea in causa Spagna/Commissione, C-349/97 del 8 maggio 2003, punto 204, nella quale la Corte, interpretando se stessa, ha assimilato l’espressione “più importante”, in precedenza utilizzata, al termine “essenziale”, come pure ha fatto nella citata sentenza Parken Brixen, punto 71.
Si veda, soprattutto, questa ultima sentenza, nella quale la corte esprime un concetto fondamentale. Essa, infatti, sincreticamente considera l’aspetto qualitativo e quantitativo, riferendosi al fatto che il soggetto “ha invece acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo del comune. In questo senso militano: a) la trasformazione della azienda speciale in società per azioni; b) l’ampliamento dell’oggetto sociale; l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; c) l’espansione territoriale; d) i considerevoli poteri conferiti al Consiglio di Amministrazione.” Come è evidente il punto chiave è ”l’acquisizione di una vocazione commerciale” che, dietro lo schermo della forma giuridica della società pubblica, di fatto consegna questo imprenditore al mercato libero, pur in condizioni di privilegio. In tale motivazione cogliamo quindi, frammisti, i concetti del controllo analogo, ma anche della prevalenza della attività, sussunti nella rilevante definizione di: “vocazione commerciale”. Da essa, per altro, C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440 che inserisce definitivamente tale giurisprudenza anche nel circuito giurisprudenziale pretorio del Giudice amministrativo italiano.
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Ma soprattutto la sentenza Carbotermo chiarisce i termini. Nel punto 62 utilizza l’espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale”, e nel punto successivo afferma: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”.
Il cammino della giurisprudenza della Corte Europea, che ha sempre più ristretto il concetto espresso da quella espressione “parte più importante”, lascia prevedere che il traguardo definitivo della totale esclusività sia assai prossimo. Si parte infatti dalla espressione “parte più importante” della sentenza Teckal, redatta in lingua italiana, e Stadt Halle, redatta in lingua tedesca, alla complessa motivazione della sentenza Parken Brixen appena citata, alla espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale in questione”, sentenza Carbotermo, C340/04 del 11 maggio 2006, punto 62, sopra citata, anch’essa redatta in lingua italiana.
Le differenze linguistiche sono essenziali per comprendere la volontà della Corte, perché, per quanto quella redatta nella lingua processuale faccia fede, le altre chiariscono, con le sfumature, il significato dei termini meno precisi ed integrano quello che potremmo definire “il diritto vivente” nella comparazione dei diversi linguaggi giuridici.
L’espressione, in italiano nelle due prime sentenze, “parte più importante” è stata tradotta in tedesco con “im wesentlichen” che significa, in realtà, “essenzialmente”, e con il medesimo senso è stata tradotta in inglese: “the essential part of his activities”; in francese: “l’essentiel de son activité”.
Nella sentenza Stadt Halle, redatta in tedesco, compare infatti direttamente l’espressione “im wesentlichen” (essenzialmente). Nella sentenza Parken Brixen, redatta in tedesco ma proveniente da un rinvio del TAR di Bolzano e successivamente recepita con gli stessi termini dai giudici italiani di lingua tedesca, ben coscienti delle sfumature di significato, si usa ancora il termine “im wesentlichen”, anche se la traduzione in italiano, tralaticiamente, torna ad usare l’espressione “più importante.
Si comprende agevolmente come “essenziale” rinvii ad un concetto qualitativo, oltre che quantitativo, facendo riferimento all’”essenza”, ovvero all’ubi consistam dell’affidatario diretto. In altri termini, la Corte accetta un’attività esterna
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puramente marginale, insignificante, non essenziale, assai prossima ad un’inesistenza, che è il modo speculare di vedere l’esclusività.
