La sentenza n. 95 del 2025 della Corte costituzionale affronta una delle questioni più discusse del recente diritto penale: la legittimità costituzionale dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, operata con l’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114. Chiamata a pronunciarsi su una serie di ordinanze di rimessione che prospettavano plurimi profili di incostituzionalità – sia con riferimento a parametri interni (artt. 3, 11, 97 Cost.), sia a obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione di Mérida (art. 117, primo comma, Cost.) – la Corte ha tracciato un solco netto tra la discrezionalità legislativa e i limiti costituzionali alla stessa. Il presente contributo ricostruisce le questioni sollevate, il percorso argomentativo della Consulta e le implicazioni sistemiche della pronuncia. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale consigliamo il volume Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon
Indice
- 1. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti
- 2. La decisione della Consulta: inammissibilità delle censure fondate sugli artt. 3 e 97 Cost.
- 3. Considerazioni conclusive: la legittimità dell’abrogazione e la necessità di colmare i vuoti di tutela
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1. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti
La sentenza qui in commento viene emessa a seguito dell’adozione di quattordici ordinanze di cui tredici organi giudicanti di merito e la Corte di Cassazione avevano ritenuto, sotto diversi profili, l’illegittimità costituzionale della norma abrogativa dell’art. 323 cod. pen. che, come è noto, incriminava il reato di abuso d’ufficio, vale a dire l’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114.
In particolare, nel rinviare, a proposito delle prospettazioni accusatorie, a quanto enunciato nella decisione qui in esame, è sufficiente osservare, per quello che rileva in questa sede, che, in punto di rilevanza, tutte le ordinanze di rimessione esponevano di dovere fare applicazione della disposizione censurata, ossia di questo articolo 1 della legge n. 114 del 2024 visto che l’abrogazione della disposizione incriminatrice dell’abuso d’ufficio avrebbe imposto, nei giudizi di cognizione, l’immediata declaratoria di non doversi procedere per abolitio criminis, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.; e, nella fase di esecuzione, la revoca della sentenza ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.
Nei giudizi di cognizione, più nel dettaglio, l’accoglimento delle questioni, e il conseguente ripristino della disposizione incriminatrice abrogata, avrebbero invece permesso ai giudici a quibus di pronunciare sentenza di condanna laddove fosse ritenuta sussistente la responsabilità penale degli imputati; ovvero di pronunciare assoluzione per cause diverse dalla abolitio criminis.
A tale ultimo riguardo, va tra l’altro fatto presente che numerose di siffatte ordinanze richiamano la giurisprudenza costituzionale in forza della quale a integrare il requisito della rilevanza è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e la pronuncia di accoglimento possa influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale o sul relativo dispositivo, fermo restando che, ancora in punto di ammissibilità delle questioni, i rimettenti si mostravano tutti consapevoli della preclusione che, in linea di principio, incontra il sindacato costituzionale di costituzionalità in malam partem, in ragione della riserva di legge in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., ritenendo, tuttavia, come tale preclusione non operasse rispetto alle questioni ora proposte.
Invero, numerosi giudici a quibus richiamavano anzitutto le decisioni con le quali la Consulta aveva derogato a tale generale preclusione e, in particolare, quelle che avevano ammesso la sindacabilità in malam partem delle norme contrarie agli obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. dal momento che le questioni sollevate sarebbero rientrate in questa eccezione, assumendosi nelle ordinanze di rimessione la contrarietà della disposizione censurata all’obbligo sovranazionale, che deriverebbe dalla UNCAC, di non decriminalizzare l’abuso di ufficio o, quanto meno, di non arretrare rispetto al complessivo livello di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici in danno dei privati.
Alcuni rimettenti, inoltre, a supporto dell’ammissibilità delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., evocavano altresì le decisioni, che avevano ammesso la sindacabilità in malam partem delle cosiddette norme penali di favore, nella quale uno dei rimettenti notava che «il raffronto tra la incriminazione [di cui all’art.] 353 del codice penale e la norma abrogativa dell’abuso d’ufficio potrebbe valere […] a leggere quest’ultima, nello specifico settore, come una norma penale di favore, suscettibile del giudizio di illegittimità costituzionale», dal momento che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall’attuazione della norma penale generale»).
Ciò posto, altri rimettenti ancora sollecitavano per di più la Consulta ad allargare ulteriormente le maglie del sindacato in malam partem, ammettendolo anche in relazione a diversi parametri costituzionali, laddove la norma censurata produca un effetto grave e sistemico sul principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. o lasci privi di tutela i diritti fondamentali del cittadino lesi dalle condotte degli agenti pubblici (ordinanza n. 4 reg. ord. del 2025, nella quale si prospetta che l’art. 28 Cost., nella parte in cui dispone che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti», aprirebbe lo spazio per una nuova eccezione al principio della «riserva di legge parlamentare in materia penale»).
In particolare, il Tribunale di Firenze sosteneva come il quadro normativo attuale sarebbe stato profondamente mutato rispetto a quello scrutinato in precedenti occasioni, e comunque non più in grado di assicurare adeguata protezione ai valori tutelati dal parametro costituzionale evocato, tanto più a fronte delle modifiche riduttive di altre fattispecie penali nel frattempo operate dal legislatore (quale quella che avrebbe interessato l’art. 346-bis cod. pen., relativo al traffico di influenze illecite).
In termini analoghi, il Tribunale di Teramo osservava che, sebbene la natura sussidiaria della sanzione penale imponga il ricorso all’incriminazione solo quando, secondo una valutazione rimessa al discrezionale apprezzamento del legislatore, le altre e meno severe soluzioni si rivelino insufficienti o inadeguate, sarebbe tuttavia inammissibile che la riduzione dell’area penale sia sempre insindacabile, specie quando ciò «finisca per negare qualsivoglia forma di tutela a valori di rilevanza costituzionale primaria quali quelli che conformano l’azione amministrativa».
Orbene, in questa prospettiva, la specificità dell’intervento legislativo oggetto di censura, rispetto alle riformulazioni in senso restrittivo della fattispecie apportate in passato, consentirebbe il superamento degli argomenti con i quali, in precedenza, il Giudice delle leggi aveva dichiarato l’inammissibilità del sindacato costituzionale sulle norme che avevano circoscritto la portata del reato di abuso ufficio dato che, se le precedenti riformulazioni della fattispecie di abuso d’ufficio in senso restrittivo avevano determinato un fenomeno di abolitio criminis parziale, lasciando residuare una forma, seppure ridimensionata, di tutela dell’imparzialità dell’azione amministrativa, oggi la legge n. 114 del 2024 sarebbe intervenuta «su quella medesima area di tutela elidendola definitivamente».
Chiarito ciò, a proposito invece della non manifesta infondatezza, in relazione alla denunciata violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (o del solo art. 117, primo comma, Cost.), gli argomenti dei rimettenti, pur condividendo un nucleo comune di censure imperniate sulla violazione degli obblighi internazionali discendenti dalla UNCAC, si sviluppavano lungo due direttrici parzialmente diverse.
1ìLa prospettazione di fondo delle tredici ordinanze provenienti dai giudici di merito si focalizzava nel sostenere che l’abrogazione dell’art. 323 cod. pen. avrebbe violato l’obbligo che discenderebbe dalla UNCAC – interpretata alla luce delle spiegazioni fornite dalla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Corruption, elaborata dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine e dei criteri fissati nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – di mantenere nell’ordinamento la norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, e dunque di non abrogarla, laddove già presente nella legislazione interna al momento della ratifica (cosiddetto divieto di regresso o obbligo di stand still).
Le disposizioni della UNCAC dalle quali discenderebbe tale obbligo erano individuate, da alcuni dei rimettenti, nel solo art. 19 e, da parte dei più, nel combinato disposto degli artt. 7, paragrafo 4, e 19. In qualche ordinanza, tra l’altro, erano state aggiunte all’elenco ulteriori disposizioni, da leggersi unitamente alle prime, in una interpretazione sistematica e finalistica del trattato che ne valorizzasse l’oggetto e le finalità: l’art. 1; l’art. 5; l’art. 65.
Sul piano dell’interpretazione letterale, emergeva una constatazione pressocché trasversale a tutte le ordinanze, pur con accenti e sfumature diverse, che il dato testuale dell’art. 19 UNCAC, dedicato all’abuso di funzioni, non ponga uno specifico obbligo di incriminazione in capo agli Stati membri. La disposizione, infatti, impegnerebbe gli Stati solo a prendere in considerazione («shall consider adopting») l’introduzione del reato.
Del pari condiviso era il richiamo alle spiegazioni fornite nella Legislative guide sulla diversa natura delle disposizioni della UNCAC, che non esprimerebbero tutte lo stesso livello di cogenza («do not all have the same level of obligation»), ma si distinguerebbero in tre categorie: (a) un primo gruppo includerebbe le disposizioni che impongono «mandatory requirements», ossia una «obligation to take legislative or other measures» (un vero e proprio obbligo di adottare misure legislative o di altro tipo);
(b) un secondo gruppo, nel quale rientrerebbe l’art. 19, in materia di abuso d’ufficio, indicherebbe «optional requirements», che sanciscono una «obligation to consider» (un obbligo di prendere in considerazione); (c) un terzo gruppo sancirebbe mere «optional measures», ossia misure che «States parties may wish to consider» (misure che gli Stati hanno la facoltà di prendere in considerazione).
