Affidamento in house tra normativa nazionale e normativa comunitaria nella giurisprudenza del consiglio di stato e della corte di giustizia.

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 “L’affidamento in house” è quell’istituto mediante il quale un appalto viene aggiudicato all’interno dell’amministrazione, nel senso che la P.A. aggiudicatrice affida l’esecuzione di un attività ad un soggetto che, pur essendone ontologicamente distinto è sostanzialmente interno ad essa costituendone una continuazione.
 
Con l’espressione “in house providing” si intende invece un fenomeno di “autoproduzione” per mezzo del quale la Pubblica Amministrazione, acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a “terzi” tramite gara (c.d. esternalizzazione) e dunque al mercato.
 
La finalità del presente scritto è quella di mettere in evidenza i casi in cui, alla luce della giurisprudenza del Consiglio di stato, l’Amministrazione possa evitare il ricorso alla procedure di evidenza pubblica.
 
Accanto all’affidamento mediante gara, che la riforma attuata dall’art. 35 della legge n. 448/2001 aveva configurato come unico strumento per la gestione esternalizzata dei servizi pubblici (“L’erogazione del servizio, da svolgere in regime di concorrenza, avviene secondo le discipline di settore, con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica”), l’art. 14 del D.L. n. 269/2003 ha previsto altri due modelli dei quali l’uno risponde allo schema dell’affidamento in house di estrazione comunitaria, mentre l’altro reintroduce lo strumento della società mista, prevedendo l’affidamento diretto del servizio a fronte della selezione mediante procedura ad evidenza pubblica del socio privato.
 
Secondo la normativa sopra citata, la possibilità di derogare all’obbligo dell’evidenza pubblica deve ritenersi consentita nelle sole ipotesi di affidamento diretto a società a capitale misto nelle quali il socio privato sia stato individuato a mezzo di procedure ad evidenza pubblica e di affidamento in house a società a dominanza pubblica.
 
Tale peculiare modulo gestorio, pur consentendo l’affidamento diretto, impone, tuttavia, il conferimento formale del servizio pubblico alla società (con specifico atto amministrativo che attribuisca a questa la relativa gestione) e la regolamentazione convenzionale dei rapporti conseguenti (con l’approvazione di un contratto che disciplini l’assetto degli interessi, non solo patrimoniali, coinvolti nell’esecuzione del servizio).
 
Il modello in questione va qualificato come gestione diretta del servizio da parte dell’Ente locale (C.S., Sez. V, 19 febbraio 1998, n.192), assimilabile all’affidamento c.d. in house di matrice comunitaria, ed il fondamento della sua attribuzione senza gara deve essere rinvenuto negli atti costituivi della società ed in quelli di selezione del socio privato, da valersi quali provvedimenti genetici del soggetto giuridico per mezzo del quale (seppur in regime convenzionale) l’ente locale svolge il servizio; il perfezionamento dell’attribuzione della titolarità del servizio, deve essere inquadrata nello schema della fattispecie a formazione progressiva, coincidente con l’adozione del provvedimento amministrativo che ne assegna la gestione e con l’approvazione della convenzione accessoria.
 
La definizione della presupposta situazione giuridica legittimante l’affidamento diretto non può che individuarsi nella costituzione del soggetto di diritto che autorizza l’attribuzione della titolarità del servizio al di fuori delle regole concorrenziali per cui, gli atti di costituzione della società mista o quelli, successivi, di acquisizione della partecipazione da parte di un altro ente locale si rivelano, quindi, i provvedimenti concretamente idonei a sottrarre dal mercato di riferimento la possibilità di accesso alla contrattazione con l’amministrazione che ha optato per quella forma di gestione diretta del servizio, posto che il conferimento della sua titolarità vale quale atto meramente consequenziale rispetto a quelli di formazione della società e, per certi versi, automatico e vincolato in relazione alla presupposta scelta del modulo in questione (C.S., Ad. Gen., 16 maggio 1996 n.3035).
 
E’ proprio con la prima categoria di provvedimenti, in conclusione, che l’ente locale manifesta e cristallizza l’opzione del modulo gestorio considerato, mentre con il successivo atto di affidamento si limita a dare esecuzione (necessitata) alla presupposta scelta organizzativa, talchè la lesione effettiva ed immediata degli interessi delle imprese che aspirano alla gestione del servizio rimonta all’adozione delle delibere di costituzione della società mista e di selezione del socio privato, tenuto conto del carattere conclusivo della determinazione organizzatoria che implicano.
 
L’art. 22 della legge n. 142 del 1990[1] dà una ampia definizione dei “servizi pubblici locali”, specificando che sono quelli che hanno ad oggetto la “produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. Nella norma sono precisate le possibili forme di gestione di questi servizi, tra cui quella dell’affidamento diretto ad una “azienda speciale” (ente strumentale del Comune).
 
Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto configurarsi “un pubblico servizio locale”, ogni qual volta l’Amministrazione comunale si propone di svolgere “compiti di miglioramento e di perfezionamento della società”[2].
 
Anche la Corte di Giustizia ha, riconosciuto conformi al diritto comunitario gli affidamenti diretti (in house) di servizi, nei quali manca un vero e proprio rapporto contrattuale tra due soggetti e l’ente locale esercita “un potere di controllo e di ingerenza” sul soggetto, che svolge il servizio affidato, analogamente a quanto avviene con i propri servizi.  
 
