Confisca per i reati tributari sussiste anche all’avvio della procedura fallimentare

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L’avvio della procedura fallimentare non osta all’adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari.

Per approfondimenti si consiglia: Dibattimento nel processo penale dopo la Riforma Cartabia

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Corte di Cassazione – Sezioni Unite – Sentenza n. 40797 del 06/10/2023

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1. Il fatto

Il Tribunale del riesame di Pescara rigettava un appello cautelare proposto dalla Curatela del Fallimento S.n.c. avverso un provvedimento con cui il Tribunale di Pescara aveva rigettato la richiesta di dissequestro di beni rappresentati dalle quote del capitale sociale di una S.r.l. e dell’intera proprietà della porzione di un immobile, meglio identificato in atti, oggetto di sequestro da parte del G.i.p. in data 22 gennaio 2020 nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di alcune persone indagate per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
In particolare, per quello che rileva in questa sede, in motivazione, il Tribunale di Pescara, che pure dava atto della esistenza sul punto di diversi indirizzi interpretativi, ricordava come l’orientamento da esso fatto proprio fosse stato di recente confermato anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ha affermato la prevalenza del sequestro preventivo sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale anche qualora la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro (la sentenza espressamente richiamata dal Tribunale era quella di Sez. 3, n. 3575 del 01/02/2022), precisandosi al contempo che, inoltre, l’orientamento sopraindicato ha trovato conforto anche nella disciplina fissata dagli artt. 317 ss. del D.Lgs. n. 12 gennaio 2019, n. 14, nei quali è sancita la prevalenza delle misure cautelari reali rispetto alle procedure concorsuali, limitatamente alle sole ipotesi di sequestro preventivo strumentale alla confisca ai sensi dell’art. 321, comma 2, c.p.p., rimanendo, invece, la stessa esclusa quanto al sequestro conservativo e ridotta solo a talune ipotesi nel caso di sequestro preventivo con finalità impeditive.
Ciò posto, proponeva ricorso per cassazione la Curatela del fallimento, rappresentata da difensore munito di procura speciale, che, tra le doglianza ivi addotte, sempre per quello che rileva in questa sede, osservava come il Tribunale di Pescara avrebbe errato nell’interpretare, con riferimento al tenore testuale dell’art. 12-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, l’espressione, in esso contenuta, limitativa del potere di confisca “salvo che appartengano a persona estranea al reato”, tenuto conto altresì del fatto che, pur a fronte dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale al riguardo, esso, a suo avviso, avrebbe dovuto essere risolto proprio in base al concetto di “appartenenza del bene da confiscare a soggetto estraneo”, rilevandosi all’uopo che, per un verso, una volta dichiarato il fallimento, il soggetto attinto dalla procedura è spossessato dei propri beni, con perdita della disponibilità degli stessi, tanto che la sentenza dichiarativa del fallimento è soggetta a trascrizione e la vendita dei beni fallimentari è realizzata attraverso un atto sottoscritto dal curatore, cui passa anche il possesso materiale e giuridico dei beni attratti alla massa fallimentare, per altro verso, tanto più sarebbe dimostrata, quanto al caso in esame, la erroneità della apprensione dei beni già nella disponibilità dei soggetti falliti a seguito dell’avvenuto sequestro preventivo di essi, laddove si rifletta sul fatto che il fallimento, cui aveva fatto seguito l’avvenuto spossessamento dei soggetti sottoposti alla procedura rispetto ai loro beni, era stato dichiarato anteriormente alla adozione della misura cautelare penale, citandosi al riguardo la recente giurisprudenza della Cassazione (fra le altre, la sentenza Sez. 3, n. 26275 del 08/07/2002, a sua volta evocatrice di altri precedenti conformi) la quale, osservava la ricorrente, si sarebbe sviluppata prendendo le mosse dalla sentenza delle Sezioni unite penali con la quale è stata riconosciuta la legittimazione della curatela fallimentare ad impugnare i provvedimenti cautelari reali incidenti sulla dotazione della massa (cfr.: Sez. U, n. 45936 del 13/11/2019).

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2. La questione sulla confisca oggetto di contrasto

La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, dal canto suo, rimetteva il ricorso alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., avendo la questione sottoposta al suo esame dato luogo, nella giurisprudenza di legittimità, ad un contrasto interpretativo.
In particolare, in riferimento ad un primo orientamento nomofilattico, come evidenziato dalle stesse Sezioni unite, la prima decisione di rilievo è rappresentata dalla sentenza Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, con cui le Sezioni Unite affermarono il principio di diritto per cui è legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, a condizione che il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare.
Ebbene, in questa occasione, le Sezioni Unite ebbero tra l’altro a precisare che, nel caso di sequestro preventivo funzionale alla confisca di beni appartenenti alla società fallita, la curatela fallimentare non è “terzo estraneo al reato”, in quanto il concetto di appartenenza di cui all’art. 240, comma 3, c.p. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, sì che deve intendersi per terzo estraneo al reato soltanto colui che non partecipi in alcun modo alla commissione dello stesso o all’utilizzazione dei profitti derivati.
La Corte di legittimità, in tale occasione, ebbe altresì a specificare in motivazione che la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, ma che tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare.
