Consulta: illegittima la confisca dei beni usati per commettere reati societari

La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641 c.c (confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo).

Allegati

La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641 c.c (confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo): vediamo come. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia

Corte Costituzionale – sentenza n.7 del 4-02-2025

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Indice

1. Il fatto


Il Tribunale ordinario di Vicenza riteneva gli imputati responsabili di plurime condotte di aggiotaggio societario manipolativo e informativo, ostacolo alle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, della Banca centrale europea (BCE) e/o della Commissione nazionale per la società e la borsa (CONSOB), nonché di falso in prospetto, condannandoli a pene comprese tra i sei anni e i sei anni e sei mesi di reclusione, disponendo altresì nei confronti di costoro, ai sensi dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., la confisca di una somma di denaro ritenuta equivalente a quelle utilizzate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza – e cioè all’insieme dei finanziamenti concessi dall’istituto di credito a terzi per l’acquisto di azioni od obbligazioni dello stesso istituto, considerati «funzionali all’illecita alterazione del prezzo delle azioni ed alla creazione dell’artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza» –, precisando di non poter procedere alla confisca diretta di tali somme nei confronti della banca, sottoposta a liquidazione coatta amministrativa.
Ciò posto, a sua volta, la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rilevata l’intervenuta prescrizione di una serie di reati contestati e assolto un imputato da taluni fatti contestatagli, riduceva le pene detentive inflitte agli accusati, condannandoli a pene comprese fra tre anni e undici mesi e due anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione; in accoglimento del gravame della pubblica accusa, stimava, uno degli imputati assolti nel primo grado di giudizio, responsabile di taluni reati ascrittigli, condannandolo alla pena di tre anni e undici mesi di reclusione.
Inoltre, sempre questa Corte territoriale revocava altresì la confisca per equivalente applicata dal giudice di prime cure alle persone fisiche condannate, considerando come tale misura ablativa, di natura punitiva, fosse manifestamente sproporzionata rispetto al disvalore degli illeciti – non avendo gli imputati personalmente «tratto alcun profitto economicamente valutabile dalla commissione dei reati» ed essendo le loro condotte già adeguatamente punite dalle sanzioni detentive irrogate –, nonché disancorata dalla valutazione dell’entità del contributo causale di ciascun imputato nelle condotte contestate; con conseguente violazione delle garanzie di cui agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. e dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Per di più, non reputandosi al contempo necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., i giudici di secondo grado procedevano direttamente all’integrale disapplicazione di tale disposizione, richiamando in particolare la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’8 marzo 2022, in causa C-205/20, NE, secondo la quale il giudice comune è tenuto a disapplicare le sanzioni incompatibili con il principio di proporzionalità di cui all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Avverso tale provvedimento proponevano ricorso per Cassazione, sia il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Venezia, che gli imputati.
In particolare, il Procuratore generale lamentava, tra l’altro, la sussistenza di una violazione di legge, in riferimento agli artt. 2641 cod. civ., nonché agli artt. 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost., per avere la Corte di Appello revocato la confisca per equivalente in base a un giudizio di manifesta sproporzione, malgrado l’art. 2641, secondo comma, cod. civ. configuri tale misura come obbligatoria e insuscettibile di «correttivi di tipo quantitativo correlati alle peculiarità del caso concreto», fermo restando che, nel medesimo motivo di ricorso, «con specifico riguardo all’ammissibilità di una disapplicazione parziale della previsione normativa, con la conseguente possibilità di disporre, in coerenza con il principio di proporzionalità, una confisca non estesa all’intero ammontare delle somme di denaro utilizzate per commettere i reati», questo medesimo Procuratore generale sollecitava la Corte di Cassazione a disporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), al fine di chiedere alla Corte di giustizia se, in base alla indicata sentenza dell’8 marzo 2022, «la normativa nazionale debba essere disapplicata anche quando tale risultato, in assenza di una base legale sufficientemente determinata, finisca, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri, per attribuire al giudice valutazioni discrezionali in tema di politica criminale, rimesse dalla nostra Costituzione al legislatore». Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia

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2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato»


Alla luce delle doglianze prospettate nei suddetti ricorsi, la Sezione rimettente reputava innanzitutto il motivo di ricorso proposto dal Procuratore generale relativo alla revoca della confisca, appena richiamato, meritevole di analisi in via prioritaria.
Nel dettaglio, il giudice a quo sottolineava come fossero ormai passate in giudicato le statuizioni della Corte di Appello circa la non confiscabilità in via diretta, ai sensi dell’art. 2641, primo comma, cod. civ., dei beni strumentali (ossia dei finanziamenti concessi dall’istituto di credito a terzi per l’acquisto di proprie azioni ed obbligazioni e finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell’ente creditizio diversa da quella effettiva: sono citate Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenze 29 novembre 2018-16 gennaio 2019, n. 1991, e 26 maggio-19 settembre 2017, n. 42778), in ragione della sottoposizione della Banca a liquidazione coatta amministrativa, facendosene conseguire da ciò come ormai incontestata sarebbe la sussistenza del presupposto per procedere alla confisca per equivalente ai sensi del secondo comma dell’art. 2641 cod. civ., rappresentato dalla impossibilità di procedere alla confisca diretta.
Inoltre, se nelle more del giudizio era maturato il termine di prescrizione di alcuni dei reati per i quali gli imputati sono stati ritenuti responsabili, sempre ad avviso di questa Sezione della Corte di Cassazione, tale termine non sarebbe spirato per le condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza realizzate il 15 marzo, il 15 aprile, il 15 ottobre e il 4 novembre 2014; ciò che ancora permetterebbe l’applicazione della confisca ai sensi dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ. in relazione a tali condotte.
Il motivo di ricorso del Procuratore generale, infine, per la Corte di legittimità, sebbene fosse meritevole di accoglimento, avrebbe però costretto la Sezione rimettente a vincolare il giudice del rinvio a disporre una misura ablativa che la stessa Sezione riteneva manifestamente sproporzionata, nel senso che un diverso esito sarebbe prospettabile solo laddove il giudice a quo avesse accolto le questioni di legittimità costituzionale formulate, che per tale ragione avrebbe dovuto essere considerate rilevanti, nei seguenti termini: in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, del codice civile, da doversi censurare «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato».
Nel dettaglio, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Sezione rimettente rammentava che la medesima Corte di Cassazione, nella sentenza n. 112 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto degli illeciti amministrativi in materia di abusi di mercato (tra cui l’aggiotaggio manipolativo) e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto.
Successivamente a tale pronuncia, l’art. 26, comma 1, lettera e) della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2019-2020) ha modificato l’art. 187 t.u. finanza, prevedendo che, in caso di condanna per reati in materia di abusi di mercato (tra cui l’aggiotaggio), la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, sia circoscritta ai beni che costituiscono profitto del reato.
Dalla sentenza e dall’intervento legislativo appena citati, per il giudice a quo, emergerebbe il principio per cui «nei casi di reati concernenti gli abusi di mercato, la confisca deve essere limitata al solo profitto, in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria» visto che la misura ablativa con connotazioni «punitivo-sanzionatorie», se estesa al prodotto e ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato mentre la limitazione della confisca al profitto del reato realizzerebbe invece «una proporzione sostanzialmente automatica tra il vantaggio scaturente dalla commissione dell’illecito e l’ammontare della confisca, anche per equivalente, senza alcun riverbero sull’entità del trattamento sanzionatorio».
Il medesimo principio dovrebbe, ad avviso del giudice rimettente, essere dunque applicato alla confisca prevista dall’art. 2641 cod. civ. in relazione ai reati di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, considerata «l’identità della ratio applicativa e della portata di tale disposizione» rispetto agli artt. 187 e 187-sexies t.u. finanza dato che «è proprio un meccanismo di confisca per equivalente strutturalmente correlato ai beni utilizzati per commettere il reato ad essere costruito dal legislatore in termini che non garantiscono in astratto, al di fuori dei casi dei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, la proporzionalità della risposta sanzionatoria, intesa come […] necessaria adeguatezza al fatto, considerato nelle sue componenti oggettive e soggettive, che rappresenta la giustificazione retributiva della pena».