Alla stregua di quanto previsto per le disposizioni del secondo tipo dal paragrafo 12 della Legislative guide (secondo cui gli Stati parte «are urged to consider adopting a certain measure and to make a genuine effort to see whether it would be compatible with their legal systems»), le disposizioni riconducibili alla categoria (b) non sarebbero state (reputate) meramente facoltative e non esprimerebbero semplici raccomandazioni, ma fonderebbero un vero e proprio obbligo per gli Stati membri di fare un ragionevole sforzo per verificare se l’introduzione di una determinata ipotesi di reato sia compatibile con il proprio ordinamento.
Dal che, secondo alcuni rimettenti, sarebbe discesa la conseguenza che, ove tale compatibilità fosse stata riscontrata, lo Stato sarebbe obbligato a introdurre la fattispecie incriminatrice.
Per la gran parte dei giudici a quibus, invece, sebbene la disposizione convenzionale non imponga un obbligo di criminalizzazione (ciò per cui la Convenzione di Mérida utilizza la diversa locuzione «shall adopt»), ma un mero obbligo di prendere in considerazione l’introduzione del reato («shall consider adopting»), sarebbe l’esegesi teleologica e sistematica della stessa disposizione, letta in rapporto all’oggetto e allo scopo del trattato e in combinato disposto con altri articoli a dimostrare l’esistenza, quanto meno, di un obbligo convenzionale di «non regresso» rispetto alle incriminazioni già esistenti nell’ordinamento nazionale e compatibili con esso.
Verrebbero in rilievo, in particolare, l’oggetto, le finalità e l’approccio multilivello della UNCAC. Significativi, al riguardo, sarebbero gli obiettivi di contrasto espressi dal preambolo e dall’art. 1 UNCAC (che include nelle finalità della convenzione «la promozione e il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace»), così come la circostanza che, nella materia penale, le disposizioni del terzo capitolo del trattato vincolerebbero gli Stati contraenti a integrare la propria legislazione penale prevedendo una molteplicità di illeciti a carattere corruttivo, ove gli stessi non siano già disciplinati come reati dal diritto interno, e impegnerebbero i contraenti a criminalizzare non solo le ipotesi tradizionali o più gravi di corruzione, ma anche condotte intermedie, spesso propedeutiche alla conclusione di accordi corruttivi in senso stretto.
Ai fini di una corretta interpretazione sistematica e teleologica della Convenzione, si sosteneva come, poi, andrebbero considerate, in una lettura coordinata, anche altre disposizioni: l’art. 5, secondo cui «[c]iascuno Stato Parte […] elabora e applica o mantiene politiche contro la corruzione efficaci e coordinate che […] rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità»; l’art. 65, paragrafo 1, da cui discenderebbe la doverosità dell’attuazione degli obblighi internazionali previsti dalla convenzione stessa; il paragrafo 2 dello stesso articolo, da cui si desumerebbe che quelli imposti dalla convenzione sono soltanto standard minimi di tutela, restando nella facoltà degli Stati parte di adottare misure più rigorose; l’art. 7, paragrafo 4, a mente del quale «[c]iascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d’interesse» («Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest»).
L’art. 19 UNCAC, letto alla luce delle indicazioni interpretative contenute nella Legislative guide e, soprattutto, in correlazione al citato art. 7, paragrafo 4, della stessa Convenzione, per i giudice a quibus, dispiegherebbe dunque una diversa efficacia vincolante a seconda che lo Stato aderente abbia o meno già adottato nel proprio ordinamento la fattispecie di abuso d’ufficio.
In particolare, a) lo Stato parte che non abbia introdotto il reato prima dell’adesione alla UNCAC, sarebbe tenuto a valutare concretamente e seriamente la sua introduzione in conformità al proprio diritto interno, dovendo compiere uno sforzo reale per vedere se esso sia compatibile con il proprio ordinamento giuridico; b) lo Stato parte che invece, come l’Italia, contempli già nel proprio ordinamento il reato e abbia, dunque, già positivamente valutato la conformità della fattispecie rispetto al proprio diritto interno – essendo tenuto a mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse (art. 7, paragrafo 4) – sarebbe tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente, e ciò tanto più se l’abrogazione non sia accompagnata dalla contestuale adozione di alcuna misura preventiva o repressivo-sanzionatoria caratterizzata da concreta ed effettiva dissuasività.
Per i giudici remittenti, del resto, una conferma dell’esistenza di un tale «divieto di regressione» si trarrebbe anche dall’atteggiamento del legislatore che, successivamente alla ratifica della UNCAC, pur nel susseguirsi di novelle che hanno interessato l’art. 323 cod. pen., mai avrebbe mostrato di voler mettere in discussione la rilevanza penale dell’abuso d’ufficio, neppure con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), con la quale sarebbe stata rimodulato in maniera organica e sistematica l’intero Titolo II del codice penale, addirittura aggravando la pena prevista dall’art. 323 cod. pen. (ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025).
Secondo altri rimettenti, tra l’altro, un ulteriore indice della sussistenza di un obbligo internazionale e di una possibile violazione della Convenzione si trarrebbe dalle preoccupazioni espresse per l’abrogazione del reato di abuso di ufficio (oltre che per la limitazione dell’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite) nella Relazione annuale della Commissione UE sullo Stato di diritto per il 2024, adottata a Bruxelles il 24 luglio 2024.
In alcune ordinanze, infine, si osservava che la scelta di depenalizzare l’abuso d’ufficio si porrebbe in controtendenza rispetto alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione, che sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, considerato che tale proposta di direttiva, in attuazione proprio della UNCAC, all’art. 11, impegnerebbe gli Stati membri a prevedere espressamente come reato l’abuso.
Diversa, come evidenziato dalla medesima Consulta, invece, è stata la prospettazione svolta nell’ordinanza della Corte di cassazione, avendo siffatta Corte individuato l’obbligo rilevante rispetto al sindacato di costituzionalità, al metro degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., non già in un dovere di incriminazione o di non decriminalizzazione dell’abuso d’ufficio, che reputa insussistente, bensì nel più ampio obbligo di mantenere standard di efficace attuazione della UNCAC nel suo complesso, nonché rispetto allo specifico obiettivo di efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione.
Ad avviso di questo rimettente, in effetti, i vincoli per il legislatore derivanti dagli obblighi internazionali in materia penale, rilevanti ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., non si esaurirebbero negli obblighi di criminalizzazione, come sarebbe stato chiarito dalla Consulta nella sentenza n. 28 del 2010, oltre agli obblighi di criminalizzazione previsti dalla UNCAC, i quali verrebbero qui in rilievo gli obblighi «di efficace persecuzione, di perseguimento e di mantenimento degli standard di efficacia stabiliti nella prevenzione della corruzione»: obblighi rispetto ai quali la penalizzazione delle condotte di abuso di ufficio sarebbe rilevante «quale strumento normativo specificamente destinato a rendere efficace ed effettivo il sistema di prevenzione della corruzione, favorendo la trasparenza e prevenendo i conflitti di interesse».
Nell’abrogare il reato di abuso di ufficio, il legislatore non avrebbe quindi correlativamente rafforzato «il livello di prevenzione, a livello amministrativo, contro le condotte abusive e la violazione dell’imparzialità da parte dei pubblici agenti in danno dei privati, come imposto dagli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma, della Convenzione di Merida», e ciò in contrasto con quanto previsto dall’art. 7, paragrafo 4, poiché quest’ultima disposizione porrebbe «uno specifico obbligo (“ciascuno Stato si adopera”) di perseguimento degli standard di efficace prevenzione della corruzione sanciti dalla Convenzione, mediante l’adozione di “sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”», tenuto conto altresì del fatto che, come si evincerebbe dall’uso del verbo «maintain», essa obbligherebbe gli Stati contraenti «a impegnarsi a preservare gli standard di tutela raggiunti e, dunque, [ad] astenersi dall’adottare misure, legislative o amministrative, che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli scopi della Convenzione» dato che tale obbligo non comporterebbe che le norme penali interne necessarie a garantire l’obiettivo debbano rimanere cristallizzate al livello più rigoroso che hanno attinto (e non escluderebbe in radice la riduzione delle aree di illiceità penale o, persino, l’esclusione del ricorso alla sanzione penale). Esso, però, attribuirebbe alle norme attuative della convenzione una particolare «forza di resistenza» all’abrogazione, che le sottrarrebbe a novazioni legislative non conformi al vincolo posto dal trattato.
L’abrogazione del reato di abuso di ufficio avrebbe, dunque, per gli Ermellini, violato questo specifico obbligo, in quanto non sarebbe stata «compensata» dall’adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei cittadini, essendo, inadeguati, in tal senso, «i rimedi preventivi anticorruzione (quali quelli introdotti dal decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97)», perché gli stessi «riguard[erebbero] molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari e si concentr[erebbero] sull’organizzazione dell’azione complessiva dell’amministrazione, senza assumere alcun effetto specifico nei confronti della singola azione illecita».