Ciò posto, a distanza di circa un decennio, il tema – sebbene con riferimento alla disciplina peculiare dettata dal D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231 con riguardo alla responsabilità amministrativa da reato degli enti – venne incidentalmente affrontato anche dalla sentenza Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014, U., Rv. 263685, la quale, nell’affermare il principio secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita, ebbe a precisare in motivazione che lo stesso curatore, in quanto soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare, non è titolare di diritti sui beni in sequestro né può agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche questi ultimi, prima dell’assegnazione dei beni e della conclusione della procedura concorsuale, titolari di alcun diritto sugli stessi, fermo restando che un’ultima pronuncia in ordine cronologico è la sentenza Sez. U, n. 45936 del 26/09/2019, che ebbe a riconoscere, nel caso di sequestro preventivo disposto prima del fallimento ai fini della confisca prevista dall’art. 12-bis D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, la legittimazione del curatore fallimentare a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale, precisando che la legittimazione del curatore, discendente dalla titolarità del diritto alla restituzione dei beni sequestrati, dev’essere riconosciuta anche in relazione ai beni caduti in sequestro prima della dichiarazione di fallimento, giacché anch’essi facenti parte della massa attiva che entra nella disponibilità della curatela, con contestuale spossessamento del fallito ai sensi dell’art. 42, R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
Gli interventi delle Sezioni Unite, succedutosi nel tempo, pertanto, come rilevato sempre da queste Sezioni nella pronuncia qui in commento, si innestavano in un quadro di perdurante ed ancora attuale contrasto che vede confrontarsi due opposti orientamenti: a) il primo, espressione della tesi della prevalenza funzionale della misura ablatoria penale; b) il secondo, che risolve la coesistenza dei vincoli in ragione del criterio della priorità temporale sul presupposto logico della recessività della misura rispetto alla procedura concorsuale.
Orbene, delineanti i tratti essenziali che connotano questo approdo ermeneutico, va fatto presente che gli argomenti, addotti a sostegno del primo orientamento, si fondano, anzitutto, sul rilievo per il quale i beni attratti alla massa fallimentare non possono considerarsi beni “appartenenti a persona estranea al reato”, con la conseguenza che la dichiarazione di fallimento dell’imputato non osta al provvedimento di confisca diretta o per equivalente, ai sensi dell’art. 12-bis, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Sez. 4, n. 864 del 03/12/2021, dep. 2022, v. anche Sez. 3, n. 23907 del 01/03/2016, con riferimento ad un caso di sequestro preventivo disposto in relazione al reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000), nonché sul carattere obbligatorio della confisca e sulla sua finalità sanzionatoria (Sez. 3, n. 15779 del 08/01/2020, omissis; Sez. 3, n. 15776 del 08/01/2020, Sez. 3, n. 28077 del 09/02/2017, che ha ritenuto applicabile il principio anche in materia di concordato preventivo, aggiungendo che i diritti di credito dei terzi non appaiono ricompresi nell’ambito ristretto indicato dall’art. 12-bis, comma 1, cit.), il che giustificherebbe la prevalenza su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendo essere attribuiti alla procedura concorsuale, anche se intervenuta prima del sequestro, effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge.
Si sostiene, in particolare, che la deprivazione che il fallito subisce dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi (Sez. 5, n. 52060 del 30/10/2019), così come, mello stesso senso, Sez. 4, n. 7550 del 05/12/2018, in relazione ad una fattispecie di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme di denaro appartenenti alla società fallita e assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito, ha precisato che il provvedimento del giudice delegato si limita ad accertare giudizialmente la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinarne al curatore il pagamento, ma l’effetto traslativo del denaro appartenente alla società fallita si produce solo con la materiale “traditio” delle somme, aggiungendo che le posizioni soggettive dei creditori insinuati al passivo e ammessi al riparto delle somme conservano la connotazione di meri diritti di credito, non mutando la loro originaria natura giuridica per effetto della ammissione alla procedura concorsuale.
Da ultimo, anche Sez. 3, n. 31921 del 04/05/2022, ha ribadito che, fino alla materiale distribuzione da parte del curatore, le somme di denaro costituenti l’attivo del fallimento non possono essere considerate come appartenenti ad un terzo estraneo alla commissione del reato ma restano beni della società fallita, come tali suscettibili di sequestro nei confronti di quest’ultima.
Con specifico riguardo ai reati tributari, Sez. 3, n. 5255 del 03/11/2022, dep. 2023, ha infine affermato la possibilità di esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto di un reato tributario di cui all’art. 12-bis D.Lgs. n. 74 del 2000, ove il reato sia stato commesso nell’interesse di una società dichiarata fallita, avente ad oggetto beni societari compresi nell’attivo fallimentare, posto che la deprivazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione dei creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude che il fallito ne conservi la titolarità sino al momento della vendita, non assumendo rilevanza, ai fini della confisca diretta, il criterio della disponibilità dei beni, ma quello, più ampio, della non estraneità rispetto al reato.
