Appellabilità della sentenza che non statuisce sulla misura di sicurezza dell’espulsione

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Non è appellabile la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione

    Indice

  1. Il fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite
  4. Conclusioni

1. Il fatto

Con sentenza emessa in esito ad un giudizio abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino dichiarava l’imputato responsabile del reato di cui agli artt. 110, 81, comma 2, cod. pen., 73, comma 5, e 80, comma 1, lett. a), d. P. R. 9ottobre 1990, n. 309, in quanto, agendo in concorso con un minorenne, deteneva e, in due occasioni, cedeva sostanza stupefacente, nel primo caso di tipo hashish e nel secondo di tipo marijuana e, conseguentemente lo condannava alla pena di mesi sei e giorni venti di reclusione ed euro mille di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e alla confisca e distruzione della sostanza stupefacente in sequestro.

Ciò posto, avverso questa sentenza ricorreva per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Torino lamentando, come unico motivo di impugnazione, che il giudice aveva omesso di disporre a carico dell’accusato la misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato, prevista dall’art. 86, comma 1, d. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309, pur avendo, contraddittoriamente, formulato alcune considerazioni, in ordine all’abitualità dello svolgimento di attività di spaccio di sostanze stupefacenti da parte dell’imputato, all’esistenza di precedenti specifici a suo carico e all’inesistenza di elementi personologici a suo favore, da cui avrebbe dovuto inferire la pericolosità sociale dell’imputato, stante la proclività a delinquere di quest’ultimo.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione 

Il ricorso summenzionato era stato originariamente assegnato alla Terza Sezione penale della Corte di Cassazione la quale, a sua volta, aveva rimesso la decisione alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di un contrasto interpretativo.

Infatti, secondo un primo orientamento, nettamente maggioritario, l’unico strumento d’impugnazione a disposizione del pubblico ministero avverso la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, nel caso in cui, senza che sia stato modificato il titolo del reato contestato, si sia omesso di statuire sull’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, è il ricorso per cassazione e da ciò ne deriva che il giudice del rinvio deve essere individuato non nel tribunale di sorveglianza, che sarebbe ordinariamente competente per gli appelli aventi ad oggetto le misure di sicurezza diverse dalla confisca, ma, trattandosi di sentenza inappellabile, nel giudice che ha emanato la sentenza annullata (ex plurimis, Sez. 5, n. 34818 del 20/09/ 2021; Sez. 6, n. 29544 del 7/10/2020; Sez. 1, n. 7516 del 26/02/2020; Sez. 4, n. 35977 del 7/05/2019; Sez. 3, n. 32173 dell’8/05/2018; Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008; Sez. 1, n. 27798 del 25/06/1998).

L’ordinanza di rimessione segnala, poi, che, ove dovesse ritenersi esperibile esclusivamente il ricorso per Cassazione, una ulteriore opzione ermeneutica relativa al problema dell’individuazione del giudice del rinvio che, laddove volesse considerarsi il ricorso del pubblico ministero una sorta di impugnazione per saltum necessitata dalla legge, andrebbe individuato nel Tribunale di Sorveglianza e cioè nell’organo giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente per l’appello avverso la sola disposizione riguardante l’applicabilità o meno della misura di sicurezza, ai sensi del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen..

Oltre a ciò, la Sezione rimettente sottolineava tra l’altro l’esistenza di un orientamento difforme secondo cui, per effetto del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen., la cognizione dell’impugnazione delle sole disposizioni contenute nella sentenza gravata riguardanti l’applicazione di misure di sicurezza, diverse dalla confisca, è devoluta alla competenza del Tribunale di Sorveglianza, ad eccezione del caso in cui, oltre al capo concernente la misura di sicurezza, sia oggetto di impugnazione anche un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili (Sez. 6, n. 16798 del 25/3/2021) fermo restando che diverso è il caso in cui il giudice modifichi il titolo del reato, ma l’impugnazione del pubblico ministero non riguardi la modificazione del titolo di reato e la mancata applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione del condannato dal territorio dello Stato atteso che in questo caso l’ordinanza di rimessione evidenziava come sia stato ritenuto, in giurisprudenza, che l’oggettiva appellabilità della sentenza imponga, dato il contenuto del ricorso, circoscritto all’applicazione della misura di sicurezza, la necessità di promuovere il gravame di fronte non alla corte d’appello ma al tribunale di sorveglianza, unico organo giudiziario competente per gli appelli aventi ad oggetto esclusivamente le misure di sicurezza (Sez. 4, n. 1196 del 4/12/ 2020).