Analoghe considerazioni, del resto, sempre ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, varrebbero per i rimedi giurisdizionali, onerosi e non sempre attivabili, «in quanto, non di rado, le prevaricazioni dei pubblici agenti si tradu[rrebbero] non in atti amministrativi, ma in meri comportamenti, come tali non impugnabili», senza ignorare per di più il fatto che la disciplina amministrativa dei conflitti di interesse, per altro verso, sarebbe «frammentaria e non sempre coerente», così come neppure i sistemi disciplinari, «estremamente frastagliati», fornirebbero una risposta soddisfacente, considerato che «le sanzioni disciplinari per la violazione dell’obbligo di astensione previsto nei vari codici deontologici richiesti dall’art. 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, [sarebbero] difficilmente applicabili ai dirigenti di più alto livello per i quali più che la responsabilità disciplinare vale quella di risultato, in forza dell’art. 21 dello stesso decreto, e non oper[erebbero] per gli amministratori eletti».
D’altra parte, se questi rimedi sarebbero azionabili soltanto su denuncia del privato, stante l’assenza, nel procedimento disciplinare, di incisivi poteri di istruttoria e della possibilità di intervento della persona offesa, nemmeno la responsabilità contabile ed erariale, infine, assicurerebbe «una prevenzione efficace e adeguata degli abusi funzionali commessi in danno dei privati», in quanto tale sistema di responsabilità sarebbe «incentrato sul danno arrecato allo Stato e non [sarebbe] attivabile a fronte di danni subiti meramente dal privato».
Detto questo, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., la Corte costituzionale osservava come le due ordinanze, che evocavano tale parametro, avessero sviluppato argomenti in parte coincidenti.
In particolare, a parere del GUP del Tribunale di Firenze, l’abrogazione della fattispecie incriminatrice dell’abuso d’ufficio sarebbe irrispettosa del «principio di uguaglianza, in particolare nella sua specificazione della necessaria ragionevolezza nell’esercizio del potere legislativo» giacché, per effetto dell’abolitio criminis si sarebbe prodotta «una disparità di trattamento giuridico e sanzionatorio tra fattispecie analoghe o con fattispecie esprimenti un disvalore oggettivo ancor più lieve rispetto a quello della fattispecie abrogata», fermo restando che, a titolo esemplificativo, codesto giudice a quo additava l’incongruenza logica della depenalizzazione dell’abuso d’ufficio a fronte della persistente rilevanza penale del rifiuto od omissione di atti di ufficio, ai sensi dell’art. 328 cod. pen., scegliendosi, in tal modo, di punire condotte omissive le cui conseguenze dannose potrebbero essere molto meno gravi di quelle discendenti dalle condotte commissive che integravano l’abuso d’ufficio, lasciato privo di sanzione penale.
Particolarmente rilevante, in relazione alle imputazioni del procedimento a quo, sarebbe stata poi la discrasia rispetto ai fatti di cui all’art. 353 cod. pen. (che punisce la condotta di chiunque, con violenza o minaccia, o con altri mezzi collusivi o fraudolenti, turbi la gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) e all’art. 353-bis cod. pen. (che punisce analoghe condotte realizzate nella fase precedente all’emanazione del bando di gara).
Nel dettaglio, considerato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, nel caso di abusi commessi nella predisposizione dei bandi o nello svolgimento dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego non sarebbero configurabili né il delitto di turbata libertà degli incanti, né quello di turbata libertà di scelta del contraente, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio avrebbe privato di qualsiasi presidio penale tali procedure, mantenendo rilevanza penale solo all’irregolare svolgimento dei pubblici incanti, nonostante la pari importanza di ambedue i settori ai fini del buon andamento della pubblica amministrazione.
Ciò posto, anche il GIP del Tribunale di Roma, dal canto suo, evidenziava che, a seguito dell’abrogazione, le condotte di favoritismo intenzionale, in violazione della legge, riguardanti l’ambito delle procedure concorsuali pubbliche sarebbero rimaste prive di sanzione penale, a differenza di analoghe condotte in settori omogenei, quali quelle che «violano la correttezza delle procedure che conducono alla scelta del contraente e allo svolgimento della gara nelle procedure di appalto pubblico», punite dagli artt. 353 e 353-bis cod. pen.
Orbene, per il giudice capitolino, in questa prospettiva, il vulnus all’art. 3 Cost. deriverebbe dalla manifesta arbitrarietà della scelta di abolire il reato di abuso d’ufficio, in una con l’irragionevolezza di mantenere l’incriminazione per fatti che sarebbero omogenei rispetto a quelli sanzionati dalla disposizione abrogata posto che il risultante assetto normativo sarebbe connotato da una «rilevante disparità nell’ambito dello stesso settore della pubblica amministrazione», essendo stato introdotto «in modo irragionevole, un trattamento di favore per i soggetti che partecipano ai procedimenti di selezione del personale dipendente dello Stato rispetto a quelli che si occupano di procedure per l’acquisto, da parte della pubblica amministrazione, di beni o servizi», in guisa tale che la norma abrogatrice dell’abuso d’ufficio assumerebbe la fisionomia di una norma penale di favore, che sottrarrebbe «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall’attuazione della norma penale generale».
Ancora in punto di non manifesta infondatezza, in relazione alla violazione dell’art. 97 Cost., i giudici rimettenti, con argomentazioni variamente articolate, prospettavano tutte, nella sostanza, che l’abrogazione della fattispecie incriminatrice, tanto più in quanto non accompagnata dall’introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela contro le particolari modalità di aggressione di tali valori di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all’art. 323 cod. pen.
Nel dettaglio, il Tribunale di Firenze lamentava come l’abolizione di tale reato, sia nella forma dell’abuso per violazione di legge che per omessa astensione, sia quale abuso di danno che di vantaggio: – avrebbe inibito la repressione e la tutela sul piano penale non solo nei casi di violazione di legge intenzionalmente posta in essere dal pubblico agente per danneggiare o favorire taluno (casi che erano ormai limitati ai più gravi, obiettivi e conclamati, in ragione della riformulazione in senso restrittivo della fattispecie operata con l’art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120), ma anche in quelli di mancata astensione, in presenza di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità posto che, delle condotte finora incriminate dall’art. 323 cod. pen., rimarrebbero sanzionate penalmente solo quelle che integrano il cosiddetto peculato per distrazione (limitato, tuttavia, alla distrazione di denaro o cose mobili), in forza della introduzione della nuova fattispecie di cui all’art. 314-bis cod. pen. («Indebita destinazione di denaro o cose mobili») ad opera dell’art. 9 del decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 (Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2024, n. 112, nonché le forme «abuso d’ufficio “per omissione”, tuttora incriminate dall’art. 328 cod. pen.; – avrebbe depotenziato, indirettamente, lo stesso obbligo di astensione del pubblico ufficiale in caso di conflitto di interessi, tenuto conto che nella giurisprudenza di legittimità la disposizione abrogata fungeva, in un tempo, da norma repressiva della violazione dell’obbligo di astensione e da norma fondativa dell’obbligo stesso, specialmente in settori nei quali l’obbligo non era oggetto di una specifica disciplina; – e avrebbe prodotto un effetto ulteriormente restrittivo dell’ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite, già fortemente inciso dalla riformulazione dell’art. 346-bis cod. pen. ad opera dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024, poiché la definizione di «mediazione illecita» introdotta con il nuovo art. 346-bis cod. pen. (ossia quella posta in essere «per indurre […] a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito»), avrebbe subito, infatti, una grave limitazione indiretta, derivante dal fatto che l’«atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito» non potrebbe più essere integrato da fatti riconducibili all’abrogato abuso d’ufficio.
Oltre a ciò, evidenziava, inoltre, codesto rimettente che il legislatore sarebbe intervenuto in maniera drastica sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, eliminando importanti presidi penali a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, senza adeguatamente considerare gli effetti della parziale abolitio prodotta dalla riformulazione della fattispecie nel 2020 e delle altre riforme medio tempore entrate in vigore, tutte convergenti nel senso di ridurre significativamente la possibilità di effetti “paralizzanti” della minaccia della sanzione penale sulla attività discrezionale del pubblico amministratore (la cosiddetta “paura della firma”).
In particolare, tra gli elementi che sarebbero stati trascurati, il rimettente indicava: a) l’esiguo numero di procedimenti per abuso d’ufficio incardinati dopo la riforma del 2020; b) la profonda revisione della giurisprudenza di legittimità, attestatasi sulla irrilevanza delle violazioni di principi generali di imparzialità, buon andamento e trasparenza o di generici obblighi comportamentali; c) le maggiori tutele introdotte dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) a garanzia di iscrizioni tempestive e «non avventate» nel registro delle notizie di reato da parte degli uffici di procura, dell’assenza di effetti pregiudizievoli discendenti dalla semplice iscrizione nel registro delle notizie di reato (al cui riguardo è richiamata la sentenza n. 21 del 2024 di questa Corte), nonché del «ben più rilevante “filtro” effettuato, sia in fase di indagini preliminari ex art. 408, comma 1, c.p.p., sia in udienza preliminare, ex art. 425 comma 3 c.p.p., con archiviazione e declaratoria di non luogo a procedere, in difetto di ragionevole previsione di condanna».
Per contro, sarebbero oltre tutto gravi gli effetti sistemici connessi all’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., considerata la platea dei potenziali destinatari della fattispecie incriminatrice, tra i quali pubblici ufficiali titolari di poteri rilevantissimi, in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, e considerata altresì l’inadeguatezza, rispetto allo strumento penale, degli altri sistemi di protezione del privato cittadino.