Ma infine, realmente conclusivi sono il punto 62 e 63 della sentenza Carbotermo. Nel punto 62 la Corte usa l’espressione, in lingua italiana, “sostanzialmente destinate in via esclusiva”, già sufficientemente chiara in italiano per la verità, essa è tradotta in tedesco: “im Wesentlichen nur für diese Körperschaft erbracht werden” cioè, esattamente esprimendo il concetto che l’attività sia essenzialmente riservata solo all’ente. In francese è stata resa con: “substantiellement destinées à cette seule collectivité”, ed in inglese, con il medesimo significato: “undertaking’s services be intended mostly for that authority alone”. In aggiunta, il punto 63 della medesima sentenza definisce, a contrario, quali siano le attività che non elidono il nesso dell’affidamento diretto: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”. Il concetto di marginalità è reso in tedesco: “jede andere Tätigkeit rein nebensächlich ist” (espressione che sottolinea che l’attività è “veramente, autenticamente, puramente” (rein) marginale, di secondaria importanza), in francese: “toute autre activité ne revêtant qu’un caractère marginal”, in inglese: “marginal significance”, entrambe espressioni simili a quella italiana.
Concludendo, si comprende che si sia ad un passo dalla totale esclusività, e che, per l’intanto, il giudizio deve essere espresso secondo parametri di eccezionale ristrettezza quantitativa e qualitativa.
Illustrati i principi guida derivanti dall’ordinamento comunitario ed italiano, dalla giurisprudenza della Corte Europea e del Consiglio di Stato, appare agevole concludere che, nella specie, l’affidamento diretto del servizio in questione alla Catania Multiservizi s.p.a. sia illegittimo perché carente dei requisiti necessari a realizzare la così detta “eccezione Teckal”.
In primo luogo si osserva che l’onere della prova della esistenza delle condizioni legittimanti l’eccezione, spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto, come ritenuto dalla giurisprudenza comunitaria sopra citata. Nella specie tali prove non sono state fornite.
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Il Comune di Catania si è limitato a postulare:
a) Il completo possesso pubblico del pacchetto azionario con Italia Lavoro s.p.a. La circostanza non solo è inconferente, ma anzi milita a sfavore dell’affidamento diretto. L’Italia Lavoro s.p.a. possiede, come è emerso in corso di causa, il 49 per cento del pacchetto azionario. Essa, inoltre, non è destinataria dei servizi della Catania Multiservizi che sono peculiari alla attività comunale e non di una società come l’Italia Lavoro. Riesce difficile comprendere come possa ipotizzarsi un controllo completo delle strategie aziendali quando l’ente aggiudicante deve mediare il controllo proprietario con altro soggetto, sia pure pubblico, che persegue diversi interessi pubblici. In ogni caso, la Corte europea ha ammesso la pluralità di soggetti pubblici controllanti, ma la ha condizionata alla omogeneità degli interessi, oltre che alla costituzione, nel caso di pluralità ampia, di un ufficio apposito per il coordinamento del controllo strutturale. Quanto poi alla possibile pluralità dei soggetti pubblici proprietari, è evidente che gli stessi devono trovarsi in condizione di omogeneità di interessi e di bisogni. Vale a dire che la società in questione deve essere di proprietà di enti pubblici i quali, attraverso di essa, soddisfino i medesimi bisogni: più comuni per la gestione dei rifiuti o dei servizi di illuminazione, un comune ed un provincia per la gestione di un servizio di trasporto e così via. Identici i bisogni e quindi identici gli interessi pubblici. Solo in tal caso si può ammettere che lo stesso bisogno sia soddisfatto, da soggetti giuridicamente diversi, affidandosi in maniera diretta alla medesima impresa controllata. Solo incidentalmente si osservi, per altro, che già nella sentenza Parken Brixen la Corte ribadisce la convinzione, recepita dalla giurisprudenza italiana, che non siano soddisfatte la condizione del possesso interamente pubblico delle azioni nel caso in cui lo statuto della società partecipata preveda la dismissione delle o di parte delle quote. Nella specie la circostanza riguarda, come è evidente, non la Catania Multiservizi s.p.a, ma l’Italia Lavoro s.p.a., cioè il soggetto proprietario. Ma poiché l’affidamento diretto troverebbe il presupposto nella totale partecipazione pubblica, la norma circa l’incedibilità a privati del pacchetto azionario deve essere riferita non solo all’affidatario diretto, ma anche ai soggetti pubblici proprietari, poiché è evidente che se il soggetto proprietario divenisse partecipato dai privati, anche l’impresa controllata sarebbe, per
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interposta persona, di proprietà pro quota di privati, venendo meno la condizione richiesta.