Orbene, a fronte di ciò, va notato come alcune più recenti pronunce abbiano valorizzato, a sostegno dell’orientamento in esame, anche le nuove disposizioni del codice della crisi di impresa e di insolvenza (cosiddetto c.c.i.) di cui al D.Lgs. n. 12 gennaio 2019, n. 14, attribuendo rilevanza al nuovo assetto normativo, ancor prima della sua entrata in vigore, quantomeno sul piano dell’interpretazione logico-sistematica (Sez. 3, n. 3575 del 26/11/2021, dep. 2022; Sez. 3, n. 5255 del 03/11/2022).
In particolare, Sez. 3, n. 3575 del 26/11/2021, ha affermato che il principio di prevalenza del sequestro preventivo trova conforto e giustificazione, oltre che nell’argomento principale della obbligatorietà della confisca cui è finalizzata la misura, nelle nuove disposizioni di cui agli artt. 317 ss. del c.c.i., non escludendo la sua differita entrata in vigore (al 15 luglio 2022) che le norme definitorie in esso contenute, venute ad esistenza e a conoscenza con la promulgazione e la pubblicazione, siano utilizzabili nell’ambito di una interpretazione logico-sistematica di norme vigenti, contenute in altre leggi.
Finito di esaminare questo indirizzo interpretativo, l’opposto orientamento, secondo cui non può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni, ai sensi dell’art. 12-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, anche per equivalente, in presenza di una dichiarazione di fallimento, si fonda, invece, anzitutto, sull’assunto che la dichiarazione di fallimento comporta il venir meno in capo al fallito del potere di disporre del proprio patrimonio e l’attribuzione al curatore, terzo estraneo al reato, del compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Sez. 3, n. 47299 del 16/11/2021; Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018).
Tal che ne discende come non avrebbero rilevanza, per tale orientamento, gli argomenti sostenuti dalla tesi contrapposta.
Anzitutto, quello che fa leva sull’obbligatorietà della confisca in materia tributaria ex art. 12-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, troverebbe confutazione nello stesso dato normativo, laddove è prevista una deroga espressa, anche in caso di confisca per equivalente, in caso di beni appartenenti ad un soggetto estraneo al reato ovvero di beni non nella disponibilità del reo (Sez. 3, n. 11068 del 28/09/2021), così come viene parimenti ritenuto superabile l’argomento che fa leva sulla finalità sanzionatoria della confisca, correlato alla sua obbligatorietà, che giustificherebbe la natura recessiva degli interessi della massa fallimentare, ove si valuti che affermare la assoluta prevalenza della misura ablatoria dei beni rispetto al vincolo derivante dalla loro attrazione alla massa fallimentare produrrebbe l’effetto perverso di far ricadere la sanzione sui creditori del fallito, soggetti diversi rispetto all’autore dell’illecito.
In secondo luogo, con riferimento agli effetti della dichiarazione di fallimento sul patrimonio della persona fisica o giuridica che ne è destinataria, l’orientamento in esame evidenzia che, come previsto dall’art. 42, comma 1, L. Fall., la dichiarazione importa lo spossessamento e il venir meno del potere del fallito di disporre dei propri beni, automaticamente trasferiti agli organi della procedura fallimentare, conseguendone che, a partire da tale momento, il curatore subentra ope legis nell’amministrazione della massa attiva nella prospettiva della sua conservazione ai fini della tutela dell’interesse dei creditori (Sez. 3, n. 12125 del 05/02/2021; Sez. 3, n. 36746 del 15/10/2020; Sez. 3, n. 14766 del 26/02/2020; Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018).
Per tale filone ermeneutico, sarebbe dunque proprio la legittimazione del curatore all’impugnativa dei provvedimenti in materia di cautelare reale a costituire la premessa sul piano logico, ancor prima che giuridico, dell’esclusione di una posizione di subordinazione della procedura fallimentare rispetto al sequestro ex art. 321, comma 2, c.p.p.,e ciò in quanto se la disponibilità dei beni è quella che conferisce alla curatela fallimentare la legittimazione “non si vede come possa esserle negata, in relazione alla tutela invocata, la posizione di terzietà rispetto al soggetto indagato”, con la conseguenza che il diritto alla restituzione dei beni sequestrati resterebbe, dunque, inscindibilmente connesso alla disponibilità dei beni attinti dalla misura cautelare, non potendo dunque non essere riconosciute alla curatela, nelle sue funzioni di rappresentanza del fallimento e di amministrazione del relativo patrimonio, una posizione giuridica autonoma rispetto al bene e la titolarità di un correlativo potere di fatto sulla res, tutelato dall’ordinamento, da cui deriva l’impossibilità di dare esecuzione al sequestro in caso di sentenza dichiarativa di fallimento sui beni della curatela cronologicamente antecedente al vincolo cautelare penale (Sez. 3, n. 17750 del 17/12/2019); ciò anche sulla scorta della giurisprudenza civilistica che qualifica esplicitamente il curatore come “detentore dei beni del fallimento”, configurando in capo all’organo fallimentare una detenzione qualificata dal carattere pubblicistico della funzione svolta (Sez. 3, n. 23645 del 08/07/2020).