In definitiva, per questo giudice a quo, la scelta di abrogare l’art. 323 cod. pen. non sarebbe riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma sarebbe arbitraria e avrebbe prodotto un vuoto di tutela dei beni costituzionalmente protetti dall’art. 97 Cost., tale da giustificare l’intervento ripristinatorio della Corte costituzionale.
Chiarito ciò, sviluppando argomenti in larga parte coincidenti con quelli proposti dal Tribunale di Firenze, anche il Tribunale di Teramo e il GIP del Tribunale di Roma delineavano un quadro di severo vulnus alla «tutela dei diritti del privato a fronte degli atti di favoritismo e di deliberata prevaricazione del pubblico agente nell’esercizio delle funzioni» che, per effetto dell’abrogazione, si sarebbe prodotto, evidenziando a tal riguardo come tale vulnus sarebbe aggravato dalla scelta di non bilanciare l’abolizione del reato con l’introduzione, quanto meno, di un corrispondente illecito amministrativo; anzi, considerata altresì anche la contestuale riduzione del campo applicativo dell’art. 346-bis cod. pen. e il modesto spazio operativo coperto dalla nuova fattispecie di cui all’art. 314-bis cod. pen., il vulnus in parola si sostanzierebbe nella attribuzione «al funzionario pubblico [di] un potere assoluto, suscettibile di essere impunemente impiegato quale strumento di aggressione della libertà dei privati, in violazione dei valori costituzionali che governano l’azione amministrativa» (così l’ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025).
Tal che se ne faceva discendere come sarebbero «rimaste prive di qualunque tutela penale le diverse ipotesi in cui un pubblico ufficiale, che si trovi in una situazione di conflitto di interessi, ometta di astenersi dall’adozione di una decisione da assumere in relazione al proprio Ufficio, ovvero, in violazione di norme che non prevedono discrezionalità, faccia uso del potere a lui conferito per favorire o danneggiare taluno, procurando, a seconda dei casi, vantaggi o danni ingiusti». Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon
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2. La decisione della Consulta: inammissibilità delle censure fondate sugli artt. 3 e 97 Cost.
La Corte costituzionale – dopo avere reputato le eccezioni prospettate dalle parti costituite inammissibili (anche nei termini che vedremo successivamente) – riteneva come le censure formulate dai giudici rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. fossero inammissibili.
In particolare, il Giudice delle leggi osservava a tal riguardo prima di tutto che, se precedenti disposizioni legislative che, pur senza abolire il delitto di abuso d’ufficio, ne avevano significativamente ristretto l’ambito applicativo rispetto alla disciplina previgente erano già state censurate in sede di giustizia costituzionale in relazione ai medesimi parametri, tuttavia, le relative questioni erano state dichiarate inammissibili – in particolare dalle sentenze n. 447 del 1998 e n. 8 del 2022 – proprio in relazione all’effetto in malam partem che sarebbe conseguito dal loro eventuale accoglimento.
La sentenza n. 447 del 1998 aveva, in particolare, osservato come gli allora rimettenti non avessero indicato «l’esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire essa stessa la base legale dell’incriminazione di tali condotte, e che potesse dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del legislatore» dato che essi si erano limitati, «da un lato, a lamentare una mera differenza di trattamento, che sarebbe di per sé ingiustificata, fra le condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece la punibilità […]; dall’altro lato, a sostenere che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di reato».
Orbene, simili prospettazioni – si era rilevato in quella occasione – non possono fondare una questione di legittimità costituzionale mirante a estendere la portata di una norma incriminatrice «che si assuma troppo restrittiva nella individuazione delle condotte punite, in vista di una pronuncia ]della Consulta] che ne estenda la portata»: le pur indubitabili esigenze costituzionali di protezione di beni costituzionalmente rilevanti come l’imparzialità e l’andamento della pubblica amministrazione ben possono infatti «essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996)», in armonia con il principio di extrema ratio della tutela penale, cui il legislatore ricorre quando «lo ritenga necessario per l’assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela».
Va d’altra parte escluso, aveva proseguito sempre la Corte costituzionale, che possa «tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell’ordinamento», e ciò in quanto la «mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998, punto 3 del Considerato in diritto).
Del resto, come ulteriormente chiarito dalla sentenza n. 8 del 2022 in relazione a un’analoga censura ex art. 3 Cost., «ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo “verso il basso” (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale (sulla inammissibilità di questioni in malam partem basate sulla denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000)» (punto 7 del Considerato in diritto).
Ebbene, in relazione a quanto statuito nella sentenza qui in commento, il Giudice delle leggi stimava di dovere riconfermare tali principi in relazione alle odierne questioni, le quali concernevano una disposizione che addirittura abroga una precedente incriminazione, e mirano alla integrale reviviscenza di quest’ultima, riguardando ciò in riferimento all’allegata violazione tanto dell’art. 3 Cost., quanto dell’art. 97 Cost..
Precisato ciò, quanto, invece, alla censura di cui all’art. 3 Cost., una volta preso atto come i rimettenti si dolessero in sostanza della disparità di trattamento tra le condotte che non erano più punibili in seguito all’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., e altre condotte, in tesi anche meno offensive, che conservavano oggi rilevanza penale, sul punto, si considerava opportuno preliminarmente sottolineare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella delimitazione delle condotte punibili, dovendo tale discrezionalità essere sottoposta a un controllo particolarmente attento da parte dei giudici di legittimità costituzionale in relazione alle scelte di incriminazione, in quanto necessariamente limitative dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto), fermo restando che tale discrezionalità deve essere pur sempre riconosciuta in termini assai ampi rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell’ottica dell’extrema ratio della tutela penale – criterio, quest’ultimo, esso pure di rilevo costituzionale, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale (sentenze n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Ma anche a prescindere da tale considerazione, si notava però come la costante giurisprudenza costituzionale poc’anzi richiamata abbia sempre escluso che una pronuncia della Corte costituzionale possa intervenire a modificare il confine dei fatti penalmente rilevanti tracciato dal legislatore, con un effetto estensivo della responsabilità penale dei destinatari delle norme penali, soltanto per porre riparo a eventuali disparità di trattamento tra condotte sanzionate aventi, in ipotesi, analogo o minore disvalore dal momento che un simile risultato, sinora, è sempre stato considerato precluso dalla riserva di legge in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, invece, non si oppone alla riduzione dell’area di responsabilità penale tracciata dal legislatore a opera di questa stessa Corte, nell’ambito del proprio sindacato ex art. 3 Cost. (come accaduto, ad esempio, nella sentenza n. 508 del 2000, punto 4 del Considerato in diritto).
Orbene, da tale principio la Corte di legittimità costituzionale, nella pronuncia qui in esame, non ravvisava ragioni cogenti per discostarsi, né la preclusione di un sindacato in malam partem in riferimento all’art. 3 Cost. avrebbe potuto essere superata nel caso ora all’esame, come suggerisce il GIP del Tribunale di Roma nella propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025), inquadrando la disposizione censurata come “norma penale di favore” che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall’attuazione di una norma penale generale» dal momento che la categoria delle “norme penali di favore” rispetto alle quali è ammesso un sindacato di legittimità costituzionale comprende – secondo quanto di recente ribadito in sede di legittimità costituzionale – quelle norme «che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento [(…)]. L’effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria. La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte» (sentenza n. 8 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).
Ebbene, nel caso ora all’esame, per il Giudice delle leggi, il raffronto suggerito dal rimettente non era, per l’appunto, tra una norma generale e una norma che sottragga talune categorie di soggetti o talune condotte al perimetro di punibilità di quella stessa norma, destinata a riespandersi una volta caducata la norma derogatoria illegittima, considerato che il raffronto in questione, piuttosto, è fra una norma incriminatrice vigente (e in particolare l’art. 353 cod. pen., che punisce le turbative della gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) e la disposizione che ha abrogato l’art. 323 cod. pen., nel cui ambito applicativo la giurisprudenza aveva ricondotto condotte parzialmente sovrapponibili a quelle che integrano le turbative d’asta.
In altre parole, come già nel caso esaminato dalla Consulta nella sentenza n. 8 del 2022, la richiesta di sindacato in malam partem non mira qui a far “riespandere” una norma già presente nell’ordinamento, ma a “ripristinare” una norma abrogata, e ciò che la costante giurisprudenza costituzionale ritiene non sia consentito, almeno in sede di sindacato di cui all’art. 3 Cost..
Chiarito pure tale aspetto, quanto all’allegata violazione dell’art. 97 Cost., dopo esservi fatto presente che vari giudici rimettenti lamentavano in sintesi che l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, non accompagnata dall’introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela rispetto a modalità di aggressione di tali beni, di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all’art. 323 cod. pen., una volta notato quell’orientamento che considera in via generale inammissibile un sindacato in malam partem in materia penale, taluni rimettenti invitavano la Consulta a rimeditare i propri precedenti, almeno per quanto riguarda le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost., sottolineando come il quadro normativo attuale fosse profondamente mutato rispetto a quello scrutinato in passato.
