L’azione disciplinare in ambito scolastico: dagli ultimi casi di incompetenza del dirigente, al corretto avvio del procedimento ed al perimetro del sindacato giurisdizionale, le ultime statuizioni dei giudici

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E’ interessante notare come facciano sempre più scalpore i casi mediatici in cui il dipendente pubblico sia raggiunto da un’azione disciplinare, in particolare, questo avviene sempre più di frequente nell’ambito scolastico. Si pensi agli ultimissimi episodi di attivazione di procedimenti disciplinari nei confronti dei tanti casi di assenteismo sul posto di lavoro da parte dei c.d. “furbetti del cartellino” di cui di tanto in tanto ancora si rivede l’immagine emblematica del dipendente che nell’ottobre del 2015 passava il suo badge nel marcatempo per la rilevazione delle presenze in un abbigliamento non propriamente da ufficio ma da camera da letto (vigile urbano del Comune di Sanremo che timbrava in ciabatte, canottiera e mutante per poi rientrare nel proprio alloggio da custode), ovvero alla maestra di Novara che nel febbraio del 2018 durante una manifestazione degli antifascisti contro un comizio di Casapound a Torino si rivolse alle forze dell’ordine urlando con rabbia e disprezzo frasi ingiuriose ed, in particolare quello che poi si vedeva nel relativo video, urlare in modo disumano “dovete morire”. Ma sono tanti i casi che si possono citare, in quanto sono quasi all’ordine del giorno, ciò dovuto anche all’impiego sempre più disinvolto e spregiudicato dei social network da parte di tutti: da ultimo in occasione della tragedia di soli pochi giorni fa (26 luglio 2019) in cui a Roma è stato accoltellato a morte un carabiniere durante lo svolgimento del proprio servizio ed in relazione a questo clamoroso e funesto episodio un’altra insegnante – anch’essa di Novara – pubblicava sul proprio profilo del diffusissimo social Facebook un post di commento dal seguente tenore:  “Uno di meno, e chiaramente con uno sguardo poco intelligente, non ne sentiremo la mancanza”, anche nei confronti d quest’ultima ci sono accertamenti disciplinari in corso che, molto verosimilmente, si concluderanno con un licenziamento.

Questo solo per richiamare gli ultimi recenti episodi, tutti o quasi sfociati in licenziamenti che hanno superato anche il sindacato giurisdizionale, proprio per la gravità delle condotte e, nel caso dei docenti, per il ruolo sociale ricoperto dai protagonisti (l’orientamento giurisprudenziale in merito è che “si è docenti anche fuori dal ristretto contesto scolasticononché per il clamor fori suscitato  con conseguente danno all’immagine della P.A.

Annullamenti delle sanzioni disciplinari della sospensione dal servizio senza retribuzione per incompetenza del dirigente scolastico ad irrogare la medesima

Però, a parte questi casi così eccezionali in cui l’azione disciplinare è giustificata nella sua immediatezza e nella proporzionalità della sanzione conclusiva adottata del licenziamento che viene, nella stragrande maggioranza delle volte[1], confermata dai Giudici ai quali i soggetti puniti con sanzioni espulsiva si rivolgono, altro destino invece è riservato alle sanzioni disciplinari che impegnano i navigati come i neo dirigenti scolastici.

Come è noto agli addetti ai lavori, difficilmente il soggetto sanzionato (anche con una semplice censura) riflette sull’errore commesso e si sottrae dall’impugnare la sanzione (o per il tramite di un proprio legale o di un associazione sindacale), che, il più delle volte per vizi procedurali, viene annullata dal Giudice. A parere di chi scrive, è molto istruttivo per chi nella pratica si deve misurare con questioni disciplinari, seguire non tanto i casi mediatici bensì gli esiti dei giudizi attivati per la declaratoria di illegittimità delle sanzioni, per così dire, di “ordinaria amministrazione” al fine di evitare errori e conoscere il “pensiero” della giurisprudenza.

Si ricorderà il filone di annullamento della sanzioni disciplinari della sospensione dell’insegnamento con privazione della retribuzione per i rispettivi giorni che, partito in sordina, è poi stato sposato non solo da molti Giudici del Lavoro ma anche da numerose Corti di Appello.