La riprova della sproporzione della misura, del resto, si trarrebbe dalla circostanza che, ove si ragguagliassero le somme di denaro che ne sono oggetto alla pena detentiva, applicando i criteri di cui all’art. 135 del codice penale, si perverrebbe a pene di entità spropositata, «anche indipendentemente dal cumulo con la pur severa pena detentiva applicabile (da due a otto anni di reclusione)», senza contare, tra l’altro, che «l’inesigibilità di importi di tale fatta […] comporta solo il risultato di realizzare, in linea generale, un permanente vincolo obbligatorio sul patrimonio dei soggetti condannati, senza comportare alcun reale vantaggio per il creditore».
D’altronde, la misura ablativa de qua contrasterebbe più in particolare con il divieto, ricavabile dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma Cost., di infliggere pene manifestamente sproporzionate per eccesso, non solo in rapporto alle sanzioni previste per altre figure di reato, ma anche alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, tanto più se si considera che tali pene tenderebbero a essere percepite come ingiuste dal condannato, finendo così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (citandosi all’uopo le sentenze n. 112 del 2019 e n. 68 del 2012 della Consulta), oltre ad essere, altresì, incompatibili con il principio di personalità della responsabilità penale, «che contrasta, in linea generale, con la previsione di “pene fisse”».
Sempre ad avviso del giudice a quo, la confisca in esame colliderebbe inoltre con gli artt. 3 e 42 Cost., nonché – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – con gli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE, trattandosi di una sanzione che incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.
Sarebbe infine violato l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, tenuto anche conto del «principio di proporzionalità che informa la disciplina eurounitaria delle misure ablatorie di carattere patrimoniale» (sono richiamate la decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all’esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio; la decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca; la direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea; il regolamento UE 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca).
Da ultimo, la Sezione rimettente rammentava in conclusione che, dal momento che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale (erano citate le sentenze n. 15 del 2024 e n. 269 del 2017), «la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali», la sua scelta di sollevare questione di legittimità costituzionale, rispetto alla possibile alternativa rappresentata dalla disapplicazione della norma interna contrastante con l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE dipendeva dal fatto che, a prescindere dall’essere quest’ultimo rimedio «foriero, nell’immediato, di incertezze e disparità di trattamento inevitabilmente conseguenti a decisioni adottate da singole autorità giudiziarie», nel caso di specie sarebbe stato necessario garantire, pur nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, «l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona, tra i quali si colloca il principio di legalità in materia penale» (è citata l’ordinanza n. 24 del 2017 della Cassazione).
In effetti, tale principio – che esige la formulazione chiara, precisa e stringente delle norme penali, onde consentire ai consociati di essere edotti delle conseguenze delle proprie condotte ed «impedire l’arbitrio applicativo del giudice» – apparterrebbe peraltro alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell’Unione quale corollario del principio di certezza del diritto (è citata Corte di giustizia, sentenza 12 dicembre 1996, in cause riunite C-74/95 e C-129/95, procedimenti penali a carico di X, paragrafo 25).
Orbene, nella fattispecie in esame, «le esigenze di certezza del diritto penale e quelle correlate di predeterminazione, quantomeno dei criteri di riferimento ai quali il giudice deve attenersi per apprezzare l’esistenza o non (ed eventualmente in che misura) della sproporzione», indurrebbero a «escludere la possibilità di dare un’applicazione, prevedibile negli esiti, del principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria, quando ciò possa condurre a non applicare una misura che il legislatore interno prevede come obbligatoria, senza lasciare al giudice interno alcuno spazio di graduazione».