In particolare, tale quadro, ad avviso dei rimettenti, non sarebbe oggi più in grado di assicurare adeguata protezione ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, anche a fronte della riduzione dell’ambito applicativo di altre norme incriminatrici operato nel frattempo dal legislatore e ciò, in particolare, rispetto a molte condotte di abuso per omessa astensione, in presenza di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità, nonché in quelle di violazioni di legge intenzionalmente poste in essere dal pubblico agente per danneggiare o favorire taluno; con conseguente non punibilità di condotte abusive compiute da pubblici ufficiali titolari di poteri rilevantissimi, in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, a fronte della ritenuta inadeguatezza, rispetto allo strumento penale, degli altri sistemi di protezione del cittadino.
Di talché la scelta di abrogare l’art. 323 cod. pen., lungi dal costituire legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, dovrebbe essere considerata arbitraria e, pertanto, costituzionalmente illegittima, lasciando del tutto privi di tutela i beni protetti dall’art. 97 Cost..
Ciò posto, si evidenziava oltre tutto come censure del tutto analoghe fossero state, tuttavia, formulate in relazione alle modifiche legislative riduttive dell’ambito di applicazione del delitto di cui all’art. 323 cod. pen..
Nel dettaglio, tanto la sentenza n. 447 del 1998, quanto la sentenza n. 8 del 2022, avevano ritenuto in radice inammissibili tali censure sulla base dell’argomento che le esigenze costituzionali di tutela sottese all’art. 97 Cost. non richiedono necessariamente l’attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi preventivi e sanzionatori diversi dal diritto penale: strumenti che debbono, anzi, preferirsi – in omaggio al principio di extrema ratio – sempre che siano in grado di assicurare un’efficace tutela ai beni in parola.
In ogni caso, per la Corte, laddove non sussistano puntuali obblighi di incriminazione discendenti dalla Costituzione o da altre fonti vincolanti per il legislatore, non può che spettare a quest’ultimo la decisione circa l’an dell’eventuale tutela penale da assicurare agli interessi che la stessa Costituzione impone in via generale di proteggere, senza però specificare con quali strumenti tale protezione debba essere assicurata perché un eventuale sindacato della Consulta sulle scelte compiute in proposito dal legislatore finirebbe per non trovare alcuna base di legittimazione né nel testo, né nella stessa ratio, dell’art. 97 Cost..
La medesima considerazione, d’altronde, si reputava di dovere essere impiegata a fronte dell’argomento, proposto dal Tribunale di Teramo, secondo cui la legittimazione a un sindacato in malam partem, che sarebbe spettato sempre al Giudice delle leggi, in riferimento all’art. 97 Cost. deriverebbe dal principio, enunciato dall’art. 28 Cost., per cui «[i] funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti» visto che tale previsione costituzionale sancisce il principio della diretta responsabilità del pubblico dipendente in caso di violazione dei diritti stabiliti dalle leggi (anche penali) vigenti; ma tale principio non può essere dilatato in via interpretativa sino a fondare un obbligo costituzionale, gravante sul legislatore, di prevedere una sanzione penale per ogni condotta del pubblico dipendente che abbia abusato del proprio potere a danno di un privato.
Tutto ciò induceva quindi la Consulta, anche in questo caso, a confermare il proprio costante orientamento preclusivo all’esame nel merito di tutte le doglianze svolte dai rimettenti con riferimento specifico all’art. 97 Cost..
Per quanto infine riguarda la ritenuta violazione degli art. 11 e 117, co. 1, Cost., la Corte costituzionale riteneva di dovere giungere a diverse conclusioni giuridiche, in relazione all’ammissibilità delle censure formulate dai rimettenti in riferimento a siffatti precetti normativa, in relazione a un nutrito gruppo di obblighi discendenti dalla Convenzione di Mérida.
In proposito, si esaminava innanzitutto l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato relativa all’inammissibilità delle censure formulate da numerosi rimettenti in riferimento all’art. 11 Cost. dato che, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, nessuno di essi ha chiarito per quale ragione la violazione di obblighi di diritto internazionale pattizio darebbe luogo a una violazione – oltre che dell’art. 117, primo comma, Cost. – anche dell’art. 11 Cost., che la costante giurisprudenza di questa Corte considera coinvolto allorché vengano in considerazione obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, rispetto ai quali operano le «limitazioni di sovranità» ivi menzionate.
Ebbene, per la Corte, tale lacuna motivazionale delle ordinanze di rimessione costituisce causa di inammissibilità delle questioni dalle stesse prospettate (ex plurimis, ordinanza n. 159 del 2021; sentenza n. 37 del 2019, punti 5 e 6 del Considerato in diritto; ordinanze n. 12 del 2017 e n. 29 del 2015), che non può ritenersi sanata dalle considerazioni estesamente svolte nella memoria illustrativa e nella discussione orale in udienza dalla difesa della parte civile del procedimento davanti alla Corte di Cassazione, costituita ad adiuvandum, miranti a ricondurre gli obblighi sanciti dalla Convenzione di Mérida all’ambito applicativo del diritto dell’Unione, in forza dell’approvazione della Convenzione stessa da parte dell’allora Comunità europea.
Contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato e da numerose parti costituite, però, per i giudici di legittimità costituzionale, dovevano all’opposto ritenersi ammissibili le doglianze formulate da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle norme della Convenzione di Mérida.
In particolare, secondo la Consulta, dal momento che tutte queste questioni prospettavano l’esistenza di obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione, che sarebbero stati violati dalla scelta del legislatore di abrogare, mediante la disposizione censurata, l’incriminazione preesistente, tanto bastava ad assicurare l’ammissibilità delle questioni, restando poi riservata all’esame del merito ogni valutazione circa l’effettiva sussistenza di tali obblighi sul piano dell’interpretazione del diritto internazionale, e in particolare delle norme della Convenzione specificamente invocate dai rimettenti.
Nel dettaglio, il Giudice delle leggi addiveniva a siffatto primo esito decisorio, osservando prima di tutto che la giurisprudenza costituzionale considera ammissibili questioni in malam partem in materia penale allorché venga in considerazione il rispetto di «obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.» (così, in particolare, la sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).
Difatti, se l’Avvocatura generale dello Stato e le difese di varie parti costituite ad opponendum sostenevano che tale deroga sarebbe stata unicamente riferibile agli obblighi discendenti dal diritto dell’Unione europea e non, invece, agli obblighi internazionali di natura pattizia, come quelli statuiti dalla Convenzione di Merida, rispetto ai quali non vi sarebbero precedenti specifici di sindacato costituzionale in malam partem in materia penale, l’eccezione de qua era, però, reputata infondata perché: (a) il dato testuale dell’art. 117, primo comma, Cost. equipara i vincoli derivanti dal diritto dell’Unione e quelli statuiti dal diritto internazionale pattizio, dalla violazione di tali obblighi da parte della legge statale o regionale discendendo in entrambi i casi l’illegittimità costituzionale della legge medesima; (b) questo meccanismo vale anche per le leggi penali, alla sua operatività non ostando – in particolare – il principio di legalità dei reati e delle pene di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.; (c) il rispetto della ratio anche “democratica” del principio di legalità in materia penale è comunque assicurato dal coinvolgimento del Parlamento nel procedimento di ratifica delle convenzioni internazionali.
Ciò posto, si osservava in secondo luogo che l’art. 117, primo comma, Cost., sancisce a carico del legislatore (statale e regionale) il generale obbligo di rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e gli «obblighi internazionali», deducendo al contempo che le due categorie di obblighi sono equiparate quanto agli effetti vincolanti per il legislatore statale e regionale, impregiudicata restando soltanto la diversa estensione dei limiti di tali vincoli, così come precisati dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007: il nucleo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, rispetto ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (oggi, dell’Unione europea); l’intero corpus delle norme di rango costituzionale, rispetto agli obblighi di diritto internazionale pattizio.
Pur tuttavia, ad avviso della Consulta, l’effetto della violazione degli obblighi unionali e internazionali da parte della legge, statale o regionale che sia, è però identico, e consiste nella illegittimità costituzionale della stessa, da dichiararsi da parte del Giudice delle leggi – salva naturalmente la possibilità per il giudice comune, rispetto al solo diritto dell’Unione europea dotato di effetto diretto, di disapplicare la legge nazionale o regionale che risulti con esso incompatibile (sul tema, da ultime, anche per ulteriori riferimenti alla giurisprudenza recente in materia, sentenza n. 31 del 2025, punto 4.1. del Considerato in diritto; ordinanza n. 21 del 2025, punto 6 del Considerato in diritto; sentenza n. 7 del 2025, punti 2.2.2. e 2.2.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 1 del 2025, punto 3 del Considerato in diritto; sentenza n. 181 del 2024, punto 6.5. del Considerato in diritto).
Orbene, per la Corte, questi principi valgono anche per le leggi in materia penale in quanto, oltre ad essere ciò incontestato per quanto concerne la possibilità per la Consulta di dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni penali in contrasto con gli obblighi internazionali, con effetto riduttivo dell’area di rilevanza penale (ad esempio, sentenze n. 150 del 2021 e n. 25 del 2019, dichiarative della parziale illegittimità costituzionale di leggi penali per il loro esclusivo contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a norme della CEDU), non vi è inoltre ragione per ritenere che i medesimi principi non si applichino allorché la Consulta sia chiamata a censurare il contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione o dal diritto internazionale pattizio (anche diverso dalla CEDU: sentenze n. 120 del 2018, punto 10.1. del Considerato in diritto, e n. 194 del 2018, punto 14 del Considerato in diritto), con effetti potenzialmente espansivi della punibilità rispetto ai limiti fissati dal legislatore.