Precisato ciò, per i reati tributari, l’orientamento in questione focalizza, inoltre, il rischio di una possibile compromissione del principio della par condicio creditorum (Sez. 3, n. 47299 del 16/11/2021) sull’assunto che la pretesa erariale tutelata dal sequestro finalizzato alla confisca, data la particolare natura del profitto conseguito dal mancato adempimento della obbligazione tributaria, non è ontologicamente dissimile da quella dei creditori che si siano insinuati nel fallimento, ovvero lo abbiano promosso, i quali vantano una posizione creditoria insoddisfatta nei confronti del fallito, giungendo a configurare una sorta di privilegium Fisci, con indebita attribuzione all’Erario di una posizione dominante rispetto a quella degli altri operatori economici, sottolineandosi infine la funzione pubblicistica del fallimento anche nella nuova disciplina, rilevando che il nuovo assetto disegnato dal codice della crisi d’impresa contemplando la canalizzazione nella procedura fallimentare della composizione della crisi di impresa, così come la espulsione dell’impresa dal mercato quando ne sia accertato lo stato di decozione, rendono evidente come l’interesse originario facente capo al singolo creditore resti, in ultima analisi, relegato in posizione di subalternità rispetto a quello pubblicistico che interviene al fine di tutela e regolamentazione del mercato (Sez. 3, n. 26275 del 26/05/2022).

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite

Le Sezioni unite – dopo avere delimitato il quesito posto al loro vaglio nei seguenti termini: “Se, in caso di dichiarazione di fallimento intervenuta anteriormente alla adozione di provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari e riguardante beni attratti alla massa fallimentare, l’avvenuto spossessamento del debitore erariale per effetto dell’apertura della procedura concorsuale osti al sequestro stesso, ovvero se, invece, il sequestro debba comunque prevalere attesa la obbligatorietà della confisca cui la misura cautelare è diretta”, e illustrato gli orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia – osservavano come di recente il legislatore sia intervenuto sulla questione giungendo ad introdurre, in attuazione dell’art. 13 L. 19 ottobre 2017 n. 157, l’art. 317 del già menzionato D.Lgs. n. 14 del 2019 (Principio di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi) che recita: “1. Le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall’art. 142 sono regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, salvo quanto previsto dagli artt. 318, 319 e 320. 2. Per misure cautelari reali di cui al comma 1 si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca disposti ai sensi dell’art. 321, comma 2, del codice di procedura penale, la cui attuazione è disciplinata dall’art. 104-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale”.
Tal che se ne faceva discendere come sia ora espressamente affermata, attraverso il richiamo alle disposizioni del codice antimafia, la prevalenza della misura cautelare sul vincolo derivante dalla procedura fallimentare, considerato altresì che il D.Lgs. n. 14 del 2019 si inserisce nel solco di altri interventi normativi recenti: la L. 17 ottobre 2017, n. 161 e il D.Lgs. n. 1 marzo 2018, n. 21 avevano infatti allargato l’ambito applicativo delle disposizioni in punto di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati e di tutela dei terzi ed esecuzione del sequestro previste nel “Codice Antimafia”, tant’e’ che la dottrina ha rilevato come “l’art. 317 assume portata precettiva globale, erigendo le regole di quest’ultimo a paradigma totalizzante” il quale, a sua volta, “completa” in realtà l’intervento di riforma operato con la L. n. 161 del 2017, immediatamente successiva alla L. n. 157 del 2017, che, in attuazione dei medesimi intenti, aveva già sostituito il comma 4-bis dell’art. 12- sexies D.L. n. 306 del 1992, stabilendo che “le disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati nonché quelle in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro previste dal codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2022 n. 159, si applicano anche ai casi di sequestro e confisca previsti dai commi 1 e 2-ter del presente articolo, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale”.
Ciò posto, per quanto invece concerne “la tutela dei terzi”, per le Sezioni unite, il regime introdotto dal nuovo c.c.i. deve essere letto alla luce dell’art. 104-bis, comma 1-quater, disp. att. c.p.p., che, nella sua attuale riformulazione, prevede l’applicazione ai sequestri e alle confische delle disposizioni del “Codice antimafia” riguardanti anche i rapporti con le procedure concorsuali.
Dunque, è possibile affermare che dalla data del 15 luglio 2022 (data di entrata in vigore della peculiare disciplina dettata dagli artt. 317 ss. del c.c.i.), vige una unitaria disciplina di carattere generale che regola i rapporti tra sequestro preventivo a fini di confisca e dichiarazione di liquidazione giudiziale, ovvero quella contenuta negli artt. 63 ss. D.Lgs. n. 159 del 2011, anch’essi opportunamente rimodulati, con inequivocabile prevalenza dello strumento penale.
Quindi, fermo restando che la tutela dei crediti può assumere rilevanza, rispetto al sequestro penale, nei ristretti limiti indicati dall’art. 52 D.Lgs. n. 159 del 2011, anch’essi rivisitati, in base al richiamo contenuto nell’art. 68, l’art. 52, nella sua nuova declinazione, recepisce la valenza primaria dell’interesse pubblico ad assicurare l’effettività della misura ablatoria anche nel caso del fallimento escludendo che il sequestro penale o di prevenzione possa essere recessivo rispetto all’interesse degli altri creditori nel caso di prestazioni connesse all’attività illecita o a quella di reimpiego dei suoi proventi, di elusione degli effetti della confisca attraverso la precostituzione di posizioni creditorie di comodo, di simulazione della loro esistenza a posteriori e, in ogni caso, esclude che la persona attinta dal sequestro possa giovarsi dei proventi delle attività illecite per liberare dai debiti il restante patrimonio personale, come già evidenziato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 94 del 2015.