Infatti, i Giudici, dopo il famoso intervento riformatore intrapreso dal Ministro Brunetta con il D. Lgs. n. 150 del 2009, più volte hanno ritenuto di annullare la sanzione della sospensione dal servizio senza retribuzione per incompetenza del Dirigente scolastico ad irrogare la medesima, rientrando, invece, tale competenza in quella riservata all’UPD. Uno dei primi Tribunali a pronunciarsi in tal senso fu quello di Potenza, Sezione Civile – Giudice del Lavoro, con la sentenza n. 590/2013 con la quale passava un’interpretazione delle norme di legge e del contratto collettivo secondo la quale la competenza del dirigente  responsabile della struttura debba ritenersi limitata, nell’esercizio del potere disciplinare nei confronti del personale docente, solo alle infrazioni di minore gravità “per le quali è prevista l’irrogazione della sanzione del rimprovero verbale” (Art. 55-bis del citato D. Lgs. 150/09 – Forme e termini del procedimento disciplinare). Dunque non condividendo l’interpretazione adottata dal Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca con la circolare esplicativa n. 88/2010, si ricostruisce l’articolato normativo che disciplina il codice disciplinare del personale docente, circoscrivendo il potere disciplinare del dirigente scolastico nei confronti di tali dipendenti: “La fonte del potere disciplinare demandato al datore di lavoro va individuato nell’art. 2106 c.c. che sanziona l’inosservanza degli obblighi di diligenza e di fedeltà del lavoratore. Il primo dei limiti all’esercizio del potere disciplinare è costituito dal principio di legalità, in forza del quale le fattispecie cui si ricollegano conseguenze sanzionatorie devono essere codificate e le norme di riferimento devono essere portate a conoscenza dei lavoratori. Le ovvie conseguenze che discendono dall’assunto di cui innanzi sono: che il perimetro normativo entro il quale il datore di lavoro può esercitare il potere disciplinare è predeterminato e che i riferimenti normativi legittimanti devono essere chiari ed identificabili, in primis per il destinatario della sanzione. Dalla lettura della penultima premessa del provvedimento disciplinare del 23/12/2010 prot. U237 si evince che, la dirigente non parrebbe aver fatto applicazione, nella individuazione della sanzione, delle norme di riferimento che sono quelle di cui al Titolo I, Capo IV Parte III D. Lgs. 297/1994 (cfr. art. 91 del CCNL) ma nelle diverse norme di cui al D. Lgs. 165/2001, come modificate dal D. Lgs. 150/2009, ritenuto la stessa necessità della “adozione di interventi disciplinari più aggiornati … rispetto a quanto regolamentato dal D. Lgs. 297/94, art. 492 – comma 2”. D’altronde, la sanzione disposta non appare contemplata dal D. Lgs. 297/1994, mentre, invece, la stessa appare contemplata dall’art. 55 sexties del D. Lgs. 165/2001, nella modifica di cui al D. Lgs. 150/2009 che ricollega la “sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da tre giorni a tre mesi” all’ipotesi di condanna della Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi inerenti la prestazione lavorativa da parte del dipendente” (Trib. Potenza sentenza n. 590/2013; conformi: Trib. Torino sent. n. 1434/2013; Trib. Lodi sent. n. 252/2015; Trib. Pavia sent., n. 221/2016; Trib. Pavia sent. n. 85/2018).

In forza di questo orientamento sono state annullate moltissime sanzioni disciplinari inflitte dai dirigenti scolastici anche per fatti gravi ovvero per recidive delle medesime condotte disciplinarmente rilevanti. Si richiama da ultimo la sentenza n. 1160/2019 del 10 giugno 2019 della Corte di Appello di Milano che si è espressa in linea con le altre Corti di Appello (Corte di Appello di Torino sentenza n. 1079/13, la Corte di Appello di Bologna con sentenza n. 819/18, la Corte di Appello di Perugia con sentenza n. 145/18).

Ciò ha creato uno stallo nell’applicazione delle sanzioni disciplinari stante l’annullamento delle stesse, il contrasto interpretativo tra Amministrazione e Giudici, che ha visto raramente primeggiare le ragioni della prima[2], e sulla natura imperativa delle norme in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti. Si è quindi da più parti ravvisata non solo la necessità di un’armonizzazione funzionale della normativa in materia disciplinare affastellatasi nel tempo, ma soprattutto l’opportunità di un intervento del legislatore che è arrivato con la riforma Madia.