In effetti, come già rammentato, la sentenza n. 28 del 2010 concerneva una situazione in cui il legislatore italiano aveva escluso una particolare categoria di rifiuti – le ceneri di pirite – dalla disciplina generale in materia, e segnatamente dagli obblighi penalmente sanzionati in materia di rifiuti, in contrasto con le pertinenti direttive comunitarie, avendo la Consulta reputate fondate le censure allora sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione derogatoria nazionale, provocando così la riespansione della disciplina penale generale in materia di rifiuti: con un effetto, dunque, espansivo della punibilità (e dunque, nella terminologia consolidata, in malam partem), fermo restando che lo stesso meccanismo ben può operare anche nei confronti degli obblighi derivanti dal diritto internazionale pattizio, equiparati dallo stesso art. 117, primo comma, Cost. ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea nel senso che all’operare di tale meccanismo – nei confronti tanto degli obblighi unionali, quanto di quelli di natura internazionale pattizia – non osta, segnatamente, il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., sul quale hanno insistito varie parti costituite, anche nella discussione orale in udienza, non essendoci dubbio che il principio di legalità in materia penale costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, idoneo a operare quale “controlimite” rispetto alle stesse limitazioni di sovranità acconsentite dallo Stato italiano ai sensi dell’art. 11 Cost.; d’altronde, proprio muovendo da tale principio, pur avendo la Corte costituzionale ritenuto che non fosse compatibile con la stessa identità costituzionale italiana una soluzione interpretativa che facesse discendere direttamente da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea un effetto di aggravamento della responsabilità penale di un individuo, sub specie di allungamento retroattivo dei termini di prescrizione di un reato, o addirittura di riapertura di un termine di prescrizione già spirato (ordinanza n. 24 del 2017, punti 2 e 5 del Ritenuto in fatto e considerato in diritto; sentenza n. 115 del 2018, punto 10 del Considerato in diritto), nessun contrasto con il principio di legalità in materia penale si verifica però allorché una norma di diritto dell’Unione o – per quanto qui più direttamente rileva – una norma di diritto internazionale pattizio si limiti a imporre un obbligo di criminalizzazione, cioè a vincolare il legislatore nazionale a introdurre o mantenere nel proprio ordinamento una legge penale che incrimini una data tipologia di condotta dato che, in tale ipotesi, la responsabilità penale di un individuo non discenderà direttamente dall’atto di diritto dell’Unione o dall’obbligo internazionale, mentre essa si fonderà, invece, unicamente sulla legge nazionale attuativa dell’obbligo internazionale, una volta che questa sia stata effettivamente introdotta nell’ordinamento dal legislatore nazionale.
Laddove poi – come auspicato da taluni rimettenti – la Corte costituzionale avesse dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge abrogativa di una legge penale rispettosa di un obbligo unionale o internazionale di criminalizzazione, ritenendo che la sua abrogazione contravvenga a tale obbligo, l’effetto della sentenza sarebbe stato semplicemente quello di ripristinare la vigenza di una legge nazionale abrogata illegittimamente perché in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.: esattamente come accaduto più volte in passato, allorché le sentenze del Giudice delle leggi hanno ripristinato la vigenza di leggi penali abrogate dal legislatore in violazione delle norme costituzionali in materia di formazione delle leggi (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014).
Invero, proprio come in quei casi, dopo la sentenza della Consulta, la responsabilità penale degli individui continuerebbe a fondarsi sull’originaria disciplina stabilita dal legislatore, e dunque a essere basata sulla legge statale vigente al momento del fatto; nel rispetto, peraltro, del principio di garanzia che esclude l’applicabilità della legge ripristinata ai fatti commessi durante il periodo di vigenza della legge abrogativa poi dichiarata incostituzionale dalla Corte.
In piena consonanza, dunque, tanto con la riserva di legge, quanto con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, entrambi corollari del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost..
D’altronde, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, nemmeno può ritenersi, come sostenuto da taluna delle parti costituite, che la ratio anche “democratica” della riserva di legge in materia penale – che vuole affidato al Parlamento, quale istituzione rappresentativa dell’intera comunità nazionale, il compito di valutare se apprestare una sanzione penale per proteggere determinati beni giuridici – venga in effetti svuotata, laddove si riconosca alle fonti unionali e internazionali una legittimazione a dettare indicazioni vincolanti per il legislatore nazionale in materia penale visto che gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal diritto internazionale pattizio sono liberamente accettati dallo stesso Parlamento per il tramite della legge che autorizza la ratifica dei singoli trattati, la quale può altresì indicare al Governo di apporre riserve e dichiarazioni, nei limiti consentiti dal diritto internazionale, in ordine a loro specifiche previsioni all’atto della ratifica, dovendosi dunque ritenere che, autorizzando tout court la ratifica, il Parlamento abbia consapevolmente condiviso le scelte compiute dallo strumento pattizio negoziato dal Governo con gli altri Stati firmatari (anche) in merito all’an e alle specifiche condizioni della criminalizzazione, o non criminalizzazione, di determinate condotte; e abbia così accettato di assumere, anche rispetto a tali scelte, impegni giuridicamente vincolanti nei confronti delle altre Parti contraenti, contestualmente assoggettando la propria successiva produzione normativa al rispetto degli obblighi medesimi ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost..
Né potrebbe predicarsi, sempre secondo quanto sostenuto dal Giudice delle leggi, una sorta di “tirannia” degli obblighi internazionali sul principio di legalità penale, o di “espropriazione” della riserva di legge, sulla base dell’argomento che – una volta assunto un obbligo internazionale di criminalizzazione – non sarebbe più concesso al legislatore modificare le sue scelte di politica criminale nel senso che, se è vero è, dopo la ratifica di un trattato, il legislatore italiano è vincolato agli obblighi dallo stesso derivanti ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., anche nella materia penale, a ciò non preclude però allo Stato di discostarsi in seguito da tali obblighi con le modalità previste dallo stesso diritto internazionale, e in particolare promuovendo un emendamento al trattato, ovvero denunciandolo, trattandosi di un evento che si può verificare anche grazie all’intervento del Parlamento, nell’esercizio della sua essenziale funzione di indirizzo e controllo.
Rispetto in particolare alla Convenzione di Mérida, che qui viene in considerazione, con la legge n. 116 del 2009 il Parlamento ne ha autorizzato la ratifica senza formulare alcuna riserva, ordinandone contestualmente la piena e intera esecuzione: e ciò in esito a un dibattito parlamentare, sfociato in una legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione, che ha modificato in più punti il quadro normativo nazionale proprio per conformarsi agli obblighi assunti con la Convenzione.
Tali obblighi debbono, pertanto, essere oggi considerati vincolanti per il legislatore italiano ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., nella misura – naturalmente – in cui risultino compatibili con l’insieme dei superiori principi costituzionali.
In conclusione, la Consulta dichiarava inammissibili tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento agli artt. 3, 11 e 97 Cost., reputandosi al contrario ammissibili, e quindi da doversi analizzare nel merito, tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle previsioni della Convenzione di Mérida da essi evocate.
Ebbene, per la Corte, tali censure non erano fondate.
In particolare, i giudici di legittimità costituzionale notavano innanzitutto che i rimettenti, nel loro complesso, riconoscono che l’unica disposizione della Convenzione specificamente dedicata all’abuso d’ufficio («Abuse of functions», nella versione ufficiale inglese) è l’art. 19; e giustamente osservano che tale disposizione si limita a statuire che gli Stati parte hanno l’obbligo di considerare («shall consider adopting») la criminalizzazione di condotte in larga misura corrispondenti a quelle coperte dall’abrogata disposizione di cui all’art. 323 cod. pen.
A differenza dunque di altre disposizioni della Convenzione che impongono agli Stati parte un preciso obbligo di criminalizzazione (in particolare, gli artt. 15 e 16 in materia di corruzione, l’art. 17 in materia di peculato, l’art. 23 in materia di riciclaggio, l’art. 25 in materia di intralcio alla giustizia), l’art. 19 configura semplicemente – nel linguaggio della Legislative guide alla Convenzione, elaborata dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – una «non-mandatory offence»: e cioè una condotta la cui possibile criminalizzazione gli Stati hanno il mero obbligo (procedurale) di «considerare».
Inoltre, secondo talune ordinanze di rimessione, tuttavia, tale obbligo di «considerare» alluderebbe soltanto all’obbligo di verificare che l’introduzione del reato in questione sia compatibile con il sistema giuridico nazionale; di talché, in caso di riscontrata compatibilità, il legislatore dovrebbe senz’altro ritenersi obbligato a introdurre il reato nel proprio ordinamento, o se del caso a mantenerlo.