b) La sussistenza del controllo analogo solo per il fatto di nominare il presidente del consiglio di amministrazione, i membri dell’intero consiglio e collegio sindacale. Si è già osservato che, nella struttura del nostro diritto societario, ciò non implica necessariamente il completo controllo ed indirizzo delle politiche aziendali. A tal proposito la Giurisprudenza comunitaria, e questo collegio condivide pienamente l’indirizzo, richiede la sussistenza di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri “di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo” (Cons. di Stato, V, 22 aprile 2004, n. 2316). Nessuna prova è agli atti della esistenza di un siffatto pregnante potere di indirizzo.
c) La prevalenza della attività. Dinanzi ad un’attività imprenditoriale pubblica del 62 per cento viene meno perfino la necessità di un giudizio sulla prevalenza qualitativa, atteso che un’attività sul mercato esterno all’ente proprietario pari al 38 per cento del fatturato non può certo definirsi irrisoria. Si aggiunga che la Catania Multiservizi ha realizzato parte di questo 38 per cento di fatturato, fuori dell’ambito territoriale di competenza del comune di riferimento. Tale circostanza sarebbe sufficiente, per quanto si è detto, per ritenere la decadenza dello status di società affidataria diretta.
E’ pertanto assente qualsiasi prova in merito alla sussistenza delle condizioni ampiamente illustrate in precedenza per la realizzazione della eccezione Teckal.
Anzi, si osservi che proprio la Catania Multiservizi s.p.a., nel suo atto di appello, fornisce la base argomentativa per una decisione ad essa sfavorevole. In essa si prospetta che “Premesso che le programmazioni strategiche di una società hanno obiettivi di lungo periodo, tali da ricomprendere non solo le attività tipicamente svolte, ma anche quelle che la società si propone di svolgere nel futuro, appare evidente che, ai fini della questione che ci interessa, rileva esclusivamente la concreta attività svolta dalla società e non le sue mire imprenditoriali.” Con ciò la società intimata ammette la presenza di strategie aziendali di lungo periodo che la vedranno impegnata in attività fuori ambito e
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comunque non con l’ente controllante, assai rilevanti nella gestione aziendale. Tutto ciò è perfettamente legittimo, anzi commendevole, nell’ottica di una sana gestione imprenditoriale, solo che è del tutto estraneo alle condizioni legittimanti l’affidamento diretto, dimostrando che la detta strategia aziendale si ispira a criteri del tutto opposti alla irrisorietà quantitativa ed alla irrilevanza qualitativa della attività non in essere con il soggetto controllante.
In conclusione, l’appello è infondato, poiché la Catania Multiservizi s.p.a., allo stato, dimostra di non corrispondere minimamente alle condizioni necessarie per esser qualificata come soggetto di affidamento diretto.
Parzialmente infondato è altresì l’appello incidentale della Luce Perpetua s.n.c. nella parte in cui reitera le doglianze contro le deliberazioni di costituzione della società ed il contratto di servizio, assorbite dal TAR. A prescindere da qualsiasi considerazione di tardività, non sussiste l’interesse alla impugnazione di tali delibere poiché esse costituiscono solo l’atto con cui il Comune dà vita alla società potenzialmente ad affidamento indiretto. Una tale decisione non trova controinteressati, poiché determina conseguenze giuridiche solo all’interno della organizzazione dell’ente pubblico, proprio per le considerazioni sopra avanzate circa la sostanziale assimilazione della detta società ad un organismo interno della Pubblica Amministrazione. Solo la realizzazione dell’affidamento diretto, nella misura in cui esso avvenga in violazione dei principi italiani e comunitari estesamente citati precedentemente, è lesivo dell’interesse delle società del mercato. In altri termini l’affidamento diretto come strumento giuridico in sé considerato, l’utilizzazione se si vuole della “eccezione Teckal”, non produce alcuna lesione se non ove realizzato, concretamente, in violazione di legge. Ne consegue che qualunque impresa del settore è del tutto estranea ed indifferente alla decisione di costituire la società, mentre sarà tutelata quando, e se, l’affidamento diretto effettivamente avvenga in maniera illegittima.
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Gabriele Gentilini

Gentilini Gabriele

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