Ciò che assume rilievo preminente è pertanto il rapporto instaurato tra l’Amministrazione aggiudicatrice e la soggettività affidataria del servizio, potendosi trascurare la circostanza che il fruitore immediato del servizio sia l’Amministrazione e non i membri della comunità comunale dovendo ritenersi indifferentemente servizi pubblici locali quelli di cui i cittadini usufruiscano uti singuli e come componenti la collettività, purché rivolti alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali[3].
Sotto questo punto vista, la giurisprudenza comunitaria si mostra consapevole del fatto che, se si effettua l’affidamento diretto ad una società, il servizio verrà gestito da una persona giuridica separata e distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice, un ente, cioè, che determina la propria azione mediante gli organi di cui è dotato. E’ quindi da escludere, in linea di principio, che il diritto comunitario possa imporre un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.
Infatti, la Corte di giustizia afferma[4] che, se da un lato il possesso dell’intero pacchetto azionario della società da parte della mano pubblica garantisce lo svolgimento del servizio secondo “esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico” e la partecipazione di capitali privati “persegue obiettivi di natura differente”, per l’altra risulta compatibile con le norme comunitarie che tutelano la concorrenza l’affidamento di un servizio pubblico ad una società privata senza l’adozione delle procedure ad evidenza pubblica, per cui risulta improponibile l’impostazione che sul punto ha accolto la Presidenza del Consiglio dei Ministri , nella quale si fa riferimento alla ”subordinazione gerarchica”.
Venendo ora agli “affidamenti in house” di matrice comunitaria si deve preliminarmente esaminare il noto passaggio della sentenza 18 novembre 1999 in causa C-107/98 (Teckal) nel quale, la Corte di giustizia dopo aver affermato l’obbligatorietà della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente di una fornitura all’ente pubblico, ha stabilito che: ”Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello esercitato a quello esercitato sui propri servizi e quest’ultimo realizzi la parte più importante della propria attività, con l’ente o con gli enti locali detentori”.
Nella decisione sopra menzionata, non era stato chiarito il concetto di “controllo analogo”, infatti, era stata ammessa la possibilità che l’affidatario del servizio fosse, non un ufficio, ma un soggetto giuridico diverso dall’ente e che fosse consentito a questo soggetto di svolgere una parte, anche se minoritaria, della propria attività a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico; ipotesi questa inconciliabile con la figura dell’ufficio.
A ciò deve aggiungersi il fatto che il riferimento a “gli enti locali detentori”, con cui si chiude l’ultimo periodo, implicava il coinvolgimento di un soggetto il cui capitale era posseduto dall’ente, o, tratto ancora più significativo, da più enti pubblici diversi.
La Corte di giustizia ha riaffrontato il problema del “controllo analogo” (sentenza 11 gennaio 2005, in causa C-26/03) affermando che (parag. 49): “…la partecipazione, anche minoritaria, di una impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
Infine, con la decisione 13 ottobre 2005, nella causa C-458/03 (Parking Brixen GmbH) la Corte comunitaria ha condotto un ulteriore approfondimento sul tema, pervenendo ad una più puntuale individuazione dei caratteri del controllo che l’ente deve poter esercitare sulla società affidataria del servizio pubblico (parag.67-69), stabilendo per un verso che, il possesso dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi e, per l’altro che, se il consiglio d’amministrazione “dispone della facoltà di adottare tutti gli atti ritenuti necessari per il conseguimento dell’oggetto sociale”, i poteri attribuiti alla maggioranza dei soci dal diritto societario non sono sufficienti a consentire all’ente di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Alla luce di quanto esposto, il Consiglio di stato ha ritenuto in particolare che quando un contratto sia stipulato tra un ente locale e una persona giuridica distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa nel caso in cui l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. Segnatamente il controllo analogo deve essere inteso come un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. In detta evenienza, pertanto, l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte.
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
1.Consiglio di Stato, VI Sezione, N.1513/2007 del 03/04/2007
2. Consiglio di Stato, V Sezione, N.362/2007 del 30/01/2007
3. Consiglio di Stato, V Sezione, N. 7369/06 del 13 dicembre 2006
4. Consiglio di stato, V Sezione, N. 4440/06 del 13 luglio 2006
5. Consiglio di Stato, V Sezione, N.7345/05 del 22 dicembre 2005
6. Consiglio di Stato, V Sezione, N.7058/05 del 13 dicembre 2005
7. Consiglio di Stato, VI Sezione, N. 7636/04 del 9 luglio 2004
8. Consiglio di Stato, V Sezione, N.3864/03 del 30 giugno 2003
 
Dott. Giuseppe Mullano


[1] Si veda ora l’art. 112 del D.Lgs 267/2000
[2] C.d.S., sez. V, n. 996 del 16.9.1994
[3] C.d.S, Sez. VI, 9 maggio 2001 n. 2605; C.d.S., Sez. VI, 16 dicembre 2004 n. 8090.  
[4] Sentenza 11 gennaio 2005, n. 2603, (parag.50).

Mullano Giuseppe

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