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3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale


Il Giudice delle leggi, dopo avere ritenuto le questioni suesposte ammissibili, le reputava altresì fondate in riferimento al principio di proporzionalità della pena di cui agli artt. 3, 27, terzo comma, nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, restando assorbiti gli ulteriori parametri evocati dal giudice a quo.
In particolare, la Consulta – dopo avere ricostruito il quadro normativo di riferimento, e averne evidenziato i passi salienti, prospettati dal giudice rimettente, e reputati condivisibili ai fini dello scrutinio sottoposto al suo vaglio giudiziale – riteneva che, dal momento che, come già sottolineato nella sentenza n. 112 del 2019, la confisca del “profitto” di un illecito ha «mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente» alla commissione del fatto in capo all’autore (nello stesso senso, ora, Corte EDU, sentenza 19 dicembre 2024, Episcopo e Bassani contro Italia, paragrafo 74), una tale osservazione vale, allo stesso modo, per le confische disposte dall’autorità amministrativa e per quelle disposte dal giudice penale posto che, anche in relazione a queste ultime, la finalità essenziale della misura risiede nel sottrarre al reo l’utilità economica acquisita mediante la violazione della legge penale, e che egli non ha il diritto di trattenere, proprio in ragione della sua origine radicalmente illecita, e ciò che esclude quell’effetto peggiorativo della sua situazione patrimoniale preesistente, che necessariamente inerisce alle sanzioni dal contenuto “punitivo”.
Al contrario, viceversa, la confisca dei “beni utilizzati per commettere l’illecito” (o semplicemente “beni strumentali”), per la Corte costituzionale, incide su beni non ottenuti attraverso un’attività criminosa, e che dunque, di regola, erano legittimamente posseduti dall’autore del reato al momento del fatto; sicché la loro ablazione ad opera del giudice penale determina un peggioramento della sua situazione patrimoniale preesistente al reato, il che senz’altro esclude che tale misura possa avere una natura meramente “ripristinatoria” dello status quo ante.
Per la Corte di legittimità, laddove, dunque, la confisca in parola sia disposta dal giudice penale, come nel caso disciplinato dall’art. 2641, primo comma, cod. civ., nulla osta a riconoscere che essa debba essere qualificata come vera e propria “pena” di carattere patrimoniale, che si aggiunge alle altre sanzioni principali previste in conseguenza della commissione di ciascun reato.
Orbene, sempre per i giudici di legittimità costituzionale, alle medesime conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla confisca di beni o somme di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere il reato poiché, in linea generale, la confisca per equivalente mira a far sì che il reo subisca, nel suo patrimonio complessivo, la medesima perdita – in termini economici – che avrebbe sofferto laddove fosse stato possibile eseguire, in via diretta, l’ablazione degli specifici beni dei quali la legge dispone la confisca; sì da evitare che egli possa continuare a godere delle utilità derivanti da tali beni, una volta che li abbia comunque messi al riparo dalla pretesa ablatoria statale.
Qualora, dunque, la confisca di un bene o di una somma di denaro abbia natura di pena, quella medesima natura dovrà essere ascritta anche alla corrispondente ipotesi di confisca per equivalente.
Di conseguenza, dalla riconosciuta natura di pena delle confische, tanto dei «beni utilizzati per commettere il reato» (art. 2641, primo comma, cod. civ.), quanto del «denaro o beni di valore equivalente» a tali beni (art. 2641, secondo comma, cod. civ.), se ne fa derivare il loro necessario assoggettamento all’insieme dei principi e delle garanzie che governano la previsione legislativa, l’applicazione e l’esecuzione delle pene.
Ebbene, tra tali principi, per il Giudice delle leggi, viene qui in considerazione la necessità che la pena non costituisca una reazione sproporzionata rispetto alla gravità del reato: necessità che la giurisprudenza costituzionale ha fatto discendere, in particolare, dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., ma che deriva, altresì, dagli obblighi unionali cui l’Italia è vincolata ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., e in particolare dall’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che sancisce espressamente il principio secondo cui «[l]e pene non devono essere sproporzionate rispetto al reato».3.2.– Rispetto alle pene che, come le confische in parola, si risolvano nell’ablazione di una parte del patrimonio della persona interessata, la necessaria proporzionalità della pena ha come termine di relazione non soltanto la gravità oggettiva e soggettiva (sul punto, ex multis, sentenza n. 73 del 2020) del reato, ma anche le condizioni economiche e patrimoniali del soggetto colpito dalla pena.