Infatti, tra le novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico impiego dalla riforma Madia (d.lgs. n.75 del 2017 e n.118 del 2017) viene introdotto all’art. 55 il comma 9-quater, con il quale attribuisce al dirigente scolastico la competenza all’irrogazione di sanzioni, maggiori del richiamo verbale e fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per dieci giorni[3].  Pertanto, per le sanzioni disciplinari della sospensione applicate dai DD. SS. dopo l’entrata in vigore delle norme di cui sopra, in base al principio generale dell’ordinamento giuridico secondo il quale gli atti procedimentali sono regolati dalle norme vigenti al momento in cui gli stessi sono adottati, vanno applicate ratione temporis  le disposizioni di cui al nuovo art. 55 bis del D. Lgs. 165/01 per cui sarà superato anche questo motivo di annullamento[4].

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Annullamenti delle sanzioni per altri vizi procedurali

Va detto che per chi segue la materia dell’esercizio dell’azione disciplinare non si finisce mai di imparare. Infatti, molte sono le insidie che si nascondono nella procedura da seguire e che molto spesso diventano cavilli per cercare di ottenere l’annullamento della sanzione innanzi al Giudice del Lavoro.

È risaputo che la fase più delicata del procedimento disciplinare è l’avvio dello stesso: immediatezza della contestazione di addebiti, che nel riportare i fatti concreti deve rivestire i caratteri della specificità, garanzia del contraddittorio, rispetto dei termini per la notifica della contestazione oltre che delle modalità per le quali la stessa si possa dire notificata in modo efficace al soggetto nei cui confronti si procede. È proprio su questo ultimo aspetto che di recente la Corte di legittimità si è pronunciata confermando le sentenze dei due precedenti gradi di giudizio che avevano dichiarato in primo grado (Tribunale di Milano) e confermato in secondo grado (Corte di Appello di Milano) l’illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione di dieci giorni dal servizio, irrogata da una società (Poste Italiane S.p.A.) ad un proprio dipendente “a causa dell’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro per un periodo di otto giorni”. Nel caso di specie il dipendente fu chiamato durante l’orario di lavoro dal proprio datore di lavoro per la consegna brevi manu ed in busta chiusa della contestazione di addebiti, il quale si rifiutò di riceverla[5].

Ebbene, i Giudici, hanno ritenuto che la notifica della contestazione non si sia legittimamente perfezionata in quanto “neppure si aprì la busta da consegnare al P., né si tentò, da parte dell’impiegato addetto alla consegna, di leggerne il contenuto; per la qual cosa, non si accertò quale fosse l’oggetto della comunicazione di cui il lavoratore era destinatario” (Corte di Cassazione, Sentenza 14 marzo 2019, n. 7306).

Dunque, nonostante le Corti adite erano a conoscenza del diverso e più funzionale principio di diritto enunciato dalla Corte di legittimità in tali casi, in base al quale “esiste l’obbligo del lavoratore subordinato di ricevere sul posto di lavoro e durante l’orario lavorativo comunicazioni, anche formali, da parte del datore di lavoro o di suoi delegati, in considerazione dello stretto vincolo contrattuale che lega le parti di detto rapporto, sicché il rifiuto del lavoratore, destinatario di un atto unilaterale recettizio, di riceverlo comporta che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, in quanto giunta ritualmente, ai sensi dell’art. 1335 c.c., a quello che, in quel momento, era l’indirizzo del destinatario stesso” (Tra tante:  Cass. sentenza 3.11.2008 n. 26390)[6], gli stessi aprono delle interessanti disquisizioni sulle modalità operative per notificare sul luogo di lavoro una contestazione di addebiti ai propri dipendenti: dunque la busta non deve essere più chiusa, o comunque deve essere prontamente aperta all’atto del rifiuto del dipendente di riceverla e il dirigente, o chi per lui, addetto alla consegna, con scatto repentino deve immediatamente leggerne il contenuto in modo da poter poi dimostrare che nella busta che si voleva consegnare vi fosse proprio la contestazione di addebiti e non solo, proprio quella contestazione di addebiti e non altre, magari rincorrendo per i locali dell’ufficio il dipendente che si rifiuta anche solo fermarsi ad ascoltare (SIC), augurandosi che non venga in mente a nessuno di trattenerlo con la forza!!