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3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, dopo avere circoscritto il perimetro nella questione sottoposta al suo vaglio giudiziale (nei seguenti termini: “Se l’impugnazione, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di disporre, ai sensi dell’art. 86, comma 1, d. P. R. n. 309 del 1990, la misura di sicurezza della espulsione dell’imputato straniero dal territorio dello Stato, debba essere presentata e trattata nelle forme del ricorso per cassazione ovvero in quelle dell’appello di fronte al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell’art. 579, comma 2, cod. proc. pen. Se, nel caso di ritenuta ricorribilità per cassazione, il rinvio a seguito di annullamento della sentenza impugnata debba essere disposto in favore del giudice che ha emesso la sentenza stessa ovvero in favore del tribunale di sorveglianza competente ai sensi dell’art. 680, comma 2, cod. proc. pen.”) e dopo avere anch’esse illustrato gli orientamenti nomofilattici elaborati in subiecta materia, in termini non molto dissimili rispetto a quanto fatto dalla sezione semplice remittente, riteneva condivisibile l’orientamento maggioritario.

In particolare, per giungere a siffatta conclusione, una volta esaminati i dati testuali di riferimento e, in primo luogo, dal dettato dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., gli Ermellini evidenziavano prima di tutto che tale norma costituisce attuazione del dettato della legge-delega (legge 16 febbraio 1987, n. 81), che, all’art. 2, punto 53, prevede la previsione di limiti alla appellabilità della sentenza emessa nell’ambito del rito abbreviato, tenuto del resto conto che nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale si chiarisce che le disposizioni in tema di limitazione dell’appellabilità della sentenza emessa nel giudizio abbreviato tendono a evitare, in attuazione delle finalità espresse dalla legge-delega, che il giudizio svoltosi con rito abbreviato in primo grado possa ritardare la sua completa definizione, rendendo inutile l’accelerazione del processo in primo grado (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale in G.U., suppl. ord. n. 2 alla Gazzetta Ufficiale n. 250 del 24 /10/1988, p. 106).

La previsione della possibilità per il pubblico ministero di appellare la sentenza con cui venga modificato il titolo di reato è stata quindi inserita nel testo definitivo dell’art. 443 cod. proc. pen., in adesione ad una proposta formulata in tal senso dalla Commissione parlamentare, come unica eccezione al principio dell’inappellabilità per la pubblica accusa della pronuncia di condanna emessa in abbreviato fermo restando che la Corte costituzionale, da un lato, ha ritenuto che le limitazioni all’appellabilità della sentenza si giustificano, poiché la pronuncia di condanna realizza un sostanziale accoglimento delle tesi accusatorie e il principio di parità tra le parti non implica una necessaria simmetria tra i poteri di impugnazione della decisione giudiziale (Corte cost., sent. n. 305 del 15/06/1992; Corte cost., sent. n. 363 del 23/07/1991), dall’altro, ha escluso che la disciplina in esame si ponga in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost. (Corte cost., sent. n. 98 del 24/03/1994).

Precisato ciò, i giudici di piazza Cavour rilevavano altresì cOMe, sotto altro profilo, occorresse rilevare come il tenore testuale del disposto dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., sia del tutto univoco nel riferire la preclusione della proponibilità dell’appello alle “sentenze” di condanna, non essendovi tra l’altro base testuale per l’assunto secondo il quale il disposto dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. circoscriverebbe la preclusione della proponibilità dell’appello ai capi penali della sentenza, essendo ben vero che l’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali, poiché il significato dei termini utilizzati dal legislatore va spesso ricavato da elementi extratestuali visto che l’art. 12 delle preleggi, dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro significato proprio, secondo la connessione di esse, impone di tener conto altresì dell’intenzione del legislatore.