Nella sentenza n. 28 del 2022, tra l’altro, la Consulta ha richiamato quanto già affermato nella ormai risalente sentenza n. 131 del 1979: mentre la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana», facendosene discendere da ciò che la pena pecuniaria strutturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati», il che determina, come logico corollario, che, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato.
La sentenza n. 28 del 2022, del resto, dal canto suo, ha tratto da tali premesse la conclusione della necessità costituzionale di un meccanismo di adeguamento della pena pecuniaria alle diverse condizioni economiche dei condannati. «Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”», si è in quell’occasione osservato «il vaglio che questa Corte è chiamata a compiere sulla manifesta sproporzione della pena pecuniaria non potrà che confrontarsi con il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario» (nell’ambito del diritto comparato, sulla necessità di tenere in conto, nella valutazione relativa alla manifesta sproporzionalità di una pena pecuniaria stabilita da una legge, le considerazioni economiche e patrimoniali del reo, e comunque la sua effettiva capacità di far fronte al pagamento richiesto, citandosi in particolare Corte Suprema del Canada, sentenza 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault, 3 SCR 599).
Condizione essenziale a garantire la compatibilità con i principi costituzionali delle pene pecuniarie è, allora, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, che l’autorità preposta alla loro applicazione disponga di un potere discrezionale rispetto alla loro applicazione, sì da evitare non solo che la sanzione pecuniaria risulti esorbitante rispetto alla capacità del condannato di farvi fronte, ma anche che essa possa determinare un effetto palesemente eccessivo sulle sue stesse condizioni di vita. Potere discrezionale che, del resto, la legge di regola attribuisce al giudice o all’autorità amministrativa competente in sede di commisurazione della sanzione, come attestato tra gli altri dall’art. 133-bis, cod. pen. in materia di pene pecuniarie, dall’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) in materia di sanzioni amministrative e dall’art. 194-bis, comma 1, lettera c), t.u. finanza in materia di sanzioni per gli illeciti amministrativi ivi previsti.
Orbene, per la Consulta, a tali principi non si conforma l’art. 2641 cod. civ., nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria dei beni strumentali, nonché del denaro o dei beni di valore equivalente agli stessi, fermo restando però che il vizio della disposizione censurata non sta nella illogicità della previsione della confisca per equivalente dei beni strumentali, in ragione dell’allegata natura di misura di sicurezza della confisca diretta di tali beni, e ciò perché la confisca per equivalente in esame partecipa, in realtà, della stessa natura punitiva che caratterizza la confisca dei beni strumentali disciplinata dalla disposizione censurata; sicché non può ritenersi in linea di principio illogica l’ablazione, a carico di chi è soggetto a quest’ultima confisca, di beni o denaro di valore equivalente a quello dei beni strumentali soggetti in via diretta alla pretesa ablativa, ma che lo Stato non riesca ad apprendere.
In effetti, il vizio della confisca tanto dei beni strumentali, quanto dei beni o somme di denaro di valore ad essi equivalente, così come oggi disciplinata dall’art. 2641 cod. civ., risiede – semmai – nella sua obbligatorietà: la quale vincola il giudice ad applicare la misura anche quando, nel caso concreto, essa risulti sproporzionata dato che il primo e il secondo comma di tale disposizione obbligano il giudice a imporre al soggetto un sacrificio patrimoniale, la cui entità dipende esclusivamente dal valore dei beni che, in concreto, sono stati utilizzati per commettere il reato, e ciò senza alcuna relazione con l’effettivo vantaggio patrimoniale conseguito mediante la commissione del reato; e senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura.
Un tale meccanismo è dunque, per la Corte, strutturalmente suscettibile di produrre risultati sanzionatori in concreto sproporzionati, tanto più se si considera che queste incongruità si amplificano ove si consideri che il diritto vivente considera applicabile la confisca per equivalente anche a carico di persone diverse da quelle che erano proprietarie del bene utilizzato per la commissione del reato, purché si tratti di persone penalmente responsabili (o corresponsabili) della sua commissione, il che accade, in particolare, allorché la confisca per equivalente venga disposta a carico della persona fisica che ha agito per conto di una persona giuridica, utilizzando però beni o somme di cui quest’ultima era proprietaria, che sarebbero stati assoggettabili a confisca diretta in quanto strumenti del reato, ma che per qualsiasi ragione non sia più possibile apprendere da parte dello Stato, dato che ciò rende – di fatto – la persona fisica garante dell’eventuale incapienza del patrimonio della persona giuridica rispetto alla pretesa ablativa dello Stato.