Orbene, sotto il profilo procedimentale, senza che rilevi la data di apertura della liquidazione giudiziale, chi intenderà trovare soddisfazione su beni investiti da una confisca quale che sia (o da un sequestro preordinato) dovrà farlo secondo i dettami di sede e di tempo che il “Codice Antimafia” enuclea, considerato che i rapporti tra procedura concorsuale e confisca sono scanditi da una serie di regole precise e chiare: a) qualora il sequestro funzionale alla confisca preceda la liquidazione giudiziale, i beni attinti dal vincolo penale saranno esclusi dalla massa attiva concorsuale (art. 63, comma 4); b) qualora sia l’apertura della liquidazione a precorrere il sequestro, i beni che ne sono oggetto saranno separati dalla massa attiva liquidabile e consegnati all’amministratore giudiziario (art. 64, comma 1); c) ove il patrimonio della liquidazione racchiuda esclusivamente beni già in precedenza sequestrati ai fini della successiva confisca, il tribunale dell’insolvenza, sentiti curatore e comitato dei creditori, chiuderà la procedura concorsuale (art. 63, comma 6); d) del pari, ove sequestro o confisca intercettino, aperta la liquidazione, l’intera massa di questa, il tribunale dichiarerà chiusa la procedura concorsuale (art. 64, comma 7); e) qualora la misura penale antecedente alla liquidazione venga revocata, il curatore apprenderà i beni che ne sono stati oggetto, subentrando all’amministratore giudiziario nei rapporti processuali, sicché il tribunale riaprirà la procedura concorsuale, ancorché siano trascorsi cinque anni dalla chiusura (art. 63, comma 7); f) allo stesso modo, se la misura penale posteriore alla liquidazione dovesse essere revocata prima della chiusura di quest’ultima, i beni vincolati saranno ex novo inglobati nella massa attiva del concorso e l’amministratore giudiziario li consegnerà al curatore (art. 64, comma 10).
Il primato dello strumento penalistico, pertanto, vale anche nelle ipotesi in cui il Tribunale “fallimentare” dovesse emettere provvedimenti cautelari idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della sentenza che segna l’avvio della liquidazione giudiziale (art. 54 c.c.i.); non è accidentale il riferimento alla “gestione concorsuale” contenuto nell’art. 317 c.c.i., più dilatato rispetto a quello dell’apertura della liquidazione.
E’ chiara, dunque, a questo punto della disamina, per le Sezioni unite, la linea scelta dal legislatore di allinearsi alla tesi della prevalenza della confisca sulle procedure concorsuali, anche se, sempre ad avviso di queste Sezioni, appare opinabile ricorrere alla nuova disciplina per inferirne criteri interpretativi con riferimento alle vicende insorte in precedenza.
Le decisioni che valorizzano l’assetto normativo attuale attribuendo rilevanza allo stesso sul piano dell’interpretazione logico-sistematica, invero, muovono dalla possibilità di distinguere, all’interno del concetto di operatività di una norma, tra valenza “interpretativa” di altre norme (che secondo la richiamata decisione prescinderebbe dalla sua entrata in vigore e, dunque, anche dai limiti della disposizione transitoria) e valenza “applicativa” delle stesse.
Ritengono, tuttavia, le Sezioni Unite che una distinzione di tale tipo non sia, in linea generale, concepibile: sino a quando una norma non entri in vigore ne è precluso ogni effetto, anche solo di ordine interpretativo, dell’assetto precedente.
In materia opera, invero, il principio posto dall’art. 11 preleggi secondo cui (Sez. U civ., n. 2061 del 28/01/2021) “ove non sia il legislatore stesso a disporre in via retroattiva – e ciò può avvenire espressamente (anche tramite norma di interpretazione autentica) ovvero implicitamente (la retroattività essendo anche desumibile, se inequivocabile, in via interpretativa dalla disposizione interessata) -, un tale potere non è esercitabile dal giudice, neppure per il tramite del procedimento analogico, essendo l’efficacia temporale della fonte disponibile solo per il legislatore e pure per esso in termini tali da non poterne fare uso arbitrario”.
Nella specie, attraverso la disposizione transitoria dell’art. 390 del D.Lgs. n. 14 del 2019, vengono volutamente introdotte dal legislatore scansioni temporali diverse per le nuove norme non aggirabili sul piano interpretativo.
Enunciato ciò, gli Ermellini stimavano però necessario rilevare, a questo punto della disamina, come, a proposito delle obiezioni dell’orientamento, che milita a favore della prevalenza del fallimento sulla confisca, dovesse essere ribadito che, a seguito della dichiarazione di fallimento, la titolarità dei beni resta in capo al fallito sino al momento della vendita fallimentare per i beni o del riparto dell’attivo per il denaro.
Da ciò se ne faceva derivare come non si realizzi quella condizione di “appartenenza a terzi” che inibisce, secondo la disposizione citata, l’adozione del provvedimento ablatorio della confisca.
