Art. 650 c.p. e le misure contro il Covid-19

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Abstract: Lo scritto analizza, innanzi tutto la disciplina generale del reato di cui all’art. 650 c.p., soffermandosi sugli elementi essenziali della fattispecie astratta e, molto sinteticamente, su alcune questioni processuali che il Giudice dovrà affrontare. In seguito si sofferma sull’applicazione della norma in relazione ai D.p.c.m. atti ad esperire misure di contrasto alla diffusione del Covid-19, con particolare attenzione alle condotte che il provvedimento vieta, al rapporto giuridico fra le molteplici ordinanze delle autorità regionali e dei sindaci e quelle Statali, e ai mezzi di prova utilizzabili per dimostrare la penale responsabilità dell’agente per il reato in esame, con particolare riguardo alla prova captativa.

SOMMARIO: 1. Norma. – 2. Oggetto Giuridico. – 3. Elemento. Soggettivo. – 4. Soggetto attivo. – 5. Il contenuto – 6. Caratteristiche – – 7. L’obbligo di comunicazione. – 8. Sindacato del Giudice. – 9. In relazione alle misure contro il Covid-19.

  1. Norma

Preliminarmente alla trattazione dell’argomento in esame è necessario analizzare, in via generale, la fattispecie di reato ex art 650 c.p., denominato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”.

Il reato de quo prevede che Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro”.

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  1. Oggetto giuridico

Per ciò che attiene all’oggetto giuridico tutelato, questi è rappresentato dall’ordine pubblico[1], il quale deve essere protetto avverso l’inosservanza individuale dei provvedimenti dell’autorità pubblica, che siano emanati per specifici motivi, determinati dalla stessa norma. È bene evidenziare, però, che dal tenore letterale della disciplina, si ravvisa un estensione dell’oggetto giuridico, dal momento che l’art. 650 c.p., genera tutela, dal punto di vista penalistico, anche ai provvedimenti emessi per i motivi di giustizia, di pubblica sicurezza o di igiene.

3. Elemento soggettivo

Trattandosi di contravvenzione, in relazione, invece, all’elemento soggettivo, bisogna affermare che la condotta di cui all’art. 650 c.p., viene punita, in egual modo, sia a titolo di colpa che a titolo di dolo. Rappresenta esimenti della penale responsabilità, l’ignoranza incolpevole sull’esistenza dell’ordine dell’Autorità, ed anche l’errore incolpevole sul contenuto dello stesso provvedimento. Ovviamente, si intende errore sul fatto, ai sensi dell’art. 47, e non già errore sul precetto[2].

4.Soggetto attivo

Appare, viceversa, superfluo soffermarsi sul soggetto attivo della contravvenzione, sicché questi può essere chiunque, ossia qualsivoglia soggetto verso il quale la disposizione è emanata.

Il contenuto. Il provvedimento di cui all’art. 650 c.p. può imporre a coloro verso i quali è disposto, sia un azione che un omissione. In oltre, il contenuto può anche essere complesso, dunque costituito da un obbligo funzionale a quello finale. In tale caso, la giurisprudenza si è esposta affermando che l’inadempimento dell’obbligo finale non integra la fattispecie di reato de quo, se non sussiste anche l’inadempimento dei quello strumentale[3].

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5.Caratteristiche

Questi elementi da soli non sono sufficienti affinché sia integrato il reato in esame, oltre a quanto sopra detto, risulta assolutamente fondamentale che il provvedimento non osservato sia emesso dall’Autorità, e che questi sia stato legalmente dato, e che sia emanato per ragioni di giustizia, o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico ovvero d’igiene. Oltre a ciò, affinché abbiano rilievo penale, le disposizioni dell’Autorità devono essere, necessariamente, individuali e concreti[4].

Si può affermare che i provvedimenti dell’autorità, danno luogo ad una fattispecie di atti amministrativi, di tipo autoritativo, che rappresentano un’espressione innovativa del potere amministrativo, atto a influire, in maniera diretta, su situazioni soggettive.

Ordunque, si può sostenere che non si possano ricomprendere, nella nozione di provvedimento dell’autorità, gli atti amministrativi che contengono disposizioni generali e astratte.

Tanto premesso, ai fini della configurabilità del reato ex art. 650 è fondamentale che, l’inosservanza attenga ad un particolare ordine, impartito ad un determinato soggetto, qualora sussistano eventi o circostanze che rendano necessarie che quest’ultimo, o effettui oppure ometta di tenere una specifica condotta. È necessario, inoltre, che l’inosservanza attenga ad un provvedimento emesso con riguardo a circostanze non già disciplinate in alcun’altra norma, dalla quale scaturisce un altrettanto autonoma sanzione.

