Con l’entrata in vigore, in data 17.04.2014, della Direttiva UE 2014/23, la normativa sull’aggiudicazione delle concessioni ha, finalmente, ricevuto idonea codificazione e inquadramento giuridico a livello comunitario.
Fino a questo momento, infatti, la spinosa ed insidiosa definizione della “concessione di lavori e di servizi”, era rinvenibile nel diritto interno dei singoli Stati membri, e per quanto riguarda l’Italia all’art. 3, commi 11 e 12 del codice dei contratti pubblici:
art. 3, comma 11 – “le concessioni di lavori pubblici sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta, aventi ad oggetto, in conformità al presente codice, l’esecuzione, ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione e l’esecuzione di lavori pubblici o di pubblica utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica, che presentano le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo”;
art. 3, comma 12 – “la concessione di servizi è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo”.
Ebbene, la nuova direttiva europea interviene per eliminare le ambiguità derivanti ed insite nella frantumazione delle singole normative nazionali, intervenendo con una disciplina organica la quale non si limita a fornire agli operatori una mera definizione degli istituti giuridici ma impone ai paesi membri linee guida chiare e precise.
Inutile dire che ciò costituisce il mezzo ed allo stesso tempo il fine, sia per un’armonizzazione della materia a livello comunitario, sia per il ripristino della corretta concorrenzialità tra operatori economici (soprattutto in favore delle piccole-medie imprese, particolarmente svantaggiate dalla vecchia disciplina); con una ricaduta per certo positiva – tanto in ambito nazionale quanto transnazionale -, anche in termini di investimenti pubblici nei più svariati settori.
Esaminiamo, dunque, le principali novità introdotte dalla direttiva di cui trattasi, che divideremo, per ragioni di sinteticità e schematicità, in quattro gruppi tematici:
1) la definizione giuridicamente specifica della concessione e la previsione di una precisa procedura di aggiudicazione;
2) l’applicazione della normativa alle concessioni di lavori e di servizi con valore pari o superiore ad € 5.186.000,00, e, altresì, un elenco puntuale delle categorie di concessioni espressamente escluse;
3) l’introduzione dell’obbligo del rischio operativo come elemento sostanziale;
4) l’in house providing in tema di concessioni;
Sul primo punto, si è già accennato in sede introduttiva. E’ opportuno, però, approfondire la tematica in oggetto riportando l’articolo 2, par. 1, lett. a) e b), che offre una nuova descrizione delle caratteristiche proprie del contratto di concessione:
– quanto alla concessione di lavori, essa è definita come un “contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano l’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i lavori oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo”;
– quanto alla concessione di servizi, “si intende un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più nti aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera a ) ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo”;
E’ evidente dunque che la direttiva di cui trattasi abbia fornito adeguata soluzione al contenzioso che la precedente disciplina, a causa della fumosità del confine fra il concetto di appalto e quello di concessione, ha alimentato in abbondanza in buona parte dei Paesi Membri.
Ed invero, dall’esame della normativa in oggetto emerge con chiarezza che il tratto distintivo tra le due fattispecie è rinvenibile nel fatto che, nel contratto di concessione, il corrispettivo derivante dall’erogazione del servizio è appunto il diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto, diversamente da quanto accade nell’appalto, nel quale il corrispettivo che deriva dall’esecuzione dei lavori o dalla gestione dei servizi è l’erogazione di un contribuito economico che viene pattuito con la stazione appaltante e dalla stessa erogato.
Peraltro in merito non sarà peregrino osservare che il legislatore comunitario è rimasto per buona parte aderente alla definizione che di tali contratti ha dato il codice italiano.
Sul secondo punto, gli articoli 8 e 9 determinano la soglia economica minima che deve raggiungere il valore della concessione, il metodo di calcolo della stessa e le varie revisioni alle quali la predetta soglia sarà soggetta nel tempo.
L’art. 8, par. 1 infatti, specifica che la direttiva si applica a concessioni di valore pari o superiore ad € 5.186.000,00.