Invero, la dichiarazione di fallimento di una società priva la stessa di ogni potere in relazione al suo patrimonio (eccezion fatta per i beni sottratti all’esecuzione concorsuale per disposizione di legge e per i beni sopravvenuti che non siano acquisiti dalla massa), ma non comporta di per sé alcuna alterazione della compagine sociale, i cui organi restano in funzione, come evidenziato anche dalla giurisprudenza civile, sia pur con le limitazioni derivanti dall’intervenuta dichiarazione di fallimento (sul punto Sez. 1 civ., n. 24326 del 03/11/2020), visto che, se il fallimento comporta lo spossessamento dei beni ma lascia inalterata la struttura dell’ente fallito, logico corollario di tale affermazione è che la società continui ad esistere come soggetto giuridico, suscettibile di essere sanzionato -nei casi in cui sia prevista una responsabilità dell’ente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 – o di essere privato, ope legis, dei beni costituenti il profitto o il prezzo di un reato tributario dato che la deprivazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione dei creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude, infatti, che il fallito ne conservi la titolarità sino al momento della vendita o dell’assegnazione ai creditori.
I beni del fallito, di conseguenza, sebbene acquisiti alla procedura concorsuale, non possono qualificarsi, per quanto appena precisato, come “beni appartenenti a persona estranea al reato” sicché il curatore fallimentare diviene mero gestore – detentore dei beni dell’imprenditore.
Analogamente, nemmeno le pretese vantate dai singoli creditori sul patrimonio del soggetto insolvente possono sempre considerarsi d’ostacolo all’apposizione del vincolo penale: i diritti acquisiti dal terzo in buona fede in grado di prevalere sulla confisca (e quindi anche sul sequestro preventivo) si identificano, infatti, solo nel diritto di proprietà e negli altri diritti reali che gravano sui beni e non anche nel semplice diritto di credito (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014), sempre che manchi qualsiasi rapporto di strumentalità con il reato.
Del resto, nell’ambito degli “effetti del fallimento per il fallito” (artt. 42-50, R.D. 16 marzo 1942, n. 267) si è soliti distinguere gli effetti di carattere “patrimoniale”, che trovano disciplina negli artt. 42-47, dagli effetti di carattere “personale”, regolati dagli artt. 48-50 e, quindi, per designare l’insieme degli effetti che il fallimento produce nei riguardi del fallito, e che perciò ne costituiscono la condizione giuridica, può “parlarsi”, secondo la dottrina (sia pure in una lata e impropria accezione), di status del fallito, fermo restando che, circa la condizione giuridica del fallito nei riguardi dei “beni” (art. 42 L. Fall.) o “rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento” (art. 43, comma 1, L. Fall.), e costituenti dunque il “patrimonio fallimentare” (art. 31, comma 1, L. Fall.), la Corte costituzionale ha chiarito che non si rinviene nell’ordinamento “una norma di carattere generale che privi il fallito della capacità di agire” (Corte Cost., sent. n. 549 del 2000, richiamata dall’ord. n. 267 del 2002), con ciò superando talune precedenti affermazioni, nel senso dell’esistenza, a carico del fallito, di “limitazioni alla capacità di agire in ordine alla amministrazione ed alla disponibilità dei beni” (Corte Cost., sent. n. 141 del 1970) ovvero di “limitazioni alla capacità di agire rivenienti all’imprenditore dalla dichiarazione di fallimento” (Corte Cost., sent. n. 145 del 1982).
Sul piano patrimoniale, inoltre, alla sentenza dichiarativa del fallimento consegue che il fallito è privato dalla data di essa “dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento” (art. 42, comma 1, L. Fall.: cosiddetto “spossessamento del fallito”). Ebbene, la natura giuridica di tale “spossessamento” è stata spiegata in dottrina richiamando gli effetti del pignoramento nella espropriazione singolare, poiché degli stessi effetti, sebbene quantitativamente più imponenti, si tratterebbe.
Per effetto della dichiarazione di fallimento (e a partire da essa), in virtù delle richiamate norme degli artt. 42-45 L. Fall., dunque, il fallito non viene immediatamente “espropriato” (ossia privato della proprietà dei suoi beni e della titolarità dei suoi diritti), ma – con riguardo (e limitatamente) ai rapporti compresi nel fallimento – gli è inibito di compiere efficacemente atti giuridici (negoziali e non) di disposizione e di amministrazione dei suoi beni (ivi compreso il godimento e l’utilizzo materiale di essi), di esercizio dei suoi diritti, di adempimento delle sue obbligazioni, e di assunzione di nuove obbligazioni (anche mediante atti illeciti o per altre “fontiex art. 1173 c.c.), la cui responsabilità (ex art. 2740 c.c.) può essere fatta valere sui beni compresi nel fallimento; correlativamente, pertanto, i poteri di disposizione e amministrazione dei beni, l’esercizio dei diritti e facoltà, ecc. (ivi compreso il potere di impegnare il patrimonio del fallito con l’assunzione di nuove obbligazioni: c.d. “obbligazioni di massa“: art. 111, comma 1, n. 1, L. Fall.) passano agli organi fallimentari, verificandosi così una “sostituzione” di questi al fallito nel compimento di attività giuridiche incidenti sul “patrimonio fallimentare” (ossia il complesso dei rapporti giuridici sostanziali facenti capo al fallito assoggettati al particolare regime del fallimento in funzione della realizzazione dello scopo ultimo di esso, ovvero il soddisfacimento tendenzialmente paritario dei creditori), pienamente efficaci nei confronti del medesimo fallito e dei terzi, anche dopo la cessazione della procedura.