Per ovviare a tale inconveniente atteggiamento ostruzionistico da parte del dipendente, si consiglia semplicemente, oltre ad un pacato confronto con lo stesso ed il tentativo di lettura (come prospetta la Suprema Corte) alla presenza di due testimoni e di cui redigere verbale, sottoscritto e che nel caso la ricezione da parte del dipendente della relativa nota ovvero che lo stesso è stato reso edotto del contenuto della contestazione. Inoltre, laddove vi sia stato un tentativo di consegna a mano della contestazione ed un rifiuto del dipendente, si invii una raccomandata a/r all’indirizzo dello stesso, magari precisando che il cennato tentativo brevi manu non si è concluso per rifiuto illegittimo del dipendente.

Tale caratteristico arresto giurisprudenziale si conclude con la conferma anche dell’apprezzamento della Corte di secondo grado circa la proporzionalità della sanzione comminata dalla Società al dipendente, ritenendola non adeguata in quanto la stessa “ha errato anche nel calcolo dei giorni di assenza ingiustificata del lavoratore dal servizio, perché non ha considerato che tra gli otto giorni contestati erano compresi il giorno di Pasqua ed il lunedì in Albis, per i quali non doveva richiedersi l’autorizzazione alle ferie, trattandosi di giorni festivi”,  e quindi la sanzione è stata “semplicemente” annullata e non si è minimamente pensato di provvedere a rimodulare la sanzione stessa in quanto il potere del Giudice non si può spingere fino a questo punto senza intaccare le prerogative del datore di lavoro.

Si sottolinea volutamente questo aspetto per richiamare, da ultimo il caso, invece, in cui il Tribunale di Como accogliendo la domanda di annullamento della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per cinque giorni, ha ritenuto la stessa non proporzionale rispetto ai fatti contestati dal datore di lavoro e ha anche rimodulato la sospensione in soli due giorni[7]. Sentenza di primo grado che è stata poi riformata dalla Corte di Appello di Milano con sentenza n. 1122/2013 depositata il 17/04/2014 (R.G.N. 296/2010) con la quale, richiamando un orientamento della Suprema Corte aveva rammentato che esula dai poteri del giudice ridurre la sanzione ritenuta sproporzionata che dunque può solo essere annullata. Tale principio è stato nuovamente confermato dalla Corte di legittimità con la sentenza dell’11 febbraio 2019, n. 3896 ricordando che “il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell’impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso. Ne consegue che è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, esercitarlo anche solo procedendo ad una rideterminazione della stessa riducendone la misura (Cass. 16/08/2004 n. 15932, 21/05/2002 n. 7462 e 16/11/2000 n. 14841). Una simile possibilità, continuano gli Ermellini, è fattibile “Solo nel caso in cui l’imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista, perciò, soltanto in una riconduzione a tale limite, ovvero nel caso in cui sia lo stesso datore di lavoro, costituendosi nel giudizio di annullamento della sanzione, a chiederne la riduzione, è consentito al giudice, in accoglimento della domanda del lavoratore, applicare una sanzione minore poichè in tal modo non è sottratta autonomia all’imprenditore e si realizza l’economia di un nuovo ed eventuale giudizio valutativo, avente ad oggetto la sanzione medesima (cfr. Cass. 13/04/2007 n. 8910)”.

Dunque vige un divieto di superare il perimetro del sindacato giurisdizionale, anche se va rilevato che nel caso appena citato – fermo restando che non rientrava in nessuna delle ipotesi in cui è possibile un rideterminazione della sanzione inflitta al lavoratore – era stata propria la Società nel replicare alla domanda riconvenzionale dei lavoratori, che costituendosi nel giudizio avevano chiesto che fosse accertata l’illegittimità delle sanzioni irrogate, aveva rimesso al giudice, in maniera del tutto generica,  la valutazione di “procedere ad una diversa e congrua” sanzione, rispetto ai fatti oggetto di contestazione, senza precisare affatto quale, secondo la sua valutazione sarebbe stata la sanzione irrogabile in via alternativa. Dunque, è stata la parte convenuta in tal modo che ha voluto demandare al Giudice non solo una valutazione discrezionale di proporzionalità tra condotta e sanzione da irrogare ma anche, in concreto, la scelta della misura disciplinare da adottare. La Società convenuta, quindi, ha tratto in errore il Giudice, sollecitando  l’esercizio del potere disciplinare che invece è precluso allo stesso, in quanto di sua esclusiva spettanza.