Ciò posto, a questo punto della disamina, dopo avere preso atto che quanto sin qui esposto è coerente con le soluzioni adottate in altri ordinamenti e nel diritto dell’Unione europea (richiamandosi all’uopo le norme prevedute in questi ordinamenti e in siffatto diritto sovranazionale), i giudici di legittimità costituzionale giungevano alla conclusione secondo la quale la disciplina specificamente censurata dal rimettente (la previsione in termini obbligatori, nell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., della confisca di una somma di denaro o beni di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere il reato) è incompatibile con tutti i parametri evocati dal rimettente sui quali si fonda il principio di proporzionalità della pena, nella sua dimensione interna e sovranazionale: e dunque con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nonché – per ciò che concerne il diritto dell’Unione – con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Orbene, a fronte di tale reputata sussistente censura di illegittimità costituzionale, quanto all’individuazione del rimedio al vulnus riscontrato, la Consulta evidenziava anzitutto come la censura del rimettente, pur se testualmente formulata in relazione al primo e al secondo comma dell’art. 2641 cod. civ., investisse, in realtà, soltanto la disposizione di cui al secondo comma concernente la confisca delle somme o dei beni di valore equivalente a quello dei beni (indicati nel primo comma) utilizzati per commettere il reato posto che la disposizione di cui al secondo comma è, del resto, la sola rilevante nel giudizio a quo.
Quindi, se il vizio riscontrato risiede nel carattere obbligatorio della confisca prevista da tale disposizione, che vincola il giudice ad applicare la misura ablativa anche quando, nel caso concreto, il suo impatto risulterebbe sproporzionato rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato, rispetto, tuttavia, alla possibilità di una pronuncia che sostituisca l’attuale previsione della confisca obbligatoria di denaro o cose di valore equivalenti ai beni strumentali con una corrispondente confisca meramente facoltativa, la Corte costituzionale stimava doveroso cedere il passo alla valutazione del legislatore dato che quest’ultimo è nella migliore posizione per stabilire se conferire al giudice una discrezionalità nella scelta sull’an, o addirittura anche sul quantum del valore confiscabile, in modo da assicurare il pieno rispetto del principio di proporzionalità nell’applicazione concreta di questa confisca, fermo restando però che una simile innovativa soluzione, in ogni caso, non è oggi reperibile nell’ordinamento italiano, e costituirebbe anzi una «novità di sistema» (come osservato dalle sentenze n. 146 del 2021 e n. 252 del 2012): non prestandosi, così, a essere assunta in sede di giustizia costituzionale come soluzione costituzionalmente adeguata, in grado di sostituirsi a quella dichiarata costituzionalmente illegittima.
D’altra parte, come recentemente sottolineato, «[l]’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali» (sentenza n. 185 del 2021) visto che, in difetto di una simile situazione, l’intervento della Consulta «ben può limitarsi all’ablazione, totale o parziale della disposizione censurata» (sentenza n. 46 del 2024; in senso analogo, sentenza n. 51 del 2024).
Ebbene, per il Giudice delle leggi, nel caso in esame, la mera ablazione del frammento di disposizione riferito alla confisca per equivalente dei beni strumentali non crea alcun intollerabile vuoto di tutela degli interessi protetti dalle norme penalmente sanzionate giacché resta ferma, in particolare, la confisca obbligatoria del profitto, diretta o per equivalente, a carico di qualunque persona – fisica o giuridica – che risulti avere effettivamente conseguito le utilità derivanti dal reato, facendone discendere da ciò che il censurato art. 2641, secondo comma, cod. civ. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato.
Dal momento, poi, che il vulnus riscontrato investe allo stesso modo, ed esattamente per le medesime ragioni, la previsione della confisca diretta dei beni utilizzati per commettere il reato, disciplinata dal primo comma della medesima disposizione, per i giudici di legittimità costituzionale, la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale era estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, alla previsione di cui all’art. 2641, primo comma, cod. civ., limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo», restando, invece, inalterata la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta delle «cose che servirono a commettere il reato» ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 240 cod. pen., richiamata dal terzo comma dell’art. 2641 cod. civ.: e dunque anche delle somme di denaro utilizzate per commettere il reato, a carico di chi risulti in concreto averne la disponibilità.
La Corte costituzionale, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dunque, dichiarava l’illegittimità costituzionale: 1) dell’art. 2641, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato; 2) dell’art. 2641, primo comma, cod. civ., limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo».

4. Conclusioni: la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641 c.c. (seppure solo in parte)


Con la pronuncia qui in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641 codice civile che, come è noto, prevede la confisca in relazione ai reati preveduti da questo codice (e, segnatamente, dal titolo XI del libro quinto in cui, come è noto, sono contemplate le disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati), sia in relazione a quanto disposto nel comma primo, che in riferimento a quanto contemplato nel comma secondo.
Difatti, come appena visto, tale precetto normativo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, sia a proposito del comma primo, limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo, che, per quanto riguarda il comma secondo, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato.
Va da sé dunque che il comma primo di questo articolo 2641 c.c. si limita adesso a stabilire, sic et simpliciter, che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei reati previsti dal presente titolo è ordinata la confisca del prodotto o del profitto del reato, venendo ora meno il riferimento ai beni utilizzati per commetterlo, così come il comma secondo, ad avviso di chi scrive, deve essere letto adesso nel senso che, quando non è possibile l’individuazione o l’apprensione dei beni indicati nel comma primo, la confisca “può avere”, e non più “ha” (come era preveduto in precedenza prima di tale pronuncia), ad oggetto una somma di denaro o beni di valore equivalente, essendo venuta meno l’obbligatorietà di questa misura ablativa.
Ad ogni modo, come precisato nella decisione in esame, resta comunque ferma la confisca obbligatoria del profitto, diretta o per equivalente, a carico di qualunque persona – fisica o giuridica – che risulti avere effettivamente conseguito le utilità derivanti dal reato, così come resta altresì inalterata la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta delle «cose che servirono a commettere il reato» ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 240 cod. pen., richiamata dal terzo comma dell’art. 2641 cod. civ.: e dunque anche delle somme di denaro utilizzate per commettere il reato, a carico di chi risulti in concreto averne la disponibilità.
Precisato ciò, non rimane quindi che attendere quali le ricadute “applicative” emergeranno in seguito all’emissione della pronuncia qui in commento.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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