In tal senso, quindi, la giurisprudenza della Cassazione, anche in tempi meno recenti (Sez. 5, n. 1926 del 30/03/2000; Sez. 1, n. 5099 del 09/11/1987), si è sempre espressa nel senso che la sentenza dichiarativa di fallimento priva il fallito della amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento, ma non ne implica il trasferimento alla massa dei creditori, ma, semmai, alla curatela, nel senso, tuttavia, della gestione del patrimonio ai fini di soddisfacimento dei creditori.
Orbene, detta privazione (il cosiddetto “spossessamento” appunto) non si traduce allora in una perdita della proprietà in capo al fallito e si risolve, invece, nella destinazione della totalità dei beni a soddisfare i creditori, oltre che nell’assoluta insensibilità del patrimonio all’attività svolta dall’imprenditore successivamente alla dichiarazione di fallimento (v. Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, secondo cui la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni prevista dall’art. 42 R.D. n. 267 del 1942, anche se comunemente definita “spossessamento”, comporta soltanto la presa in consegna dei beni medesimi da parte del curatore, Sez. 2 civ., n. 17605 del 04/09/2015, secondo cui la redazione dell’inventario da parte del curatore fallimentare, attraverso il quale vengono individuati, elencati, descritti e valutati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione “ope legis” delle stesse al fallito).
Il riconoscimento, in capo al curatore, della legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti impositivi di cautele reali, non implica, peraltro, la prevalenza dei crediti concorsuali rispetto al sequestro, essendo detta legittimazione finalizzata, fondamentalmente, a consentire l’esercizio processuale delle richieste attinenti alla misura.
La predetta legittimazione non vale cioè ad alterare l’assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro penale, dovendosi ribadire che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell’ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato.
Se è così, dunque, è lo stesso dettato letterale dell’art. 12-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 a dettare il criterio risolutivo: nel caso di confisca diretta o per equivalente il sequestro opera “sempre” (e dunque anche in caso di apertura delle procedure concorsuali, anteriore o successiva che sia al sequestro), sicché, in particolare, le criticità segnalate dall’orientamento opposto relativamente alla invocata irragionevolezza del sacrificio delle posizioni dei creditori non erariali restano recessive dinanzi al chiaro dettato normativo, non per questo, peraltro, suscettibile di attriti con principi costituzionali. Proprio la natura del profitto in generale dei reati tributari – e, quindi, l’interesse dell’Erario al recupero di quanto evaso – dà luogo ad un interesse sanzionato penalmente con riflessi obbligatori sulla confisca, che giustifica dunque anche il sacrificio dei creditori “privati“, fermo restando che questa perenne applicabilità della confisca, fatta salva la deroga del “terzo estraneo” di cui al richiamato art. 12-bis, trova corrispondenza nell’argomento della necessità di evitare, sempre fatta salva tale deroga, la circolazione di beni provenienti da evasione.
Il curatore fallimentare, conclusivamente, non può disporre dei beni costituenti l’attivo della massa fallimentare per la semplice ragione che detti beni (rectius, il loro valore), costituendo il profitto del reato, vanno sottratti alla liquidazione giudiziale ed all’amministratore pro-tempore del patrimonio della società dichiarata fallita, ossia al curatore, per evitare anche la paradossale conseguenza di rendere disponibile (e commerciabile mediante la vendita fallimentare) un bene costituente profitto di un illecito penale, sottraendolo alla conseguenza sanzionatoria obbligatoriamente prevista dalla legge, ossia la definitiva confisca, purché ovviamente ne sussistessero ab origine le condizioni legittimanti; e alla sola verifica di tali condizioni è preordinata la legittimazione ad impugnare del curatore, non precludendo quindi la stessa la sequestrabilità, non importa se antecedente o successiva alla procedura di apertura della liquidazione giudiziale, dei beni.
Ai fini della confisca, non assume, dunque, rilevanza il criterio dell’effettiva disponibilità dei beni, ma quello, più ampio, della non estraneità al reato tributario del fallito, che conserva la titolarità dei beni attratti alla massa fallimentare sino alla conclusione della procedura.
A conferma di quanto appena enunciato, del resto, milita anche la stessa disciplina normativa di cui al combinato disposto degli artt. 42, ultimo comma e 104-ter, comma 8, L. Fall. (rispettivamente trasfusi nell’art. 142 e nell’art. 213, comma 2, c.c.i.) a proposito dell’istituto della c.d. derelictio.