Rimane pertanto fondamentale, ad avviso del Supremo Consesso, il canone ermeneutico in claris non fitinterpretatio il quale prescrive di attenersi, ove la lettera della legge non sia oscura, a una interpretazione fedele al tenore testuale della norma.

Invero, in questa prospettiva, si notava come le Sezioni Unite abbiano già avuto modo di chiarire che l’interpretazione letterale della legge è il canone ermeneutico prioritario per l’interprete, sicché l’ulteriore criterio dato dall’interpretazione logica e sistematica soccorre e integra il significato proprio delle parole, arricchendolo delle indicazioni derivanti dalla ratio della norma e dal suo inserimento nel sistema ma tale criterio non può servire a scavalcare o eludere quello letterale allorché la disposizione della quale occorra fare applicazione sia chiara e precisa (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016).

Del resto, la stessa giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che il significato della lettera della norma impugnata non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme e dunque impedisce di conseguire in via interpretativa l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre (così, ex plurimis, Corte cost., sent. n. 110 del 2012), anche se deve essere precisato che, se prioritario, nel senso indicato, è l’esame delle connotazioni testuali della norma (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017), tale esame non esonera certo il giudice dalla ricerca di tutti i possibili significati enucleabili dal testo.

All’interno di quello che, in ambito civile, è stato indicato come il limite di “tolleranza ed elasticità del significante testuale” (Sez. U civ., n. 27341 del 23/12/2014), per il Supremo Consesso, l’interprete deve quindi esplorare a fondo le potenzialità linguistiche della disposizione legislativa individuando, anche alla luce del sistema normativo in cui è inserita, tutti i possibili coerenti significati autorizzati dal testo.

Il dato letterale, dunque, è l’oggetto prioritario dell’attività interpretativa e ne segna il limite “esterno” (Corte cost., sent. n. 230 del 2012) ma il perimetro individuato, per l’interprete, dal limite esterno rappresentato dal dato testuale ben può includere – e spesso include – una pluralità di significati attribuibili al testo della disposizione: pluralità desumibile, ad esempio, dall’intrinseca polisemia dello stesso dato testuale, così come dalla lettura di quest’ultimo nel contesto delineato dal sistema normativo in cui si colloca e dalla disciplina legale dell’istituto di cui la norma è parte (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018).

In tale contesto, dunque, per la Corte di legittimità, assume un significato univoco il termine “sentenze” che fa espresso riferimento al complesso delle statuizioni contenute nel provvedimento giurisdizionale e, dunque, il dato testuale induce a ritenere che avverso nessuna delle statuizioni emanate con la sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato sia proponibile appello.

D’altronde, sempre per la Cassazione, non può dubitarsi che l’impugnazione di fronte al Tribunale di Sorveglianza sia un appello posto che l’art. 680, commi 1 e 3, cod. proc. pen. denomina espressamente “appello” l’impugnazione di fronte al tribunale di sorveglianza concernente le misure di sicurezza, tenuto conto altresì del fatto che la definizione in termini di appello dell’impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza di fronte al tribunale di sorveglianza trova la propria giustificazione, come correttamente è stato evidenziato in giurisprudenza (Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008), nella riscontrabilità di evidenti connotati di merito nella valutazione di pericolosità sociale del condannato, che costituisce il necessario presupposto della applicazione o meno della misura di sicurezza.

