Brevi riflessioni sul principio di distinzione tra politica e gestione negli enti pubblici a quindici anni dalla sua introduzione

Busico Luca 16/11/06
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SOMMARIO: 1) IL PRINCIPIO DI DISTINZIONE TRA ATTIVITA’ POLITICA ED ATTIVITA’ GESTIONALE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E LA SUA DIFFICOLTOSA ATTUAZIONE.- 2) ALCUNI EQUIVOCI DI FONDO: ECCESSIVO OTTIMISMO SULLA DIRIGENZA, SUPERAMENTO DELLA LEGITTIMITA’ DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA.- 3) ALTRO EQUIVOCO: LA PRETESA DI TRASPOSIZIONE DEL MODELLO AZIENDALISTICO PRIVATO NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
 
1) Il principio di distinzione tra attività politica ed attività gestionale nelle amministrazioni pubbliche e la sua difficoltosa attuazione.
Con il presente contributo si intende svolgere qualche breve riflessione (senza alcuna pretesa di completezza e di sistematicità) su una delle innovazioni di maggior rilievo che hanno caratterizzato le riforme della pubblica amministrazione degli ultimi quindici anni, vale a dire l’introduzione di norme decisamente ispirate al principio di distinzione tra attività politica ed attività di gestione (1).
Come è noto, dapprima nell’ambito degli enti locali (art.51 dell’abrogata L. n. 142/1990) e poi in tutte le amministrazioni pubbliche (art.3 dell’abrogato D.lgs. n. 29/1993) sono stati attribuiti agli organi elettivi le funzioni di indirizzo politico, fissazione dei programmi e degli obiettivi e verifica della effettiva realizzazione di essi, ai dirigenti, invece, le funzioni gestionali, ossia lo svolgimento delle attività necessarie a dare attuazione agli obiettivi ed ai programmi fissati dagli organi elettivi unitamente alla adozione degli atti a rilevanza esterna.
Il passaggio da un sistema in cui la relazione tra potere politico e dirigenza era sostanzialmente impostata in termini di gerarchia ad uno imperniato sulla distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività di gestione ha un duplice scopo: da un lato evitare il coinvolgimento degli organi politici in attività gestionali, dall’altro responsabilizzare maggiormente i dirigenti delle amministrazioni pubbliche. Si è ritenuto, sulla base dell’esperienza maturata nel periodo precedente l’ultimo decennio dello scorso secolo, che, sottraendo alla classe politica l’attività meramente gestionale e conferendo la responsabilità di tale attività all’apparato burocratico, costituito da soggetti reclutati in base alle capacità professionali, si sarebbe potuto assicurare un’amministrazione meno assoggettabile a fenomeni assai perversi di commistione tra affari e politica o comunque più insensibile a pressioni di tipo elettoralistico che potessero incidere negativamente anche sulle singole scelte amministrative.
Le riforme del 1990 e del 1993 hanno, inoltre, voluto avvicinare le amministrazioni pubbliche al modello aziendalistico di gestione delle imprese private, attribuendo ai dirigenti, titolari delle attività gestionali, un ruolo spiccatamente manageriale.
Lo schema disegnato dal legislatore della distinzione tra politica e gestione e dell’assunzione da parte dei dirigenti di una veste di tipo manageriale ha stentato ad affermarsi in concreto, poiché è andato ad incidere su equilibri e posizioni di potere consolidati, che avevano visto fino a quel momento, da un lato, un atteggiamento dei politici teso a privilegiare, per ottenere maggiore visibilità e ritorno in termini di consenso elettorale, l’assunzione in prima persona dicompiti meramente gestionali piuttosto che l’attività di definizione degli indirizzi e degli obiettivi, ma anche, dall’altro lato, un comportamento della dirigenza poco propenso ad una posizione di autonomia rispetto ai politici. Alla tendenza degli organi politici ad interpretare in modo restrittivo il trasferimento alla dirigenza della potestà di amministrazione concreta ha fatto compagnia un atteggiamento a dir poco prudente, se non totalmente passivo, della dirigenza nell’assumere tale potestà e nel rivendicarla dagli organi politici medesimi.
Sembra (ma può darsi che sia solo un’impressione) che la situazione sommariamente descritta sia ideale per entrambe le categorie coinvolte. Quale migliore soluzione per i politici che quella di poter continuare a fare anche attività di gestione con l’ulteriore vantaggio di vedere ridotte al minimo le probabilità di dirette responsabilità civili, penali ed amministrative? Quale altrettanto migliore situazione per il dirigente che quella di essere lautamente retribuito (che avvenga con danaro della collettività poco importa) per un’obbedienza supina al politico consistente nel dire sempre di si?
2) Alcuni equivoci di fondo: eccessivo ottimismo sulla dirigenza e superamento della legittimità dell’azione amministrativa.