Oltre a ciò, sempre ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in esame, è necessaria la sussistenza del potere innovativo in capo al provvedimento autoritativo volto a incidere, in maniera diretta, sulle situazioni soggettive.

Appare doveroso, al fine dell’analisi, soffermarsi, seppur brevemente, sull’autorità che ha il potere di emanare siffatti provvedimenti. Questi devono, necessariamente, essere emessi da un Autorità pubblica,  ossia da un Ufficio o un Ufficiale che abbia funzione pubblica, nonché da organi appartenenti all’amministrazione pubblica, investiti dalla potestà di manifestare una volontà avente forza coercitiva. Fra siffatte autorità vi è anche quella giudiziaria, ma in tal caso limitatamente all’emissione di provvedimenti aventi ad oggetto esclusivamente la tutela dell’ordine pubblico.

L’obbligo di comunicazione. Sussiste un ultimo elemento, in mancanza del quale, anche se perpetrata la condotta, questa non è idonea alla consumazione dell’illecito. Ebbene, affinché il provvedimento di cui all’art. 650 c.p. possa considerarsi efficace, e dunque obbligatorio per chi lo riceve, trattandosi di un provvedimento recettizio, deve necessariamente essere comunicato ai destinatari, con i modi previsti ex lege, o qualora non vi sia previsione normativa, attraverso qualsivoglia mezzo ritenuto adatto dall’autorità giudiziaria. Orbene, affinché possa sussistere la contravvenzione in esame, è fondamentale che il destinatario sia concretamente venuto a conoscenza, per tempo, del provvedimento, cosicché ne possa aver preso visione e dunque rispettarlo[5].

6.Sindacato del Giudice

Proprio con riguardo alle ragioni appena esposte, dal punto di vista dell’applicazione della legge, il Giudice penale, diversamente dalla prassi tipica, sarà tenuto ad effettuare una duplice valutazione. Innanzi tutto dovrà accertare che il provvedimento non sia affetto dai vizi tipici che possono colpire, qualsivoglia, atto amministrativo, poiché in caso contrario, mancando un idonea fonte di diritto, la condotta non potrebbe essere considerata illecita. In secundis, accertata la validità dell’atto autotitativo, dovrà stabilire se la condotta dell’agente sia idonea ad integrare la fattispecie di reato in esame.[6]

7.In relazione alle misure contro il Covid-19

Dopo la doverosa trattazione, in via preliminare, della disciplina generale del reato di cui all’art. 650 c.p., è necessario ora soffermarsi sulla responsabilità penale in relazione al d.p.c.m. del 9, dell’11 e del 22 marzo 2020, contenente misure urgenti di contenimento per il Covid-19.

Senz’altro i provvedimenti testé citati si conformano ai requisiti richiesti dalla disciplina in esame, per aversi penale responsabilità. Si può affermare, in via generale che chi contravviene a tali disposizioni realizza la condotta criminosa richiesta dalla disciplina. In particolare, però, è opportuno concentrarsi su quali condotte siano effettivamente illecite. Il d.p.c.m. prevede delle misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, ossia, nel concreto, delle limitazione della circolazione di persone, che di fatto sono sottoposti a quarantena, ai quali però è concessa deroga esclusivamente per ristrette ragioni, specificatamente previste dall’ordinanza stessa. Segnatamente è possibile uscire di casa per: comprovate esigenze lavorative, ragioni di salute e situazioni di necessità. In quest’ultimo motivo viene ricompresa la possibilità di ovviare alla quarantena per poter acquistare qualsivoglia bene di prima necessità, o comunque beni legati ad esigenze primarie non rimandabili, ma tale facoltà è riconosciuta ad un solo membro della famiglia per volta. Ma anche la possibilità di recarsi dai parenti anziani, non autosufficienti, per le adeguate cure. Nonché, la possibilità di assecondare i bisogni, sia fisiologici che patologici, dei propri animali domestici. Il tutto dovendo comunque osservare gli adeguati atteggiamenti prescritti.

In origine era concessa la possibilità di derogare alla quarantena in casa per poter effettuare attività fisica non di gruppo, tale possibilità è stata limitata, da un successivo inasprimento delle misure, concedendone la facoltà, esclusivamente, a chi dimostra, per mezzo di un certificato medico, di averne assoluta necessità.