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Note

[1] Giusto per citare il caso di qualche anno fa, nell’agosto del 2016, di una docente di un istituto superiore di Venezia che scrisse su Facebook: “bisogna eliminare anche i bambini dei musulmani tanto sono tutti futuri delinquenti” e che a proposito dei naufragi dei migranti si augurò “che affoghino tutti… che non se ne salvi nessuno”. Ebbene, la professoressa venne prima licenziata, per poi vedersi trasformata in sede civile la sanzione in sei mesi di sospensione ed il demansionamento in assistente amministrativo a seguito di un’intesa col Ministero. La docente è tornata al lavoro, anche se non nelle vesti di insegnante ma di impiegata presso l’Ufficio scolastico regionale del Veneto. In sede penale, la medesima docente è stata condannata nel novembre del 2018 a un anno di carcere, pena sospesa, per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, anche se il procuratore aggiunto, aveva chiesto 15 mesi di reclusione perché frasi del genere, spiccatamente discriminatorie, erano chiara espressione di un “pensiero radicato”.

[2] Il Tribunale di Roma Sezione Lavoro, con sentenza n. 8387/2018, ha confermato la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento di due giorni con privazione della retribuzione, irrogata dal dirigente scolastico il 3 maggio 2017 a un docente. Secondo il Giudice, infatti,  “prive di fondamento risultano le lamentele della parte ricorrente in ordine alla competenza del DS di erogare siffatto tipo di sanzione, atteso che la circolare n. 88 del Miur, contenente ‘Indicazioni e istruzioni per l’applicazione al personale della scuola delle norme in materia disciplinare introdotte dal decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150’, prevede espressamente al punto B) che per le infrazioni di minore gravità, punite con sanzioni superiori al rimprovero verbale e inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, l’autorità disciplinare competente è individuata nel responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cui il dipendente lavora anche se in posizione di comando o fuori ruolo”.

[3] Comma 9-quater: “Per il personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, il procedimento disciplinare per le infrazioni per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per dieci giorni è di competenza del responsabile della struttura in possesso di qualifica dirigenziale e si svolge secondo le disposizioni del presente articolo. Quando il responsabile della struttura non ha qualifica dirigenziale o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi di quelle indicate nel primo periodo, il procedimento disciplinare si svolge dinanzi all’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari”.

[4] Si segnala al riguardo una circolare dell’USR Molise:  http://www.istruzionemolise.it/images/Circolari/CIRCOLARE_PROCEDIMENTI_DISCIPLINARI.pdf

[5] Altre modalità per la notifica della contestazione oltre alla consegna a mano provata con firma di ricevuta o per testi, possono essere: con lettera raccomandata o con PEC laddove il soggetto destinatario ne sia in possesso e l’abbia comunicata al datore di lavoro.

[6] Interessante a tal proposito è la sentenza della Cassazione del 5.6.2001 n. 7620, la quale in un caso opposto ha, coerentemente, ritenuto legittimo il rifiuto del lavoratore di ricevere la lettera di licenziamento sulla pubblica strada.

[7] Il caso riguardava alcuni dipendenti di una società tranviaria con la qualifica di operatore di esercizio del c.c.n.l. autoferrotranvieri e mansioni di autista di linea ai quali era stata irrogata, ai sensi dell’articolo 42 del c.c.n.l. autoferrotranvieri che si applica nel caso di “volontario inadempimento dei doveri d’ufficio o per negligenza la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell’azienda”. Infatti, la Società imputava ai lavoratori di non aver effettuato volontariamente, in una giornata lavorativa, sul mezzo condotto, il servizio di controllo e strappo dei biglietti causando un danno all’azienda defraudata dei suoi averi.

Dott. Silvio Garofalo Quinzone

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