Con l’avviso orale il questore non può vietare il possesso o l’utilizzo di telefoni cellulari

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Pertanto, per effetto di questa pronuncia, il questore, nel procedere all’avviso orale a norma dell’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 159/2011,  non può più vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo di telefoni cellulari.
>>>Corte costituzionale -sentenza n.2 del 20-12-2022<<<

Indice

1. La questione

Il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 15 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 4, e 76 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 13), nella parte in cui prevedono che, con l’avviso orale, il questore possa imporre a coloro che sono stati definitivamente condannati per delitti non colposi il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente» e, dunque, anche i telefoni cellulari.
In particolare, il giudice a quo riferiva di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di una persona accusata del reato di cui all’art. 76, comma 2, cod. antimafia, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, nonostante nei suoi confronti fosse stato emesso avviso orale con imposizione dei divieti previsti dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia, tra i quali, appunto, quello «di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente».
Orbene, a fronte di ciò, il Tribunale di Sassari si soffermava innanzitutto sul significato della locuzione «apparato di comunicazione radiotrasmittente».
Premesso che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, coinciderebbe «nella sostanza precettiva» con l’abrogato art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), a suo giudizio, tale locuzione sarebbe stata introdotta nell’ordinamento in un’epoca in cui gli apparecchi radiotrasmittenti si connotavano quali strumenti «di tipo eccezionale e militare (walkie talkie)», il cui utilizzo, «raro» e «inusuale», era allora tipicamente volto alla commissione di reati, tenuto conto altresì del fatto che una tale caratterizzazione, del resto, ancora oggi accomunerebbe altre categorie di dispositivi che possono essere oggetto del divieto in esame, tra cui i «radar e visori notturni» o i «mezzi di trasporto blindati», la cui finalità d’uso sarebbe rimasta immutata nel tempo.
Chiarito ciò, nell’ordinanza di rimessione era quindi sottolineato come l’utilizzo del telefono cellulare, il cui funzionamento è basato sulla tecnologia della trasmissione di onde radio, sia ormai diventato talmente comune da soppiantare la comunicazione telefonica via cavo: il potere inibitorio del questore, pertanto, avrebbe acquisito col tempo la capacità di incidere su mezzi di comunicazione del tutto ordinari.
Ciò posto, il rimettente muoveva dal presupposto che il telefono cellulare debba essere incluso nella nozione di «apparato di comunicazione radiotrasmittente», di cui alla disposizione censurata, condividendo l’impostazione abbracciata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, anche di recente, avrebbe interpretato in questo senso la formula normativa (era citata: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551), evidenziandosi, a questo proposito, che una diversa interpretazione non sarebbe consentita dal dato testuale visto che il telefono cellulare costituirebbe «tecnologicamente un apparato radio trasmittente», operando grazie al collegamento via radio con stazioni capaci di ricevere e trasmettere onde elettromagnetiche.
Ebbene, su queste premesse, il giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui «consente al solo questore, e non all’autorità giudiziaria, di inibire qualunque mezzo di comunicazione radiotrasmittente, e quindi l’uso del telefono cellulare».
Nel dettaglio, in punto di rilevanza, il rimettente osservava che si contestava nel caso di specie la violazione di un provvedimento di divieto dettagliatamente motivato, con riguardo sia ai numerosi reati contro il patrimonio commessi dall’imputato, sia alla finalità della prescrizione, sicché non sarebbe stato possibile, attraverso la disapplicazione di tale atto, giungere ad una pronuncia di proscioglimento.
L’esito del giudizio, quindi, per il giudice rimettente, sarebbe stato evidentemente condizionato dalla soluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, che attribuisce al questore il suddetto potere inibitorio.
Precisato ciò, sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo sospettava, in primo luogo, il contrasto con l’art. 15 Cost., che consente limitazioni alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria».
In quest’ottica, la facoltà di impugnare il provvedimento del questore davanti a un’autorità giurisdizionale, prevista dall’art. 3, comma 6, cod. antimafia, sarebbe, per il giudice a quo, un rimedio insufficiente perché, a suo avviso, l’art. 15 Cost. imporrebbe l’intervento giurisdizionale nel «momento genetico» della limitazione della libertà di comunicazione e non in un momento successivo, mentre l’avviso orale è «immediatamente efficace, anche in pendenza dei termini di impugnazione».
A sostegno della dedotta violazione dell’art. 15 Cost., inoltre, era altresì evidenziato che, oggi, la libertà di comunicazione, tra persone che si trovino a distanza, non potrebbe prescindere dal ricorso ad apparecchi radiotrasmittenti, tra cui rientrerebbero non solo i telefoni cellulari, ma anche i tablet, gli smartwatch e gli «apparati pc», nonché la comunicazione domotica, che pure funziona via radio.