Al fine di valutare correttamente la consistenza economica della stessa, il paragrafo 2 specifica che la stessa sarà costituita dal fatturato (stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore), al netto d’IVA, che produrrà il contratto per tutta la sua vita giuridica quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto del contratto stesso ivi compresi eventuali altri lavori, forniture o servizi accessori. Dal 30 giugno 2013, poi la Commissione ha il compito di verificare, con cadenza biennale, che la soglia di cui all’art. 8 par. 1, sia in linea con quella stabilita dall’accordo sugli appalti pubblici dell’Organizzazione mondiale del commercio per le concessioni di lavori.
Qualora ne ravvisi la necessità, la suddetta Commissione provvederà alla revisione della soglia (art. 9 par. 1).
Il legislatore ha inteso in questo modo, ancora una volta, fornire un rigoroso inquadramento giuridico-economico, tale da non lasciare spazio a dubbi interpretativi di alcun tipo.
In ossequio al noto brocardo in claris non fit interpretatio, conferendo gli strumenti necessari al calcolo del valore delle concessioni, nonché una soglia di consistenza economica minima e i parametri per l’eventuale revisione della stessa, è ragionevole supporre che il volume delle controversie relative agli aspetti formali e strettamente finanziari sarà quantomeno esiguo, ad evidente beneficio del corretto svolgimento delle attività dei mercati.
Infine, con la medesima precisione, l’art. 10 elenca le concessioni che restano escluse dall’applicazione della normativa in esame, che di seguito sinteticamente si riportano:
– concessioni aggiudicate in base a norme sugli appalti pubblici previste da un’organizzazione od istituzione internazionale di finanziamento, quando le stesse sono interamente finanziate dalla stessa organizzazione od istituzione;
– concessioni in materia di sicurezza e difesa di cui alla direttiva 2009/81 Ce, che sono oggetto di specifici accordi od intese siglate tra uno o più Stati membri e uno o più Paesi terzi;
– concessioni concernenti il tempo di trasmissione o la fornitura di programmi che sono aggiudicate ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici, nonché le analoghe concessioni di servizi per l’acquisizione, lo sviluppo, la produzione o coproduzione di programmi destinati ai servizi di media audiovisivi o radiofonici che sono aggiudicate da fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici;
– concessioni legate a materiale militare o lavori e servizi sensibili;
– concessioni nel settore idrico;
– concessioni aggiudicate ad impresa collegata;
– concessioni in house.
Sul punto terzo, la novità sostanziale introdotta dal legislatore comunitario si impernia su di una più precisa individuazione del rischio operativo.
Preliminarmente occorre dare atto di ciò che comunemente si intende per “rischio operativo”: esso si considera come un’alea di natura economica, consistente nella possibilità di mancato recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti (nel caso di specie) per la realizzazione di lavori o la gestione di servizi.
I fattori di rischio possono essere tipizzati in quattro categorie:
– risorse umane: si tratta di frodi, errori, e, più in generale, di tutte le vicende che possono riguardare gli impiegati;
– sistemi informatici: ad esempio, guasti negli hardware o nei software, o guasti alle telecomunicazioni, etc;
– processi: questo fattore inerisce a procedure interne o controlli inadeguati;
– eventi esterni: vi rientrano tutte le perdite cagionate da fattori non direttamente controllabili dalle parti.
Ciò detto, si evidenzia che la direttiva specifica che il rischio operativo, per quanto concerne la normativa in esame, deve derivare da fattori esterni al controllo delle parti, limitandone di fatto la portata ad uno solo dei quattro fattori succitati.
Ed invero, il considerando 20 recita testualmente: “un rischio operativo dovrebbe derivare da fattori al di fuori del controllo delle parti. Rischi come quelli legati ad una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione”.
Si aggiunge, poi, che vi può essere rischio sul piano della domanda, dell’offerta oppure entrambi: per quanto concerne il primo, esso è afferente al fatto che la richiesta del mercato sia inferiore ai livelli previsti, mentre il secondo, viceversa, inerisce al fatto che la fornitura potrebbe non corrispondere alla domanda.
Ma l’aspetto del tutto innovativo concerne la nascita dell’obbligo di trasferimento in capo al concessionario del rischio operativo legato all’oggetto del contratto.