Ed invero, proprio il fatto che, nel caso di abbandono del bene per antieconomicità della sua conservazione al fallimento, lo stesso torni automaticamente nella piena disponibilità del fallito – tant’e’ che l’art. 104 impone al curatore l’onere di avvisare di ciò i creditori evidentemente affinché gli stessi intraprendano, se lo ritengano, in deroga all’art. 51 (oggi, art. 150, c.c.i.), azioni individuali verso il fallito con riguardo a detto bene – dimostra che, con l’apertura del fallimento, non muta la titolarità del bene, che resta sempre “del fallito“, laddove il curatore ne è il mero “detentore“, come del resto anche la stessa giurisprudenza amministrativa, in sede di adunanza plenaria, ha riconosciuto (Cons. Stato, n. 3 del 26/01/2021, che, con riferimento all’obbligo di rimozione dei rifiuti, incombente al curatore, ha evidenziato che ciò che rileva è “la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come “amministrazione del patrimonio altrui”, ciò che certamente caratterizza l’attività del curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura”).
Ebbene, da quanto appena enunciato se ne faceva conseguire che, alla curatela fallimentare, che ha un compito esclusivamente gestionale e mirato al soddisfacimento dei creditori, non si attaglia il concetto di appartenenza, preclusiva della confiscabilità ex art. 12-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000 (v., Sez. 3, n. 30605 del 24/05/2022; Sez. 5, n. 1926 del 30/03/2000) anche nella più ampia accezione, riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 9 del 18/05/1994; Sez. 1, n. 3117 del 08/07/1991), come non circoscritta al diritto di proprietà e, invece, estesa ai diritti reali di godimento e di garanzia.
Conclusivamente, per le Sezioni unite, l’obbligatorietà della confisca del profitto dei reati tributari comporta la prevalenza del vincolo penalistico rispetto ai diritti incidenti, per effetto della pendenza di una procedura concorsuale, sul patrimonio del soggetto sottoposto alla cautela reale, proprio perché i beni restano nella titolarità del fallito e non “passano” al curatore, essendo quindi necessario sottrarli al primo, non potendosi applicare la deroga del “terzo estraneo” di cui all’art. 12-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000.
La finalità del legislatore di ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato non e’, pertanto, vanificabile in alcun modo; va aggiunto che, ove si ragionasse diversamente, si verrebbe ad annettere alla procedura concorsuale un effetto di “improcedibilità” e, nel caso di confisca per equivalente, di “estinzione” della sanzione del tutto extravagante rispetto agli specifici casi contemplati dal sistema codicistico.
La soluzione indicata è del resto, per la Corte di legittimità, comune a quella cui perviene anche la giurisprudenza tributaria di legittimità, secondo cui “il carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12-bis comma 1, del D.Lgs. n. 74 del 2000, comporta che il sequestro preventivo ad essa funzionale, benché sopravvenuto rispetto alla proposizione di una domanda di concordato preventivo, sia opponibile ai creditori, non potendo in contrario invocarsi l’art. 168 L. Fall., il quale vieta l’inizio delle azioni cautelari in costanza di procedura, posto che una siffatta inibizione non sussiste per la potestà cautelare che lo Stato esercita, non a tutela del suo credito, bensì nell’interesse alla repressione dei reati” (Sez. 1 civ., n. 24326 del 03/11/2020) poiché, anche in tal sede, si è evidenziato come i diritti di credito dei terzi non appaiono ricompresi nell’ambito ristretto indicato dall’art. 12-bis, cit., posto che l’unico limite alla confiscabilità è rappresentato dalla “appartenenza” del bene a persona estranea al reato.
Oltre a ciò, gli Ermellini facevano altresì presente come si sia poi condivisibilmente aggiunto che se, in materia di reati tributari, il profitto è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale ed il legislatore ha attribuito solo al pagamento del tributo un effetto ostativo rispetto alla confisca ed al sequestro preventivo, valorizzando un’idea di confisca quale misura sussidiaria e post-riparatoria (cfr., art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. n. 74 del 2000), la conseguenza che si deve trarre – anche per tal via – è quella della prevalenza assoluta delle esigenze recuperatorie del profitto stesso: non e’, infatti, in questione il mero pagamento di un debito tributario (che segue le regole previste dalla legge fallimentare e dal codice della crisi d’impresa), ma l’assicurazione alla mano pubblica del profitto del reato (rispetto al quale detto debito costituisce solo il parametro di quantificazione), ciò che ne preclude l’assimilabilità ai beni suscettibili di distribuzione tra i creditori.
Le Sezioni unite, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulavano il seguente principio di diritto: “L’avvio della procedura fallimentare non osta all’adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari”.

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi risolto il seguente contrasto giurisprudenziale: “Se, in caso di dichiarazione di fallimento intervenuta anteriormente alla adozione di provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari e riguardante beni attratti alla massa fallimentare, l’avvenuto spossessamento del debitore erariale per effetto dell’apertura della procedura concorsuale osti al sequestro stesso, ovvero se, invece, il sequestro debba comunque prevalere attesa la obbligatorietà della confisca cui la misura cautelare è diretta”.
Difatti, nella pronuncia qui in commento, le Sezioni unite compongono codesto contrasto, affermando che l’avvio della procedura fallimentare non osta all’adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari.
Di conseguenza, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, non è più sostenibile intraprendere una linea difensiva che contesti la legittimità di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari, solo perché è in corso una procedura fallimentare.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, sia perché la sua motivazione è connotata da un lungo e articolato ragionamento giuridico, sia perché fa chiarezza su tale problematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.

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Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2023

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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