Detto questo, il Tribunale rimettente poneva poi in rilievo come l’inibizione all’utilizzo del telefono cellulare comporterebbe un sacrificio del diritto di comunicare che, per il legislatore del 1956, sarebbe stato inimmaginabile tenuto anche conto dell’incidenza dell’emergenza sanitaria da COVID-19, essendo a tale eccezionale circostanza conseguite specifiche misure che, limitando i contatti sociali, avrebbero di fatto reso possibili esclusivamente comunicazioni a distanza, le quali «ormai avvengono solo attraverso apparati radiotrasmittenti».
Da ultimo, l’inibizione oggetto di censura ostacolerebbe la fruibilità di servizi sanitari, bancari, assicurativi, previdenziali, professionali, di domotica, di smart working, cui l’utente accede oggi sempre più spesso con apparati radiotrasmittenti, venendo così limitate, a parere del giudice a quo, le garanzie del controllo giudiziario in riferimento all’esercizio di diritti ulteriori rispetto alla libertà di comunicazione.
Per di più. sempre secondo il Tribunale di Sassari, la disposizione censurata sarebbe altresì contrastante con l’art. 3 Cost., individuandosi a tal fine, come tertium comparationis, l’art. 4 cod. antimafia il quale, dettato in tema di misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, richiede l’intervento di quest’ultima addirittura per limitazioni che, secondo il giudice rimettente, avrebbero sulle relazioni sociali del prevenuto un impatto meno gravoso della inibizione all’uso del telefono cellulare, come ad esempio il divieto di incontrare «alcune persone», nonostante si fondino su presupposti di pericolosità più gravi o di uguale livello.
Il contrasto con il parametro evocato, viceversa, per l’autorità giudicante sarda, potrebbe essere escluso solo se fosse previsto un intervento del giudice che consenta di modulare la limitazione della libertà di comunicazione in base alle esigenze emerse in contraddittorio, ad esempio, vietando l’uso del telefono cellulare soltanto in alcuni orari, nei confronti di alcuni soggetti o utenze, in modo da «non eccedere così platealmente il fine della norma, che finisce [col] sacrificare anticipatamente alla commissione dei reati diritti costituzionalmente garantiti, primo tra tutti quello di comunicare».
In definitiva, il Tribunale di Sassari imputava all’art. 3, comma 4, cod. antimafia la violazione degli artt. 3 e 15 Cost., in ragione della «assenza del vaglio giurisdizionale della limitazione ad opera del solo Questore all’uso degli apparati radiotrasmittenti» e per via dell’irragionevolezza di tale norma, posta a raffronto «con il procedimento applicativo di cui al susseguente articolo 4 della [legge n.] 159 del 2011, e alle prescrizioni che possono ivi essere imposte con il controllo giurisdizionale».
A sua volta anche la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sollevava anch’essa questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale – possa vietare, senza limiti di tempo, di possedere o utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche i telefoni cellulari, nonché l’accesso ad internet, per contrasto con gli artt. 3, 15, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In fatto, la Corte rimettente riferiva di essere investita dell’impugnazione del rigetto dell’opposizione avverso l’avviso orale rafforzato del questore, con cui era stato inibito al prevenuto il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, «ricomprendendo tra gli strumenti vietati anche i telefoni cellulari», nonché di fare accesso alla rete internet.
Riferiva oltre tutto il rimettente che, nell’atto di impugnazione, la difesa aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, per la mancata previsione di una durata minima e massima della misura di prevenzione oggetto dell’istanza di opposizione.
Orbene, a fronte di ciò, il giudice a quo escludeva, in primo luogo, la percorribilità di un’interpretazione conforme a Costituzione la quale implicherebbe, al fine di colmare la lacuna denunciata, lo svolgimento di un non consentito «ruolo di supplenza para-normativa».
In punto di rilevanza, invece, l’autorità giudiziaria rimettente sosteneva che la decisione in ordine all’impugnazione sarebbe stata condizionata alla previa soluzione delle questioni di legittimità costituzionale relative alla carenza di limiti temporali del divieto oggetto del giudizio a quo in quanto «il ricorso ha ad oggetto i provvedimenti giurisdizionali riguardanti la misura di prevenzione dell’avviso orale emesso dal questore», aggravato dal divieto di possedere ed utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente.
Quanto poi alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Corte di Cassazione rimettente illustrava brevemente l’evoluzione normativa che ha portato all’attuale disciplina, ricordando che i divieti accessori all’avviso orale del questore sono stati introdotti nell’ordinamento con la legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), successivamente estesi ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e, da ultimo, modificati dal codice antimafia, nonché altresì ricordava che, quando la legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali) ha introdotto nell’ordinamento, in sostituzione della diffida, l’avviso orale del questore, ne aveva stabilito un termine di durata (da sei mesi a tre anni).