A parere invece di altre ordinanze di rimessione provenienti dai giudici di merito, l’obbligo statuito dall’art. 19 dovrebbe leggersi in combinato disposto con altre disposizioni della Convenzione e con la ratio complessiva di quest’ultima, sì da comportare – se non l’obbligo di introdurre ex novo il reato, per gli ordinamenti che non lo contemplavano al momento della ratifica della Convenzione – quanto meno un obbligo di “non regressione” nella tutela penale, e dunque un divieto di abrogare la corrispondente incriminazione, ove già esistente, facendosi leva, in proposito: – sull’art. 1, che include nelle finalità della convenzione «la promozione e il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace», tra le quali si collocherebbero la criminalizzazione di condotte preparatorie o in vario modo collegate alla corruzione vera e propria, come quelle di abuso delle funzioni pubbliche; – sull’art. 5, che impegna gli Stati parte a elaborare, applicare e mantenere «politiche di prevenzione contro la corruzione efficaci e coordinate che […] rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità»; – sull’art. 65, paragrafo 1, da cui discende il generale obbligo degli Stati di adottare tutte le misure necessarie, incluse quelle di natura legislativa, per assicurare l’esecuzione degli obblighi convenzionali; – sull’art. 65, paragrafo 2, da cui si desume il principio secondo cui gli Stati possono adottare misure più severe di quelle previste dalla Convenzione; nonché, soprattutto, – sull’art. 7, paragrafo 4, che stabilisce l’obbligo a carico degli Stati di adoperarsi, «conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d’interesse».
Abolendo il delitto di abuso d’ufficio – questa la conclusione dei rimettenti – lo Stato italiano avrebbe dunque violato i propri obblighi convenzionali, segnatamente quello – sancito dall’art. 7, paragrafo 4, da ultimo citato – di «mantenere e rafforzare» i sistemi esistenti finalizzati a promuovere la trasparenza nella pubblica amministrazione e a prevenire i conflitti di interessi.
Dal canto suo, la Corte di Cassazione assumeva – nella propria ordinanza di rimessione – che dall’art. 7, paragrafo 4, della Convenzione si evincerebbe non tanto un assoluto divieto di abolire l’incriminazione dell’abuso d’ufficio a carico di quegli Stati che, come l’Italia, già contemplassero questo reato nel proprio sistema penale; quanto, piuttosto, un obbligo di mantenere i complessivi standard di efficace attuazione della UNCAC, in particolare dei sistemi di prevenzione della corruzione. Sicché la censurata abolizione del reato si sarebbe posta in contrasto con tale obbligo in quanto non accompagnata, in concreto, da misure compensative in grado di assicurare un livello di tutela almeno equivalente a quello garantito, sino a quel momento, dall’incriminazione in parola; ciò che avrebbe realizzato, pertanto, un regresso netto nella efficace attuazione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato italiano.
La Consulta, tuttavia, non si riteneva persuasa da nessuno di tali argomenti.
Anzitutto, per la Corte, nessun elemento evincibile dal testo o dalla ratio dell’art. 19 della Convenzione autorizza a concludere che lo Stato sarebbe obbligato a introdurre (o a mantenere) nel proprio ordinamento l’incriminazione delle condotte di abuso di ufficio, alla sola condizione che tale incriminazione risulti compatibile con i principi generali dell’ordinamento nazionale.
L’inequivoco testo della disposizione enuncia un mero obbligo di “considerare” tale introduzione: e dunque non solo di assicurarsi della compatibilità dell’incriminazione con i principi generali dell’ordinamento penale nazionale (il che non è in discussione rispetto all’abuso d’ufficio, a differenza di quanto accade per altre più problematiche fattispecie penali, come quella di arricchimento illecito di cui al successivo art. 20); ma anche di valutare attentamente i pro e i contra di tale opzione.
In effetti, ogni scelta di criminalizzazione presenta ovvi vantaggi, in termini di più energica tutela degli interessi lesi dalla condotta che si voglia sottoporre a sanzione penale, ma anche una nutrita serie di svantaggi, quanto alla sua sicura incidenza sui diritti fondamentali dei destinatari del precetto, nonché ai suoi effetti collaterali a danno di altri interessi collettivi – come il possibile chilling effect rispetto a condotte lecite e anzi utili dal punto di vista sociale (in particolare, con riferimento ai rischi di “burocrazia difensiva” connessi all’incriminazione dell’abuso d’ufficio, sentenza n. 8 del 2022, punto 2.4. del Considerato in diritto).
La Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell’incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari. Circostanza, quest’ultima, che – come risulta dai lavori preparatori della Convenzione – ha indotto gli Stati firmatari a trasformare le originarie proposte di introdurre un vero e proprio obbligo di incriminazione di questa specifica condotta, formulate da Messico, Colombia e Turchia, in un mero obbligo di “considerare” tale soluzione, recependo così una proposta formulata dalla Croazia in coordinamento con il Canada e con la stessa delegazione italiana (UNODC, Travaux préparatoires of the negotiations for the elaboration of the United Nations Convention Against Corruption, United Nations Publications, 2010, p. 191-193).
A questo punto, ciò che unicamente rileva, dal punto di vista della Convenzione, è che lo Stato adempia l’obbligazione (concepita come di mezzi, non già di risultato) di valutare attentamente la possibilità di dotarsi dell’incriminazione in parola, a fronte della complessità dei fattori in gioco e della rilevanza di tutti gli interessi coinvolti.
D’altra parte, non vi è alcuna ragione per ritenere che, una volta compiuta – prima o dopo la ratifica della Convenzione – la scelta di incriminare le condotte di abuso d’ufficio, lo stesso art. 19 precluda allo Stato di ritornare sui propri passi, e di (ri)considerare i pro e i contra dell’incriminazione, eventualmente pervenendo alla conclusione di abolirla.
Ciò è per l’appunto accaduto nel nostro Paese, in occasione dell’approvazione della disposizione qui censurata, la cui ratio è esplicitata nei lavori preparatori, in particolare nella relazione illustrativa al disegno di legge A. S. n. 808 – XIX Legislatura, di iniziativa governativa.
Nel dettaglio, in tale relazione, si sottolinea l’opportunità di porre rimedio al persistente «squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito» relative alla figura criminosa in questione, rimasto sostanzialmente invariato anche dopo le modifiche legislative volte a realizzare una più rigorosa tipizzazione della fattispecie; si valorizza l’esistenza di un articolato sistema nazionale di repressione e prevenzione della «malpractice nel settore pubblico», composto da una vasta gamma di incriminazioni e un ventaglio di strumenti in funzione preventiva, tra i quali i piani anticorruzione e la vigilanza dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC); e si esprime l’intenzione di recuperare «risorse al sistema, non impegnando inutilmente l’apparato giudiziario e sollevando l’azione amministrativa ed il singolo indagato dalle ricadute negative derivanti da iscrizioni per fatti che risultano non rientrare in alcuna categoria di illecito penale», trattandosi di valutazioni, tutte, attraverso le quali si deve ritenere adempiuto quell’obbligo di “considerazione” che unicamente discende dall’art. 19 della Convenzione, e rispetto al cui esito la stessa disposizione convenzionale si rimette alla discrezionalità del legislatore nazionale.
D’altronde, se, proprio nella consapevolezza dell’impossibilità di derivare un divieto di abrogazione della previgente disposizione incriminatrice dall’art. 19, la maggior parte delle ordinanze di rimessione – ivi compresa quella della Corte di Cassazione – fondano le rispettive argomentazioni sul combinato disposto dell’art. 19 con altre previsioni della Convenzione, in particolare attribuendo un rilievo centrale al suo art. 7, paragrafo 4, ad avviso della Consulta, tuttavia, quest’ultima disposizione deve essere letta nelle sue connessioni sistematiche con i paragrafi precedenti.
Invero, l’art. 7, paragrafo 1, obbliga gli Stati a adoperarsi («endeavour») per adottare, mantenere e rafforzare sistemi di assunzione e gestione delle risorse umane nel pubblico impiego improntati a principi di efficienza, trasparenza e a criteri oggettivi, quali il merito, l’eguaglianza e le attitudini (paragrafo 1, lettera a), fermo restando che tali sistemi devono includere procedure adeguate di selezione e formazione per le persone particolarmente esposte al rischio di corruzione e, se opportuno, la rotazione nelle rispettive posizioni (lettera b); devono promuovere la retribuzione adeguata degli agenti pubblici non elettivi (lettera c) e devono organizzare programmi di formazione che li rendano capaci di svolgere la funzione pubblica in modo corretto, onorevole e appropriato (lettera d). I successivi paragrafi 2 e 3, pur con formulazione meno stringente («shall also consider adopting», «shall also consider taking»), obbligano gli Stati a “considerare” l’adozione di criteri per le candidature agli uffici elettivi e per la trasparenza del finanziamento dei partiti politici. Il paragrafo 4, infine, dispone: «Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest».