Per cui, chiunque esca dal luogo di quarantena per ragioni diverse da quelle appena citate, incorre nella violazione dell’art. 650 c.p.; ovviamente quei soggetti sottoposti alla misura della quarantena obbligatoria, perché considerati portatori o probabili portatori del virus, non possono derogare alla misura neppure per le ragioni sopra esposte, pena l’applicazione dell’art. 650 c.p. o più grave reato.

Ovviamente si hanno dubbi in merito alla legittimità costituzionale dell’ordinanza in relazione alle restrizioni della libertà personale dell’individuo, specie in relazione al tipo di atto per mezzo del quale il provvedimento viene imposto. Tale argomento non può essere approfondito in tale sede, ci si limita a sottolineare che, l’orientamento giuridico maggioritario, non ritiene il d.p.c.m. adatto per l’imposizione di siffatti provvedimenti, poiché è un atto assolutamente individuale, emesso del Presidente del Consiglio dei Ministri, senza la possibilità che si discuta il contenuto in Parlamento (in quanto non vanno convertiti in Legge), ed invero anche dal Consiglio dei Ministri. Le ragioni di urgenza non sono sufficienti a giustificare tale scelta, giacché sussistono nel nostro ordinamento, tipologie di provvedimenti idonei a far fronte a situazioni emergenziali, senza però comprimere totalmente il potere legislativo; si pensi ai Decreti Legislativi.

Le perplessità non terminano con quanto appena detto. Il secondo interrogativo sorge ponendo l’attenzione sulla possibilità che sussistano più ordinanze emesse da organi amministrativi diversi, contenenti misure straordinarie, per la medesima questio. Al d.p.c.m. sono susseguiti, infatti, numerosi provvedimenti emanati da Sindaci e/o Presidenti di Regione, alcuni volti a ribadire le misure emesse dall’Organo statale, altri ad inasprire quelle stesse misure. Fermo restando, l’indiscutibile potestà di siffatti organi, di emettere tale fattispecie di provvedimenti  (potere riconosciuto sia dalla legge, sia dalla giurisprudenza) è necessario evidenziare come, nel caso di specie, l’efficacia di codeste ordinanze, a parere di chi scrive, risulti compresso. I poteri riconosciuti alle Regioni ed agli enti locali, sono residuali rispetto a quelli statali. Ciò comporta che, se sussiste un ordinanza emessa dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che disciplina sul medesimo oggetto delle ordinanze regionali e dei sindaci, la prima è da considerarsi Fonte di diritto preminente rispetto alle ultime. Ordunque, si può desumere che le ordinanze dei Presidenti di Regione e dei Sindaci, debbano essere necessariamente disapplicate nella parte in cui siano in contrasto con quella emessa dal Presidente del Consiglio.

Un terzo ed ultimo interrogativo sorge in relazione ai mezzi di prova utilizzabili per dimostrare la penale responsabilità dell’agente per il reato in esame; con particolare riguardo all’utilizzo della prova intercettiva. Tale controversia trae origine da alcune notizie di importanti organi di informazione, che hanno fatto presente l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine, su impulso di alcuni governatori di Regione, di mezzi captativi atti a rintracciare la posizione geografica dei cellulari, per dimostrare attraverso questa il rispetto o meno della quarantena da parte della popolazione. Siffatto mezzo probatorio è illegittimo. Orbene, molto semplicemente si può affermare che non è possibile utilizzare qualsivoglia tipo di intercettazione, ivi comprese quelle telefoniche e ambientali, per dimostrare la penale responsabilità del soggetto attivo per il reato in esame. Come è noto, per superare tutti i profili di incostituzionalità, la disciplina delle intercettazioni è sottoposta ad un rigido controllo di garanzia, che prevede che la prova captativa possa essere utilizzata limitatamente ai casi previsti dalla legge, disciplinati all’art. 266 c.p.p., e tra questi non è assolutamente presente il reato di cui all’art. 650 c.p.

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Note

[1] Corte Costituzionale n. 71 del 1968;

[2] Padovani T., “Codice Penale”, Giuffrè Editore, 2019, 4781 ss.;

[3] Cass. Pen. Sez. I n. 9844/2007;

[4] Cass. Pen. Sez. I n. 15936/2013;

[5] Cass. Pen. Sez.  I n. 46637/2009;

[6] Cass. Pen. Sez.  I n. 11448/2012;

Domenico Chirumbolo

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