Ebbene, sulla scorta di questa premessa, il giudice a quo non ignorava come la Corte costituzionale, con ordinanza n. 499 del 1987, avesse ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento alla mancata previsione di una durata minima e massima della diffida, sulla base della considerazione che, costituendo essa una mera ingiunzione a cambiare condotta, risultava priva di effetti limitativi per le libertà individuali e, nel solco di tale pronuncia, a parere del rimettente, nel 2011 il legislatore, con il codice antimafia, avrebbe legittimamente eliminato la durata dell’avviso orale semplice, giacché tale misura di prevenzione consisterebbe nel mero invito a tenere una condotta conforme alla legge, non venendo nemmeno in questo caso compressa alcuna libertà costituzionale mentre l’autorità giudicante rimettente sottolineava che, all’opposto, l’avviso orale rafforzato dai divieti di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, comporterebbe significative restrizioni dei diritti della persona.
I vizi che affliggerebbero la disposizione censurata, quindi, non deriverebbero dalla previsione di divieti idonei, in astratto, ad incidere su libertà fondamentali dell’individuo, bensì, da un lato, dall’attribuzione all’autorità amministrativa della competenza ad adottare le misure inibitorie, e, dall’altro, dall’assenza di un termine di durata dei suddetti provvedimenti inibitori, fermo restando che la previsione di una pena per la trasgressione all’ordine aggravato del questore (art. 76, comma 2, cod. antimafia), allo stesso tempo, collocherebbe «una sorta di ‘spada di Damocle’» permanente sul prevenuto.
Ciò posto, il giudice a quo riteneva necessario precisare che il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma posta a tutela della libertà di comunicazione, nonché dell’art. 21 Cost., quale norma che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni», fermo restando che la tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale» atteso che lo Stato sarebbe investito, in questo senso, del compito di intervenire anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost. e, quindi, l’art. 15 Cost. appresterebbe tutele più stringenti di quelle degli artt. 13 e 14 Cost., vietando che siano attribuiti poteri di intervento in via d’urgenza all’autorità di pubblica sicurezza e, inoltre, richiedendo che le restrizioni debbano avvenire «con le garanzie adottate dalla legge», e, con questa formulazione, il parametro costituzionale evocato richiederebbe, in particolare, che la legge disciplini non solo i casi e i modi che legittimano compressioni della libertà di comunicazione, ma anche «le garanzie tecniche e giuridiche idonee a limitare il sacrificio della libertà fondamentale».
Tal che se ne faceva conseguire come non sarebbero rispettate, né la riserva di giurisdizione, per cui la libertà di comunicazione può tollerare restrizioni solo in presenza di una previa autorizzazione, motivata, dell’autorità giudiziaria, né la riserva di legge, avendo il legislatore omesso di indicare «“le garanzie” legate alla predeterminazione della durata, massima e minima, del provvedimento limitativo».
Infine, essendo la trasgressione del divieto del questore punita in base all’art. 76 cod. antimafia, per la Suprema Corte, tale quadro normativo non genererebbe solo un sacrificio, privo di termine, di una libertà costituzionale fondamentale, ma sottoporrebbe il prevenuto anche al rischio, illimitato nel tempo, della sanzione penale per violazione del divieto.
Oltre a ciò, sempre ad avviso degli Ermellini, sarebbe per di più violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.
Per il rimettente, invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe posto in evidenza l’importanza dell’accesso alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, in quanto la libertà di espressione ricomprenderebbe anche il mezzo di diffusione del pensiero (viene citata, tra le altre, Corte EDU, sentenza 9 febbraio 2021, Ramanaz Demir contro Turchia), tenuto conto altresì del fatto che l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprenderebbe certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica (sono citate, tra le altre, Corte EDU, grande camera, sentenze 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania e 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito).
Orbene, alla luce di tali considerazioni, il giudice a quo sosteneva che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare, pur essendo volto a perseguire uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati», non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale inidonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo (viene citata Corte EDU, sentenza 26 aprile 1979, Sunday Times contro Regno Unito), a causa della mancata previsione della durata della misura.
Chiarito ciò, la Corte rimettente passava da ultimo ad illustrare unitariamente il dubbio di legittimità costituzionale posto in riferimento all’art. 3 Cost., nonché in riferimento alla «dimensione convenzionale» del principio di proporzione: la lesione della libertà di comunicazione, in assenza di una durata, sarebbe sproporzionata e darebbe vita ad una interferenza dell’autorità pubblica non necessaria in uno Stato democratico.
Più specificamente rispetto alla CEDU, era sottolineato che la possibilità, prevista dall’art. 3, comma 3, cod. antimafia, di chiedere la revoca dell’avviso orale (semplice o aggravato) al questore, non rappresenterebbe che una «facoltà rimessa al destinatario della misura, che tuttavia non arricchisce la ‘base legale’ della limitazione mediante preventivo riconoscimento legislativo dei termini di durata, rimettendo all’autorità amministrativa la valutazione dell’esercizio del relativo potere (di revoca)».