Peraltro, sempre secondo la Suprema Corte, se non si trattasse di un appello, sarebbe difficile individuare la natura giuridica di tale impugnazione, a meno di ritenere che si tratti di un tertium genus e cioè di un mezzo di impugnazione estraneo alla natura giuridica sia dell’appello che del ricorso per cassazione: dunque un unicum, connotabile senz’altro in termini di anomalia, esulante dalle linee fondanti del nostro ordinamento processuale in materia di impugnazioni e, quindi, certamente non configurabile in un’ottica di corretto inquadramento nell’architettura del sistema, tanto più che l’espressa denominazione di appello viene ribadita dal comma 3 dell’art. 680 cod. proc. pen., laddove si stabilisce che esso non abbia effetto sospensivo atteso che la dottrina e la giurisprudenza, nel focalizzare i tratti connotativi dell’impugnazione in esame, sono addivenute a conclusioni del tutto coerenti con l’attribuzione ad essa della natura giuridica di appello, laddove, ad esempio, la dottrina ha condivisibilmente affermato che la cognizione del Tribunale di Sorveglianza quale giudice di appello è limitata alle questioni prospettate dall’impugnante; oppure laddove, sotto il profilo strettamente procedimentale, la giurisprudenza ha correttamente evidenziato che la competenza territoriale del Tribunale di Sorveglianza, per le impugnazioni contro le sole disposizioni concernenti le misure di sicurezza, è determinata avendo riguardo al distretto giudiziario di appartenenza del tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado (Sez. 1, n.14602 del 10/01/2011), rilevandosi al contempo che, in una prospettiva del tutto aderente alla logica del giudizio di appello, si è poi sottolineato che il Tribunale di Sorveglianza osserva le regole del procedimento camerale partecipato, decidendo in pubblica udienza quando vi è richiesta dell’interessato, ai sensi dell’art. 678, comma 3.1., cod. proc. pen., poiché nel procedimento di fronte al predetto tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 599 cod. proc. pen., il quale rinvia alle forme dell’udienza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 25207 del 15/04/2019).

A sua volta il richiamo all’osservanza delle disposizioni generali in materia di impugnazioni, contenuto nell’art. 680, comma 3, cod. proc. pen., comporta poi l’operatività dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. sul divieto di reformatio in peius (Sez. 5, n. 48786 del 28/05/2013) che non consente al giudice d’appello di applicare una misura di sicurezza nuova o più grave nel caso in cui l’impugnazione sia stata presentata dal solo interessato (Sez. 1, n. 48304 del 7/06/2018).

Precisato ciò, a questo punto della disamina, gli Ermellini stimavano opportuno fare presente come, sotto il profilo logico-sistematico, occorra osservare come già ad un primo sguardo non possa non balzare all’occhio l’anomalia di un gravame di merito ammesso, nel giudizio abbreviato, da parte del pubblico ministero, soltanto in materia di misure di sicurezza poiché bisognerebbe ritenere, a loro avviso, incongruamente, che al pubblico ministero sia preclusa la proposizione dell’appello laddove, ad esempio, siano state escluse circostanze aggravanti ad effetto speciale o siano state ravvisate attenuanti ad effetto speciale che il requirente ritenga palesemente insussistenti, con vistoso abbattimento della pena, e che l’unico punto della regiudicanda su cui il pubblico ministero possa proporre un gravame di merito sia quello inerente all’applicazione o meno di una misura di sicurezza personale.

Del resto, si segnalava al riguardo come l’orientamento favorevole a tale conclusione abbia ritenuto di trarre argomento a favore della propria tesi dai principi affermati da Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, (dep. 27/01/2021), in tema di autonomia del sistema delle impugnazioni delle misure di sicurezza, avendo le Sezioni Unite, con la predetta pronuncia, affermato, con riguardo al rapporto tra giudicato e misure di sicurezza, che l’esecutività della pena in caso di giudicato progressivo non presuppone la definitività della decisione relativa alle misure di sicurezza ordinate con sentenza, atteso che tale statuizione non influisce in alcun modo sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione.

Donde l’autonomia delle vicende processuali correlate all’impugnazione delle misure di sicurezza disposte con sentenza di condanna (Sez. 1, n. 2260 de126/03/2014; Sez. 1, n. 6371 del 31/01/2006) da attribuire alla competenza funzionale del giudice di sorveglianza, dalla cui decisione dipende la sola esecuzione delle misure di sicurezza ordinate con sentenza, analogamente alle vicende relative all’impugnazione dei soli capi civili che non condiziona l’eseguibilità della pena, a norma dell’art. 573, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 16798 del 25/3/2021).

Orbene, per le Sezioni Unite, tali rilievi non appaiono condivisibili dato che la sentenza emessa dalle Sezioni Unite di cui al n. 3423/2020, affrontando il tema del giudicato progressivo, ha messo in luce l’autonomia tra le statuizioni relative al reato e alla pena e quelle afferenti alle misure di sicurezza personali, che hanno percorsi distinti, anche in sede esecutiva.

Le Sezioni Unite hanno, quindi, stabilito che l’esecutività della sentenza in caso di giudicato progressivo non presuppone la definitività della decisione in ordine alle misure di sicurezza, inidonee ad influire sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione e, di conseguenza, l’impugnazione della misura di sicurezza, ha un percorso del tutto autonomo, che è delineato dal combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen..

La problematica affrontata nella decisione n. 3423/2020 concerne, quindi, per la Suprema Corte, una tematica diversa da quella oggetto di esame nel caso di specie, che riguarda(va) il regime delle impugnazioni della misura di sicurezza personale.

In particolare, si denotava che l’autonomia di quest’ultima è stata affermata nella sentenza n. 3423/2020 al solo fine di sottolineare l’estraneità delle statuizioni ad essa relative rispetto alla problematica afferente all’eseguibilità della pena in caso di giudicato progressivo e non può dunque inferirsene, ad avviso della Corte di legittimità, per quanto attiene specificamente al giudizio abbreviato, la assoggettabilità delle statuizioni inerenti alle misure di sicurezza a un regime impugnatorio diverso da quello dei capi penali della sentenza.

Del resto, sempre per le Sezioni Unite, argomenti a sostegno della tesi favorevole all’ammissibilità dell’appello di fronte al Tribunale di Sorveglianza non possono nemmeno trarsi dall’affermazione secondo la quale sussiste, in materia di misure di sicurezza, una competenza funzionale di tale organo giurisdizionale, essendo assai diffusa l’affermazione secondo cui è attribuita al tribunale di sorveglianza una competenza funzionale in materia di misure di sicurezza personali (ex plurimis, Sez. 1, n. 51869 del 30/09/2019; Sez. 1, n. 3645 del 22/12/2017; Sez. 5, n. 45650 del 26/09/2012; Sez. 6, n. 26096 del 6/05/2004) giacchè, a norma dell’art. 579, comma 2, cod. proc. pen., l’impugnazione delle sole disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza personali deve essere proposta al tribunale di sorveglianza (Sez. 6, n. 36535 del 22/09/2010).

Ove dunque venga impugnato il solo capo della sentenza relativo all’applicazione della misura di sicurezza personale e al giudizio di pericolosità, per la Cassazione, la competenza funzionale appartiene al Tribunale di Sorveglianza (cfr., ad esempio, Sez. 6, n. 36535 del 22/09/2010, che ha annullato senza rinvio la sentenza della corte d’appello che aveva confermato la sentenza di proscioglimento dell’imputato, trattandosi di persona non imputabile, per totale incapacità di intendere di volere, con applicazione della libertà vigilata, disponendo la trasmissione degli atti al tribunale di sorveglianza competente, avendo la difesa dell’imputato impugnato il solo capo della sentenza relativo al giudizio di pericolosità sociale ed all’applicazione della misura di sicurezza non detentiva).

Occorre tuttavia, per la Corte, distinguere il momento in cui il giudice dispone la misura di sicurezza personale da quello in cui essa ha la sua concreta esecuzione, previo accertamento del persistere della pericolosità sociale al tempo dell’effettiva attuazione (Corte cost., sent. n. 139 del 27/7/1982) dal momento che quest’ultima fase è disciplinata dagli artt. 679 e 680, comma 1, cod. proc. pen., che affidano in via esclusiva le relative determinazioni alla magistratura di sorveglianza, specie se si considera che il sistema processuale penale non attribuisce al Tribunale di Sorveglianza alcuna competenza esclusiva in materia di misure di sicurezza visto che la pronuncia di primo grado in subiecta materia non spetta al magistrato di sorveglianza, ma al giudice della cognizione.

Ma, anche a voler circoscrivere tale competenza funzionale al giudizio di impugnazione, l’opzione ermeneutica in esame, per la Corte di legittimità, collide con il disposto dell’art. 579, comma 1, cod. proc. pen. perché tale norma stabilisce, come è noto, che contro le sentenze di condanna, così come contro quelle di proscioglimento, è data impugnazione anche per ciò che concerne le misure di sicurezza, se l’impugnazione viene proposta per un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili, e ciò significa che, laddove l’impugnazione involga una qualunque delle altre questioni poste dalla regiudicanda (responsabilità, qualificazione giuridica del fatto, sussistenza o insussistenza di una circostanza attenuante o aggravante, trattamento sanzionatorio e via dicendo), la competenza non appartiene affatto al Tribunale di Sorveglianza, ma alla Corte di Appello.

L’attribuzione della competenza al Tribunale di Sorveglianza presuppone dunque, per la Cassazione, che l’impugnazione sia limitata alle sole disposizioni che riguardino le misure di sicurezza, mentre quando l’impugnazione riguarda altri capi penali della sentenza ovvero altri punti della decisione pur afferenti allo stesso capo, riprende vigore la regola generale che attribuisce la competenza al giudice della cognizione (Sez. 2, n. 29625 del 28/05/2019) fermo restando che, in applicazione di questo principio, Sez. 1, n. 2457 del 16/12/2008, e Sez. 1, n. 6371 del 31/01/2006, hanno ritenuto competente la Corte di Appello a decidere sull’impugnazione avverso sentenza di proscioglimento in primo grado ed applicazione di misura di sicurezza personale per un’ipotesi di istigazione a delinquere non accolta, in quanto le censure investivano l’accertamento della condotta contestata all’imputato e la correttezza della formula assolutoria adottata, e ciò implica che si collochi al di fuori dell’area della competenza del tribunale di sorveglianza la cognizione non solo dei capi penali della sentenza, ma di tutti i punti relativi ai predetti capi, relativamente ai quali riprende vigore la regola generale che attribuisce la competenza al giudice della cognizione di merito (Sez. 1, n. 2260 del 26/03/2014) con conseguente possibilità di rilevare ex officio l’incompetenza del tribunale di sorveglianza (Sez. 1, n. 2457 del 16/12/2008).

Va da sé quindi, per le Sezioni Unite, che l’eventuale errore dell’interessato nella qualificazione del mezzo di impugnazione e nell’individuazione del giudice competente non determina l’inammissibilità dell’impugnazione ma comporta la conversione del mezzo poiché il sistema processuale, informato ai principi di tassatività, unicità e specificità dei mezzi di impugnazione, nonché al favor impugnationis, impone di procedere all’esatta qualificazione del mezzo e di trasmettere gli atti al giudice competente (Sez. 1, n. 5528 del 12/02/1991).

Dall’architettura logico-giuridica in esame deriva pertanto che non può affermarsi una competenza funzionale generalizzata del Tribunale di Sorveglianza in materia di impugnazione delle disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza in quanto tale competenza è limitata al solo caso in cui venga impugnata la sola statuizione in tema di misura di sicurezza: ipotesi, dunque, concettualmente, oltre che operativamente, assai circoscritta e senz’altro inidonea a indurre a ritenere che il Tribunale di Sorveglianza sia un organo specializzato nella materia delle misure di sicurezza.

Ciò posto, era per di più precisato che, ai sensi dell’art. 313, comma 3, cod. proc. pen., le misure di sicurezza disposte in via provvisoria sono equiparate alle misure cautelari ed esulano pertanto dall’ambito operativo dell’art. 579 cod. proc. pen., ragion per cui il relativo provvedimento applicativo deve essere impugnato dinanzi al tribunale del riesame (Sez. 1, n. 3450 del 8/03/1996; Sez. 1, n. 4492 del 27/10/1993) mentre completamente diversa è la situazione nell’ambito del giudizio ordinario.

È invero noto che, a norma dell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen., così come novellato dall’art. 2, comma 1, lett. a), d. Igs. 8 febbraio 2018, n. 11, il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Quanto alla appellabilità delle pronunce di condanna che modificano il titolo di reato, la novella ha, all’evidenza, allineato la disciplina dell’appellabilità delle sentenze emesse al termine del rito ordinario al regime previsto per il giudizio abbreviato.

Dunque, per la Suprema Corte, è certamente vero che, a seguito della riforma del 2018, la divergenza tra il giudizio ordinario e il rito abbreviato risulta meno ampia che in passato poiché, in sostanza, le possibilità aggiuntive di impugnazione da parte del pubblico ministero nel rito ordinario riguardano soltanto l’esclusione della sussistenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale – e cioè di quelle circostanze che importano un aumento della pena superiore a un terzo (art. 63, comma 3, cod. proc. pen.) – o l’irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, fermo restando che, dal canto suo, la Corte costituzionale, interrogata sulla ragionevolezza della nuova normativa, ha difeso le scelte del legislatore ritenendo che l’impugnazione del pubblico ministero non sia giuridicamente connessa al principio di obbligatorietà dell’azione penale e che, diversamente dall’impugnazione dell’imputato, proiezione del suo inviolabile diritto di difesa, ex art. 24 Cost., essa si presenti pertanto più flessibile nel contrasto con altri valori di pari rango come, ad esempio, il principio della ragionevole durata del processo (Corte cost., sent. n. 34 del 26/2/2020).

Esiste tuttavia, ad avviso delle Sezioni Unite, per quanto concerne il problema in esame, una insanabile alterità testuale: l’art 593, comma 1, a differenza dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., richiama espressamente gli artt. 579 e 680 cod. proc. pen..

Da ciò se ne faceva derivare che, in sede di giudizio ordinario, il pubblico ministero, che voglia impugnare la sentenza di condanna esclusivamente in ordine al capo concernente le misure di sicurezza, diverse dalla confisca, ha a disposizione lo strumento dell’appello di fronte al Tribunale di Sorveglianza.

Qualora, invece, l’impugnazione riguardi esclusivamente la confisca, essa andrà proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali, a norma dell’art. 579, comma 3, cod. proc. pen. e cioè mediante appello di fronte alla Corte di Appello o al Tribunale in funzione di giudice d’appello avverso le sentenze del giudice di pace mentre, nel caso in cui il pubblico ministero impugni, unitamente alle statuizioni in tema di misure di sicurezza, anche un altro capo di sentenza, egli dovrà proporre l’appello di fronte alla Corte di Appello (o al Tribunale in funzione di Giudice di Appello).

Ove dunque l’impugnazione contro la decisione in materia di misure di sicurezza venga proposta contestualmente a quella che investe un altro capo della sentenza (purché non riguardante esclusivamente gli interessi civili), la seconda attrae la prima e dunque il giudizio si svolge di fronte al giudice dell’ordinario procedimento di cognizione, anche se tale impugnazione provenga da altra parte processuale (Sez. 5, n. 7848 del 13/03/1990), posto che la ratio della previsione è quella di conservare l’unità del procedimento, impedendo che il processo unitario si scinda in una pluralità di procedimenti di controllo su un unico provvedimento.

Quando invece il capo penale della sentenza sia passato in giudicato, in quanto non investito da impugnazione, il cumulo dei giudizi viene meno e la decisione sul gravame relativa alla misura di sicurezza viene attribuita alla magistratura di sorveglianza fermo restando che naturalmente ciò si riverbera sugli effetti del giudizio di appello poiché, ai sensi dell’art. 680, comma 3, cod. proc. pen. l’appello al Tribunale di Sorveglianza non ha efficacia sospensiva, salvo che il Tribunale disponga altrimenti, mentre tale effetto caratterizza il gravame dinanzi al giudice della cognizione.

D’altro canto, l’art. 593, comma 1, cod. proc. pen. fa anche espressamente salvo l’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. e ciò significa che il pubblico ministero nel giudizio abbreviato può proporre appello nel solo caso di sentenza che muti la qualificazione giuridica del fatto, come confermato dal mancato richiamo nel corpus dell’art. 443, comma 3, degli artt. 579 e 680 cod. proc. pen..

Tal che se ne faceva conseguire, da quanto sin qui argomentato, che, non essendo il pubblico ministero abilitato ad appellare la sentenza pronunciata in sede di rito abbreviato, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il ricorso per Cassazione dal medesimo proposto avverso la predetta decisione, che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione, non può essere considerato ricorso per saltum, con la conseguenza che non trova applicazione il disposto dell’art. 569, ultimo comma, cod. proc. pen., secondo cui il giudice competente per il giudizio di rinvio è il giudice competente per l’appello.

Da ciò se ne faceva derivare che giudice del rinvio è lo stesso organo che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 1, n. 32173 del 13/07/2018).

Sulla base delle argomentazioni sinora svolte, le Sezioni Unite formulavano i seguenti principi di diritto: “La sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione (ai sensi dell’art. 86, comma 1, d. P. R. n. 309 del 1990) non è, sotto tale profilo, appellabile dal pubblico ministero al tribunale di sorveglianza ex art. 680 cod. proc. pen. ma impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 608 cod. proc. pen. Se, in relazione alla omessa disposizione della misura di sicurezza dell’espulsione, è annullata la sentenza di un tribunale o di un giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.”.

4. Conclusioni 

La decisione in esame desto un certo interesse in quanto, con tale pronuncia, le Sezioni Unite, componendo un pregresso contrasto giurisprudenziale, forniscono risposta ai seguenti quesiti: “Se l’impugnazione, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di disporre, ai sensi dell’art. 86, comma 1, d. P. R. n. 309 del 1990, la misura di sicurezza della espulsione dell’imputato straniero dal territorio dello Stato, debba essere presentata e trattata nelle forme del ricorso per cassazione ovvero in quelle dell’appello di fronte al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell’art. 579, comma 2, cod. proc. pen. Se, nel caso di ritenuta ricorribilità per cassazione, il rinvio a seguito di annullamento della sentenza impugnata debba essere disposto in favore del giudice che ha emesso la sentenza stessa ovvero in favore del tribunale di sorveglianza competente ai sensi dell’art. 680, comma 2, cod. proc. pen.”.

Difatti, in tale pronuncia, siffatte Sezioni giungono a formulare i seguenti principi di diritto: 1) la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione (ai sensi dell’art. 86, comma 1, d. P. R. n. 309 del 1990) non è, sotto tale profilo, appellabile dal pubblico ministero al tribunale di sorveglianza ex art. 680 cod. proc. pen. ma impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 608 cod. proc. pen.; 2) se, in relazione alla omessa disposizione della misura di sicurezza dell’espulsione, è annullata la sentenza di un tribunale o di un giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen..

Pertanto, alla stregua di tali criteri ermeneutici ne discende, da un lato, che ove in una sentenza di condanna sia riscontrabile una omissione di questo genere, il rimedio da doversi esperire è il ricorso per Cassazione, e non l’appello, dall’altro, che, ove la Cassazione disponga in tale caso l’annullamento, essa dovrà altresì disporre che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. che, come noto, nel prevedere l’annullamento con rinvio se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, stabilisce altresì che la Corte di Cassazione debba disporre la trasmissione degli atti al medesimo tribunale, statuendo al contempo che, tuttavia, il giudice, a cui sono inviati, deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, dunque, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere positivo.

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