Ad avviso di chi scrive alla base delle riforme del 1990 e del 1993 c’è più di un equivoco. Il primo, efficacemente evidenziato da autorevole dottrina (2), è dato dall’idea di fondo che al politico, soggetto necessariamente parziale (nel senso più deteriore del termine), faccia da contrappeso il dirigente, quale massimo garante dell’imparzialità. L’assunto pecca di un duplice eccesso, poiché muove da una concezione esageratamente pessimistica della politica e sin troppo ottimistica della dirigenza pubblica. Se può essere vero che il politico agisce spesso per interessi di categoria, di corporazione, di clientela, nonché di rielezione, anche il dirigente non sempre è animato solo dalla cura dell’interesse pubblico, ma anche da finalità strettamente personali, come l’accrescimento del proprio potere in seno all’amministrazione, il miglioramento della propria reputazione e della propria carriera, l’arricchimento personale talvolta anche con modalità non del tutto lecite.
Inoltre, spesso si dimentica che tra le attribuzioni dei dirigenti c’è quella di adottare i provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno. Tali atti continuano ovviamente ad essere sindacati ed eventualmente annullati dal giudice amministrativo secondo i tradizionali parametri di legittimità. In presenza di un atto illegittimo al cittadino leso (ma anche al tribunale amministrativo regionale ed eventualmente al Consiglio di Stato) interessa molto poco che colui che ha emanato l’atto medesimo sia un ottimo manager, ma molto di più la pronuncia demolitoria, nonché, dopo la L. n. 205/2000, l’eventuale pronuncia risarcitoria. 
3) Altro equivoco: la pretesa di trasposizione del modello aziendalistico privato.
L’altro equivoco è quello di voler trasporre in toto nelle amministrazioni pubbliche modelli e schemi delle imprese private, operazione che non è sempre in concreto attuabile. Nel settore privato il dirigente gode di un’effettiva autonomia gestionale ed operativa e viene valutato sulla base dei risultati conseguiti dall’organo amministrativo, il quale, a sua volta, risponde del proprio operato all’assemblea degli azionisti. Il conseguimento dei risultati del dirigente pubblico viene valutato dai vertici politici dell’amministrazione, che però non hanno azionisti cui rispondere del proprio operato, a meno che non si voglia credere alla favola (se presa come tale davvero straordinaria) che gli azionisti sono gli elettori, che alla scadenza del mandato, valuteranno e giudicheranno l’operato degli organi politici con gli stessi criteri e la stessa perizia con cui un azionista vota il bilancio, la nomina o la revoca degli amministratori in una società per azioni.
A ciò bisogna aggiungere che nelle società per azioni l’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno per l’approvazione del bilancio (art. 2364 c.c.) e in quella occasione gli amministratori presentano agli azionisti i risultati conseguiti nel corso della propria gestione; per di più, in occasione del discussione del bilancio può essere deliberata dall’assemblea dei soci, anche se non è indicata nell’elenco delle materie da trattare, l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393 c.c.), che dovranno, pertanto, rispondere dei danni arrecati.
Ebbene, sulla base di quanto sommariamente tratteggiato, è agevole notare come nel settore pubblico i vertici politici dell’amministrazione non hanno il controllo stringente, che invece si può riscontrare in ambito privatistico, ove avviene con cadenza annuale da parte di soggetti interessati alla sorte del proprio investimento, nonché solitamente informati e consapevoli..
E’ pur vero che l’elettore, ove non soddisfatto dell’operato dei propri amministratori, sceglierà consapevolmente di non votarli, quindi contribuendo alla non rielezione degli stessi, alla scadenza del mandato (dopo un certo numero di anni), tuttavia, a parte questa “sanzione” data della mancata conferma, l’elettore non potrà, né avrà sufficienti elementi a disposizione per “chiedere il conto dei danni” che un potere amministrativo sconsideratamente esercitato ha prodotto nei suoi confronti.
       
DR. LUCA BUSICO, Funzionario dell’Ufficio Legale dell’Università di Pisa
 
 
NOTE
1)      Cfr., ex multis, MEOLI, La riforma della dirigenza pubblica: riflessioni sul rapporto fra politica e amministrazione, in Foro amministrativo 1991,2773; D’ORTA, Dalla sovrapposizione alla distinzione tra politica ed amministrazione, in Rivista trimestrale di diritto pubblico 1994,151; AMOROSINO, Note su alcune configurazioni reali dei rapporti tra direzione politica e dirigenza amministrativa nel contesto italiano, in Foro amministrativo 1995,1151; MERLONI, Amministrazione neutrale: a proposito di rapporti tra politica e amministrazione, in Diritto pubblico 1997,319; MANCIERI, Il nuovo modello dei rapporti tra politica e amministrazione, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza 2000,993.
2)      Cfr. CLARICH, Riflessioni sui rapporti tra politica e amministrazione (a proposito del T.A.R. Lazio come giudice della dirigenza statale), in Diritto amministrativo 2000,361.
 
 

Busico Luca

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