Sul tema leggi anche: L’avviso orale del questore contenente prescrizioni e divieti ex art. 3, comma 4, d. Lgs. N. 159/2011: presupposti, limiti e tutela giurisdizionale del soggetto colpito

2. La soluzione adottata dalla Cassazione

La Corte costituzionale – una volta fatto presente che la premessa interpretativa, da cui muovevano ambedue le ordinanze di rimessione, era fedele alla costante lettura fornita dalla descritta giurisprudenza di legittimità che costituisce ormai diritto vivente e ciò, a suo avviso, fugava ogni dubbio quanto all’ammissibilità delle questioni sollevate, dovendo perciò essere decise assumendo che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui si riferisce a «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», consenta al questore di vietare il possesso e l’uso anche di telefoni cellulari – riteneva come le questione prospettate fossero fondate per violazione dell’art. 15 Cost..
In particolare, i giudici di legittimità costituzionale pervenivano a siffatta conclusione, evidenziando prima di tutto che la Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata, per poi sottolineare come, al tempo stesso, in termini generali, le regole attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale ora in esame: anzi, sempre in termini generali, per la Corte, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare.
Pur tuttavia, secondo il Giudice delle leggi, esiste tuttavia un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione e ciò esattamente accade dal momento che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia consente di fare al questore, oltretutto in una materia, quella delle misure di prevenzione, di particolare delicatezza, perché finalizzata a consentire forme di controllo, per il futuro, sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto, ma non deputate alla punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato (di recente, sentenza n. 180 del 2022).
Le esigenze di prevenzione, dunque, ben possono giustificare incisive misure restrittive, quali quelle che il questore può assumere sulla base dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ma non possono che assoggettarsi all’evocato imperativo costituzionale, essendo difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare, «spazio vitale che circonda la persona» (sentenze n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), in quanto attinente alla sua dimensione sociale e relazionale atteso che, da questo punto di vista, il telefono cellulare ha assunto un ruolo non paragonabile a quello degli altri strumenti evocati dai rimettenti mentre rivelerebbe, invece, un senso d’irrealtà l’obiezione per cui la libertà di comunicare, privata del telefono mobile, ben potrebbe ancora oggi essere soddisfatta attraverso mezzi diversi, come gli apparati di telefonia fissa.
Orbene, a questo punto della disamina, la Consulta richiamava ancora una volta l’art. 15 Cost. che definisce la libertà di comunicazione come inviolabile, evidenziando però, in questo passaggio argomentativo, come la Corte costituzionale abbia stabilito che tale qualificazione implica che il contenuto essenziale della libertà non può subire restrizioni, se non in ragione della necessità di soddisfare un interesse pubblico costituzionalmente rilevante, «sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria» (ancora sentenza n. 366 del 1991; nello stesso senso, sentenza n. 81 del 1993).
Difatti, se è vero che le esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare misure restrittive, e queste possono incidere anche su diritti fondamentali, è altrettanto vero, però, che, proprio ove ciò accada, le garanzie costituzionali reclamano osservanza mentre, nel caso della disposizione censurata, per il Giudice delle leggi, ciò non avviene poiché la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria (per un’analoga fattispecie, pure oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, sentenza n. 100 del 1968).