In altre parole, la figura del concessionario non è più scindibile dal rischio operativo insito nei lavori o i servizi erogati.
Egli è, pur sempre, un imprenditore: la direttiva lo indica come l’operatore economico che offra sul mercato la realizzazione di lavori e/o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi.
Il nostro codice civile all’art. 2082 lo definisce come colui che esercita un’attività economica finalizzata allo scambio di beni o di servizi: ed è proprio l’imprenditore stesso, in quanto tale, che assume il rischio della gestione della propria impresa e dei beni/servizi dalla stessa erogati.
In ultimo, è opportuno un piccolo cenno all’in house providing in tema di concessioni.
Questa locuzione indica il fenomeno con cui la Pubblica Amministrazione produce autonomamente i beni, servizi o lavori di cui necessita. Ciò implica, ovviamente, che la P.A. non ricorra a terzi tramite gara.
Ebbene, la direttiva si occupa di questo problema all’art. 17, ed esclude dal proprio ambito di applicazione un affidamento di servizio tra un’amministrazione aggiudicatrice e una persona giuridica di diritto pubblico o privato quando si verifichino tre condizioni.
– la prima eserciti sulla seconda un controllo analogo a quello da essa stessa esercitato sui propri servizi;
– più dell’80% delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dal controllante;
– nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati diretti, eccezion fatta per quelle forme di capitali privati che non comportano l’esercizio di un potere di veto o controllo.
Può accadere, anche, che l’organismo affidatario sia partecipato da più enti, determinando la sussistenza di un controllo analogo quando questo sia esercitato congiuntamente.
La norma permette che i privati entrino negli organismi affidatari in house, a patto che gli stessi non possano intervenire in alcun modo sulle decisioni strategiche, e per la prima volta vengono definiti anche i parametri per escludere dalla sua applicazione anche le forme di cooperazione tra P.A..
Ciò avviene quando il contratto tra amministrazioni pubbliche ha per oggetto un rapporto di collaborazione che abbia lo scopo di garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano erogati al fine di conseguire gli obiettivi comuni a tutte.
Quali saranno, dunque, le conseguenze dell’attuazione della direttiva (qui sinteticamente illustrata), in Italia?
Il Consiglio dei Ministri del 29 settembre scorso ha approvato il disegno di legge delega con il quale verranno recepite le nuove direttive e che condurrà all’abrogazione del vigente Codice Appalti (D. Lgs. 163/2006).
Il disegno di legge delega si pone l’obiettivo di creare un nuovo testo unico che racchiuda al proprio interno l’intero corpus di norme legate alla gestione dei contratti e delle concessioni pubbliche.
Il nuovo strumento normativo dovrebbe semplificare al massimo le procedure secondo i principi di trasparenza e pubblicità dei bandi di gara, razionalizzare il contenzioso stragiudiziale e applicare il principio cardine della direttiva 2014/23, ovvero il favor per le piccole-medie imprese nell’accesso al mercato.
Sarà necessario affrontare, com’è ovvio, un processo di transizione che si profila di non breve durata: come accennato in precedenza la normativa vigente, ad oggi, continua a produrre incessantemente controversie tra i soggetti appaltanti e le imprese concorrenti.
Ma proprio l’attuazione della direttiva offre lo spunto per un ultima riflessione che riveste la natura stessa dello strumento normativo utilizzato, id est, se in una materia così delicata sarebbe forse stato più opportuno adottare un regolamento comunitario.
L’efficacia generale, diretta ed immediata del regolamento all’interno degli Stati membri senza necessità (rectius: con divieto) recepimento, avrebbe invero offerto maggiori garanzie di omogeneità.
Ma d’altro canto anche la maggior “duttilità” della direttiva, potrebbe produrre effetti positivi consentendo maggior spazio di manovra agli Stati, in conformità alle peculiarità socio-economiche di ciascuno di essi.
Solo il tempo e l’analisi dell’attuazione della direttiva all’interno dei singoli Paesi potrà fornire una risposta agli interrogativi ed alle problematiche sollevate.
Fonti:
www.giustizia-amministrativa.it
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento