Anche le prostitute dovrebbero tenere le scritture contabili ai fini della tassazione del reddito

Minelli Bruno 02/06/11
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Padre ********, il portavoce della Santa Sede, il 20/11/2010 si è affrettato a precisare quale era il senso del libro intervista al Papa, Luce del Mondo – ancora inedito – di cui alcuni commenti su significativi stralci erano cominciati a circolare il giorno prima, in specie sul capitolo 11.

In effetti, le esemplificazioni giornalistiche, e i primi lanci d’agenzia, potevano ingenerare nei più la sensazione che lo sdoganamento del profilattico, in specifici casi, e per una sorta di legge del contrappasso, presupponesse un’analoga acquiescenza sul mestiere più antico del mondo, quello dei postriboli di romana memoria.

Ammettere il preservativo per specifici casi mandava alla mente la difesa dall’Aids, nell’immaginario collettivo contraibile per rapporti non protetti con la prostituzione e, quindi, se per i canoni cattolici il profilattico diventa legittimo, incidentalmente altrettanto legittima sarebbe la causa prima di contrazione della malattia, l’esercizio, appunto, della prostituzione.

E’ straordinario come il Padre riesca a dire tutto e il contrario di tutto con il suo non giustifica moralmente l’esercizio disordinato della sessualità, evocando, infine, un ritorno alle origini del cristianesimo e alle maddalene da redimere, quelle che, sulla via della conversione, per intanto abbozzano un ripensamento iniziatico (un primo passo di responsabilità – nda, usare il profilattico) per poi arrivare ad emendarsi, finalmente giungendo, sono sempre parole di Padre ********, a una sessualità più umana.

E quando poi il libro è uscito, si è capito che il papa non ha svicolato, né si è trincerato dietro i dogmatismi della cattedra che rappresenta, vi diciamo che è qualcosa da non fare e che è contro la morale cattolica, e, a domanda risponde, ha detto quello che i comuni mortali da tempo gli chiedono di dire, in particolari condizioni si può usare (singoli casi motivati, quando uno che si prostituisce), con la premessa, in fondo è sempre il papa, che sarebbe bene non perdersi in comportamenti disdicevoli, a questo punto uso del profilattico da parte degli, ma non solo, utilizzatori finali della prostituzione (così nella chiosa finale, deve consistere nell’umanizzazione della sessualità).

Negli stessi giorni, al di qua del Tevere, una delle massime istituzioni dello stato laico, la Suprema Corte di Cassazione, ripercorrendo la vicenda di una ballerina/squillo/escort/prostituta, nella sentenza n° 20528, depositata il 1 ottobre 2010, ha tentato di qualificare il mestiere in interazione con il Fisco italiano, fornendo un’ innovativa visione sulla problematica.

In premessa, i Supremi Giudici riferiscono del giudizio morale che i giudici del secondo grado di merito danno dell’attività “… lo stile di vita disinibito e licenzioso… per procurarsi i mezzi finanziari per vivere non può essere fiscalmente perseguito, essendo i compensi per attività di prostituzione non soggetti a tassazione“, mentre l’Agenzia delle Entrate dà un peso alle parole, schernendosi sul fatto di non aver mai equiparato l’attività di una ballerina a quella di una prostituta, e, agganciandosi alla definizione dei giudici tributari, ove dimostrata, reclama comunque la tassazione, in quanto illecita, dell’attività.

Il fatto in sé è banale, l’accertamento dei maggiori redditi sulla base dell’accesso ai conti correnti con versamenti di molto superiori ai redditi prodotti in chiaro dall’attività di ballerina in un locale notturno, con la stessa ballerina ad adombrare l’attività di prostituta, poi così qualificata dai giudici regionali, tanto che il differenziale nei conti correnti sarebbe il frutto di elargizioni e donativi occorsi in rapporto a varie frequentazioni amicali e relazioni nel tempo intrattenute con terzi.

La contribuente evasore, per i fini che la occupano e cioè l’annullamento degli accertamenti basati sulle risultanze dei conti correnti, utilizza spiegazioni che oggi calzerebbero con la definizione che una escort darebbe di sé, del tutto consapevole che con un linguaggio più rozzo e primitivo il termine sia sinonimo, intercambiabile, a quello di prostituta, senza per questo offendersi; anzi, il fatto in sé, ai fini fiscali è (o meglio, era) decisivo e premiante. Infatti, la prassi fiscale è ferma alla risposta ad una interrogazione parlamentare del 31/07/1990 dove l’allora Ministro delle Finanze, ************, precisava che i proventi della prostituzione non sarebbero tassabili, tanto che fino al 1/10/2010, data del deposito della sentenza n° 20528/2010, mai la sezione tributaria (V) della Suprema Corte di Cassazione si era occupata di proventi da prostituzione; mentre è notorio che esistono sentenze di merito favorevoli a delle contribuenti con capacità contributiva altrimenti inspiegabile, generalmente accertata con metodo sintetico, che sono riuscite a vincere la presunzione di evasione sul postulato che i proventi provenissero appunto dall’attività di prostituta.

L’Agenzia, nella fattispecie da ultimo discussa dalla Suprema Corte, tenta un approccio soft della questione (io non ho detto che si tratti di prostituzione), sia per una questione di stile, che per non incorrere in un ultra petitum indelicato per un Ufficio pubblico, ma soprattutto perché conosce la sua prassi, oltre la giurisprudenza di merito, e cerca di contrastare il giudicato dei giudici di seconde cure (che postulano intassabile il meretricio) per il fatto che non sarebbe dimostrata l’attività di prostituzione, ovvero, e nel caso lo fosse, che la prostituzione sarebbe tassabile, non perché in quanto tale, ma perché, rientrando nelle attività illecite, soggiace al principio generale del comma 4, dell’art. 14 della l. n° 537/1993 – tassabilità dei proventi illeciti, se non già sottoposti a confisca penale e rientranti in una delle categorie reddituali di cui all’art. 6 del dpr n° 917/1986.

Ed è qui il punto per cui le praticanti dell’antico mestiere potevano ragionevolmente considerarsi escluse dalla tassazione – la non assimilabilità della loro particolare attività a nessuna delle categorie che la legge fiscale reputa idonee alla produzione di reddito e, quindi, venuta meno la condizione di assimilabilità, a non essere tassate. Vero è che il dl 223/2006, con fini dichiaratamente interpretativi dell’art. 14, vorrebbe superare lo scoglio della qualificazione reddituale, dichiarando il pretium sceleris comunque imponibile (anche in assenza di determinazione certa), in quanto inquadrabile nella categoria reddituale dei diversi, ma è un escamotage sub judice della Corte Costituzionale, avendo la Commissione Tributaria Regionale della Toscana (ordinanza n° 127/2009) inviato alla stessa gli atti, per eccezione sulla costituzionalità della norma, sia nel suo dichiarato intento interpretativo (per il legislatore, tale ai fini della retroattività), che per la qualificazione residuale nella categoria reddituale dei diversi (per il legislatore, comunque al fine della tassazione).

La querelle, squisitamente tecnica, avrebbe appassionato soltanto un ristretto gruppo di persone, se non fosse stato per la Suprema Corte di Cassazione che, nella sentenza n° 20528/2010, ha statuito: Quanto poi all’esercizio dell’attività di prostituta, tale dovendosi qualificare in concreto l’attività della A., che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita.

Inaspettatamente cadono i sofismi sull’’interpretazione da dare al pretium sceleris, al fatto che l’oggetto di esso sia inquadrabile in una categoria reddituale, o meno, ovvero che sia stato, o no, disposto il sequestro e/o che questo sia stato effettivamente realizzato; e ancora, che l’azione sia qualificabile come reato oppure che tale sia stata giudicata.

Tutto azzerato, la Suprema Corte ha dichiarato lecita l’attività e, quindi, tassabile (essendoci dazione di denaro), implicitamente lasciando agli esteti del diritto tributario la qualificazione del reddito prodotto, posto che, nella legislazione italiana della tassabilità dei fatti leciti, questi devono essere inquadrati in una categoria reddituale.

Ma se così è, l’esercizio da svolgere è quello dell’inquadramento in una delle categorie previste (art. 6 del tuir): non certo quella di lavoro dipendente, che vorrebbe dire che al di sopra della lavoratrice ci sarebbe un soggetto che la organizza, assumendosi il rischio dell’attività e ritraendone i frutti, con emolumenti elargiti alla prestatrice d’opera; residuano le attività del lavoratore autonomo e/o quella dell’imprenditore. Forse, più la prima che la seconda, comunque, con problemi di iscrizioni ad albi e/o a pubblici registri.

Ancora, per la materia fiscale – Le attività autonome presuppongono obblighi collaterali, quali l’apertura della partita ***, il classamento dell’attività, la tenuta delle scritture contabili. In definitiva, la sentenza n° 20528/2010 apre scenari inimmaginabili ad una prima lettura della stessa – paghi la prostituta, sic e simpliciter (quello che non ha versato in precedenza).

Dal primo ottobre chi al momento si è avvantaggiato di detta sentenza, l’Erario dello Stato Italiano, dovrà anche spiegare a coloro i/le quali vorranno mettersi in regola come fare ad aprire la partita *** e quali sono gli obblighi contabili per la specifica attività che consentano, a consuntivo, di poter regolarmente dichiarare il reddito annuo.

Anche al di qua del Tevere, dopo un’affermazione di principio, corre l’obbligo di determinarne le conseguenze (più che discettare sui distinguo).

 

TESTO SENTENZA

Sentenza n° 20528 dell’1/10/2010 (cassazione, sez. V)

L’Agenzia delle Entrate – Ufficio locale di Morbegno in data 29 aprile 2002 notificava a M.M.A., nata il (OMISSIS), in conseguenza di contestatale omessa presentazione delle pertinenti dichiarazioni, avvisi di accertamento rispettivamente relativi:

a) al reddito imponibile IRPEF, CSSN e Tassa per l’Europa per l’anno 1996;

b) all’IVA dovuta per il medesimo anno;

c) al reddito imponibile IRPEF e CSSN per l’anno 1997;

d) all’IVA dovuta per il medesimo anno;

e) a reddito imponibile IRPEF ed IRAP per l’anno 1998 ed all’IVA dovuta per il medesimo anno e connessi rilievi.

Quale comune presupposto di questi vari atti accertativi veniva ascritta l’esercitata attività di ballerina in locali notturni “in modo professionale” e ciò sulla base di una constatata, sensibile differenza tra i versamenti eseguiti sui conti bancari ed il reddito di lavoro dipendente percepito presso quei luoghi di ritrovo, eccedenza che veniva contestato essere proveniente da redditi attinenti all’esercizio di arti e professioni, e quindi come tale recuperata a tassazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 2.

La destinataria, deducendo fra l’altro l’assenza di validi elementi di supporto della pretesa fiscale, impugnava gli avvisi avanti alla Commissione tributaria provinciale di Sondrio, la quale con sentenza del 22/9/2004, riuniti i ricorsi, in fatto evidenziava come l’ A. avesse in sostanza documentato, a mezzo di dichiarazioni rilasciatele e degli assegni bancari poi confluiti sui conti di deposito, la loro effettuata emissione da parte di soggetti in nessun modo implicati con la gestione di locali di ritrovo e spettacolo in cui quella avesse svolto l’attività di ballerina, e costituenti invece elargizioni e donativi occorsi in rapporto a varie frequentazioni amicali e relazioni nel tempo intrattenute con terzi.

Ciò premesso, la Commissione adita ne deduceva che “lo stile di vita disinibito e licenzioso… per procurarsi i mezzi finanziari per vivere non può essere fiscalmente perseguito”, essendo “i compensi per attività di prostituzione non … soggetti a tassazione”, ed accoglieva di conseguenza i ricorsi, con spese compensate.

Avverso la sentenza proponeva appello l’Ufficio suindicato con atto notificato il 14 dicembre 2004 affermando di non avere invece affatto prospettato la qualificazione poi data dalla Commissione all’attività esplicata dalla A., ribadendo per parte propria di ritenere i redditi accertati derivanti da compensi non dichiarati e benchè percepiti per l’attività di lavoro autonomo svolta come “ballerina professionista”, peraltro assumendo che in alternativa l’attività per contro considerata dalla sentenza, qualora dimostrata, comporterebbe parimenti in quanto illecita, la tassazione dei proventi a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4 bis.

Si è costituita nel grado l’appellata A., tornando ad affermare di non aver mai svolto alcuna attività come ballerina libera professionista, avendo sempre e soltanto lavorato presso locali notturni di ritrovo come dipendente, e di avere ad ogni modo fornito prova dell’essere i depositi bancari costituiti con disponibilità non soggette ad altra imposizione fiscale, stante l’origine di cui s’è detto.

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

Anzitutto appare assai poco credibile che l’attività della A. consistesse esclusivamente ne servire ai tavoli i clienti dei vari locali dove assume di avere svolto tale servizio.

E ciò in quanto risulterebbe che tale funzione la stessa avrebbe svolto in diversi locali nello stesso giorno. Orbene è di tutta evidenza che tale funzione può essere svolta esclusivamente in un locale, specie se, come nel caso di specie, tali locali restano aperti sino alle prime luci del giorno dopo, e si basano oltre che nel servizio ai tavoli anche con spettacoli ed esibizioni canore.

Quanto poi all’esercizio dell’attività di prostituta, tale dovendosi qualificare in concreto l’attività della A., che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita.

Quanto poi alla risposta ad interrogazione parlamentare (del 31.07.1990) del Ministero delle Finanze secondo cui i proventi della prostituzione non sarebbero tassabili, tale affermazione non è certamente incidente per i giudici, trattandosi di una valutazione, peraltro risalente nel tempo, che non vincola in alcun modo i giudici tributari e, ovviamente, questa Corte.

Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che provvederà anche alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia anche per le spese del presente giudizio.

 

 

 

 

 

Minelli Bruno

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