Orbene, a fronte di tale vulnus, si faceva presente, nella pronuncia qui in commento, come la Corte costituzionale, sin dal primo anno della propria attività, non abbia esitato a dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge contenenti misure di prevenzione, assunte su decisione dell’autorità amministrativa, che avevano effetti restrittivi sulla libertà personale, in violazione della riserva di giurisdizione costituzionalmente prescritta (sentenza n. 2 del 1956, sull’ordine di rimpatrio con traduzione ordinata dal questore; sentenza n. 11 del 1956, in tema di cosiddetta ammonizione del questore, a causa di una sorta di «degradazione giuridica» cui era sottoposto l’individuo in virtù del provvedimento dell’autorità di polizia; entrambe le pronunce sono riprese, di recente, dalla sentenza n. 24 del 2019) rilevandosi al contempo che, sempre nella giurisprudenza costituzionale, è già stato chiarito il significato sostanziale, e non puramente formale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione dato che il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa (sentenze n. 113 del 1975 e n. 68 del 1964; si richiamavano, inoltre, le sentenze n. 177 del 1980 e n. 53 del 1968).
Analogamente a quanto la Consulta aveva ha stabilito con riguardo a misure di prevenzione restrittive della libertà personale, si affermava dunque che anche la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è «necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sentenza n. 11 del 1956), trattandosi di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro rendendolo meramente illusorio» (sentenza n. 177 del 1980).
Di conseguenza, come accade nell’ambito delle stesse misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (ai sensi, ad esempio, dell’art. 5, comma 1, cod. antimafia), ben può spettare anche al questore la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma, secondo la Consulta, a costui non compete di adottare il provvedimento poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione.
L’art. 3, comma 4, cod. antimafia era dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo, fermo restando che la rimozione del potere di decisione spettante al questore comportava l’assorbimento delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate: sia quella inerente alla presunta lesione del diritto di accesso alla rete, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU; sia quelle concernenti, da un lato, l’asserito deteriore trattamento riservato ai destinatari del divieto di possedere e usare telefoni cellulari rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ex art. 4 cod. antimafia, e dall’altro, la circostanza che la disposizione censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata.

3. Conclusioni

Fermo restando che, come è noto, l’art. 3, co. 4, d.lgs., 6/09/2011, n. 159 dispone che, con “l’avviso orale il questore, quando ricorrono le condizioni di cui al comma 3[1], può imporre alle persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, armi a modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i giocattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti, in libera vendita, in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, nonché sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionarsi delle fiamme, nonché programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi”, con la decisione in esame, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo tale norma di legge nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo.
Pertanto, per effetto di questa pronuncia, il questore, nel procedere all’avviso orale a norma dell’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 159/2011[2],  non può più vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo di telefoni cellulari.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, in quanto emesso a seguito di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico, non può che essere che positivo.

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  1. [1]

    Ai sensi del quale: “La persona alla quale è stato fatto l’avviso può in qualsiasi momento chiederne la revoca al questore che provvede nei sessanta giorni successivi. Decorso detto termine senza che il questore abbia provveduto, la richiesta si intende accettata. Entro sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di rigetto è ammesso ricorso gerarchico al prefetto”.

  2. [2]

    Secondo cui: “Il questore nella cui provincia la persona dimora può avvisare oralmente i soggetti di cui all’articolo 1 che esistono indizi a loro carico, indicando i motivi che li giustificano”.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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