Dunque, se, nel suo complesso, l’art. 7 si occupa delle misure volte a prevenire la corruzione tramite l’applicazione di principi di efficienza, competenza e trasparenza nel settore pubblico, a tal fine imponendo agli Stati, attraverso il paragrafo 4, l’obbligo di adoperarsi per «adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse», e che da tale disposizione, e in particolare dal paragrafo 4, sia desumibile implicitamente anche un “divieto di regressione” (o obbligo di “stand still”) nella repressione dell’abuso d’ufficio – divieto che si estrinsecherebbe in un divieto assoluto di abrogare la relativa incriminazione ove prevista nell’ordinamento dello Stato firmatario al momento della ratifica della Convenzione, o almeno, come sostenuto nell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, in un divieto di abrogare l’incriminazione in assenza di misure compensatorie – è però, per la Corte, smentito dai seguenti argomenti: – l’intero art. 7 è inserito nel Capitolo II della Convenzione, in cui sono disciplinati gli obblighi relativi ai sistemi di «prevenzione» della corruzione, mentre gli obblighi repressivi di natura penale sono disciplinati dal successivo Capitolo III (in cui è invece collocato il già esaminato art. 19);
– in ogni caso, l’art. 7, paragrafo 4, non impone alcuna specifica misura allo Stato contraente, lasciando allo stesso ampia discrezionalità rispetto all’obiettivo di introdurre, mantenere e rinforzare i sistemi di prevenzione della corruzione; – i «sistemi» cui si riferisce l’art. 7, paragrafo 4, peraltro, sono unicamente quelli finalizzati alla promozione della «trasparenza» e alla prevenzione dei «conflitti di interessi», nel senso che il primo obiettivo era del tutto estraneo alla sfera di tutela dell’abrogata incriminazione dell’abuso d’ufficio mentre il secondo interferiva solo tangenzialmente – come possibile modalità della condotta – con tale incriminazione, incentrata primariamente sul risultato di danno al privato o di ingiusto vantaggio per il pubblico agente.
Orbene, in un simile contesto, per i giudici di legittimità costituzionale, è dunque assai arduo ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all’art. 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice, la cui introduzione la stessa Convenzione rinuncia espressamente, nella naturale sedes materiae dedicata agli obblighi di natura penale, a indicare come doverosa per gli Stati parte, così come non si riteneva persuasiva l’ipotesi ermeneutica formulata dalla Corte di Cassazione secondo cui, in forza dell’art. 7, paragrafo 4, lo Stato che decidesse di abrogare l’incriminazione già esistente dell’abuso d’ufficio sarebbe tenuto a adottare misure compensatorie per mantenere il preesistente livello di promozione della trasparenza e della prevenzione dei conflitti di interessi dato che, anche ipotizzando che l’abrogato art. 323 cod. pen. potesse interpretarsi quale strumento funzionale a prevenire i conflitti di interesse nella pubblica amministrazione, dalla disposizione convenzionale in esame non pare evincibile alcun obbligo di risultato, il cui conseguimento possa essere valutato dalla Consulta in sede di giudizio di legittimità costituzionale dal momento che Ii contenuto precettivo di tale disposizione si esaurisce piuttosto – come evidenziato dal suo dato testuale, imperniato sul verbo «shall endeavour» – nell’obbligare lo Stato ad “adoperarsi” per raggiungere gli obiettivi indicati: senza imporgli però di adottare alcuno specifico mezzo, e in ogni caso senza fissare alcun preciso standard di efficacia dei meccanismi preventivi.
Né, infine, sempre per la Corte, uno scrutinio dei giudici di legittimità costituzionale sulla complessiva efficacia del sistema di prevenzione e di repressione delle condotte illegittime dei pubblici agenti potrebbe legittimarsi sulla base delle altre disposizioni della Convenzione evocate da taluni rimettenti, sulle quali nemmeno può fondarsi l’ipotetico divieto di regressione, o obbligo di “stand still”, che gli stessi rimettenti ipotizzano.
Quanto all’art. 1, si tratta di disposizione meramente programmatica che enuncia le finalità della Convenzione: il cui concreto contenuto precettivo per gli Stati parte deriva però esclusivamente dalle successive disposizioni, tra le quali l’art. 19 più sopra esaminato.
Quanto all’art. 5, rubricato «Politiche e pratiche di prevenzione della corruzione» e anch’esso collocato, come l’art. 7, nel Capitolo II dedicato alle «Misure preventive», si tratta di previsione che si limita a descrivere ad ampio spettro gli obblighi degli Stati di adoperarsi allo scopo di prevenire le pratiche corruttive, senza però direttamente prescrivere alcuna specifica misura, tanto meno nella materia penale, regolata dal successivo Capitolo III.
Quanto, infine, all’art. 65, collocato tra le «Disposizioni finali», esso prevede al paragrafo 1 l’obbligo per ciascuno Stato parte di adottare le misure necessarie «per assicurare l’esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione», in quanto definiti però dalle disposizioni che precedono – tra cui, naturalmente, l’art. 19, nei limiti da esso fissati –, senza imporre esso stesso nuovi obblighi. Al paragrafo 2 si chiarisce poi che «[c]iascuno Stato Parte può adottare misure più restrittive o severe di quelle previste dalla presente Convenzione»: senza che con ciò si introduca alcun obbligo aggiuntivo per gli Stati, e soprattutto senza che si stabilisca – in difetto di qualsiasi appiglio testuale che possa avvalorare una tale conclusione, che limiterebbe incisivamente la discrezionalità del Parlamento nello svolgimento della propria politica criminale – alcun divieto di regresso rispetto alle misure di tutela penale che gli Stati avessero scelto autonomamente di adottare, lasciandosi così sempre aperta, anche in tale ipotesi, la possibilità per lo Stato di liberamente riconsiderare le misure di tutela già adottate (per la medesima conclusione, nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 7 dicembre 2021, Filat contro Moldavia, paragrafo 33, ove si nega l’esistenza di un obbligo di non regressione rispetto a scelte di tutela più avanzata dei diritti rispetto agli standard convenzionali, che pure lo Stato parte è certamente libero di compiere ai sensi dell’art. 53 CEDU).
Non occorre, infine, per la Consulta, esaminare quel costante orientamento secondo cui gli intervenienti e le parti del giudizio di legittimità costituzionale non possono ampliare il thema decidendum cristallizzato nell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenza n. 198 del 2022, punto 5.1 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
In definitiva, la Consulta riteneva di non potere, sulla base dei parametri evocati, sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore, osservando al contempo che, se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato – emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus – possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi alla Consulta al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.
Detto questo, veniva fatta un’ultima precisazione, la quale era espressa nei seguenti termini: “Come si è chiarito, né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né – ancora – i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso di ufficio o un divieto di abrogare la disposizione incriminatrice eventualmente già prevista nell’ordinamento interno. L’inesistenza, a giudizio di questa Corte, di un dubbio interpretativo in proposito dispensa dal valutare la possibilità, sulla quale ha insistito la parte civile costituita ad adiuvandum, di formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea avente a oggetto l’interpretazione di dette disposizioni, che peraltro vincolano l’Unione nei soli limiti delle sue competenze: rinvio pregiudiziale che, secondo la stessa parte civile, sarebbe possibile in conseguenza dell’avvenuta approvazione della Convenzione da parte dell’allora Comunità europea, in forza della decisione del Consiglio del 25 settembre 2008 (2008/801/CE)”.
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3. Considerazioni conclusive: la legittimità dell’abrogazione e la necessità di colmare i vuoti di tutela
Con il provvedimento qui in esame, i giudici di legittimità costituzionale hanno dichiarato: 1) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), sollevate, complessivamente in riferimento agli artt. 3, 11 e 97 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, con le ordinanze indicate in epigrafe; 2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., complessivamente in relazione agli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65, paragrafo 1, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Tribunale ordinario di Modena, sezione penale, dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Orbene, a fronte di tale decisione, lo scrivente, rimandando le proprie considerazioni (sulle tematiche trattate dalla Consulta in tale occasione) a quanto da lui già enunciato nel libro “Cosa cambia nel processo penale. Dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia”, edito dalla Maggioli il mese di febbraio del 2025 (da p. 14 a p. 49), con il presente scritto, si limita a fare presente che il tema, trattato dalla Corte costituzionale in questa decisione, è stato sicuramente uno tra quelli che maggiormente ha destato l’attenzione degli studiosi del diritto penale nel corso degli ultimi anni.
In effetti, sono state molte e dibattute le questioni sollevate e le argomentazioni giuridiche spese a sostegno dell’una o dell’altra tesi, rispetto alle quali, ad avviso dello scrivente, la Consulta ha elaborato argomentazioni che, oltre ad essere state assai articolate e ben motivate, si appalesano del tutto condivisibili.
Ad ogni modo, alla luce di quanto postulato in siffatta sentenza, resta un fatto, per chi scrive, fondamentale, ossia che il legislatore, in assenza di una norma di rango sovranazionale che lo impedisca espressamente, può, nell’esercizio delle sue prerogative, costituzionalmente riconosciutele, abrogare una norma incriminatrice, al di là che si possa condividere, come scelta politica, una decisione di questo genere.
Ciò posto, pur assolutamente condividendosi in toto quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella pronuncia qui in commento, rimane però l’auspicio che i vuoti di tutela, che si sono venuti a verificare a causa dell’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., e che sono stati riconosciuti dal medesimo Giudice delle leggi quali vuoti di tutela “indubbi”, possano essere colmati, ex lege, il prima possibile.
Ma, questa, rimane una scelta di politica che se, come appena esposto, necessita di un ulteriore intervento normativo, non può di per sé comportare l’illegittimità costituzionale di un precetto normativo.
Non resta dunque che attendere se, e se si, quando, il Parlamento si attiverà per colmare codeste lacune attraverso validi strumenti normativi che rispondano a siffatto scopo.
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