Violenza nel Metaverso. Quali conseguenze per le azioni virtuali? Quale diritto si applica?

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La notizia è di dicembre, ma ha iniziato a rimbalzare nel web solo qualche giorno fa. La ricercatrice americana Nina Jane Patel, specializzata nello sviluppo di esperienze virtuali per ragazzi da 8 a 16 anni, entrata nel Metaverso per ragioni di lavoro, ha raccontato di aver subito violenza di gruppo nel mondo virtuale. O meglio, non l’ha subita lei, certo che no, visto che il Metaverso è una realtà, per l’appunto, virtuale, ma il suo avatar. Appena entrata nel mondo Horizon Worlds, la piattaforma Meta per l’ingresso nella realtà virtuale con gli speciali occhiali 3D creati allo scopo, l’avatar della dottoressa Patel è stato aggredito da un gruppo di avatar maschili che hanno compiuto violenza fisica nei confronti del suo avatar.

Uscita dal mondo parallelo con una comprensibile dose di sgomento, la ricercatrice ha denunciato l’episodio, divenendo vittima, come da copione, dell’ormai noto siparietto che tende con grande disinvoltura a spostare l’oggetto della colpa dall’aggressore all’aggredito, in questo caso aumentato dal fatto che la violenza è avvenuta nel mondo virtuale, non in quello reale.

A essere violentata è stata l’avatar della Patel non la Patel stessa, dunque insomma, di che cos stiamo parlando?

Immediata la reazione di Facebook, alias Meta, che ha introdotto nell’universo creato a immagine e somiglianza di Mark Zuckerberg una zona di sicurezza, una sorta di bolla all’interno della quale chiunque si senta minacciato nel Metaverso può rintanarsi per essere protetto. L’equivalente 3.0 del mai abbastanza lodato leit motivse hai paura stai a casa e comunque nel dubbio vestiti in maniera meno provocatoria”.

Avanguardia pura.

Ora, al di là dei tratti fortemente misogini che il fondatore di Facebook ha dimostrato, nemmeno tanto velatamente di avere nel corso degli anni (non dimentichiamoci che “Faccialibro” è nato in una stanzetta da nerd di Harvard, dove Zuck e i suoi amici raccoglievano le facce delle ragazze in un annuario virtuale, il facebook, appunto, per dare loro i voti) questa vicenda ha alcuni tratti che dovrebbero farci riflettere.

La prima cosa che mi ha colpito è la specializzazione della dottoressa Patel, che crea e sviluppa esperienze virtuali per ragazzi da 8 a 16 anni. Otto anni.

A otto anni, lo ricordo, un bambino fa terza elementare, sta imparando le tabelline, l’uso corretto dell’h e la differenza tra E con l’accento e senza accento. A nove inizia l’analisi grammaticale e impara a conoscere i tempi dei verbi, a dieci non lo so di preciso, perché non sono una maestra delle elementari, ma quello che so è che fa le elementari, appunto, che ora si chiamano primarie, ed è ben difficile, soprattutto se vive in una grande città, che venga lasciato dai genitori a scorrazzare libero per il mondo. Non nel mondo reale, ma evidentemente in quello virtuale sì, giacché per la solita legge della domanda e dell’offerta, se c’è qualcuno che fa ricerca per creare esperienze virtuali dedicate a bambini da 8 a 16 anni (otto. Terza elementare), vuol dire che esiste mercato. Nel ricordare che in Italia l’età minima per esprimere il proprio consenso digitale valido, cioè per stare sui social liberamente, è di 14 anni (limite di età abbassato rispetto al GDPR, che lo aveva fissato a 16), c’è da chiedersi quali saranno le avventure che bambini di 8 anni potranno vivere nel mondo virtuale.

Il secondo aspetto che mi ha lasciato perplessa è l’ondivago sentimento degli addetti ai lavori, che da un lato hanno progettato e sviluppato il Metaverso per essere un’esperienza a tutti gli effetti il più possibile vicina alla realtà, con sensazioni ed emozioni che dovrebbero ricalcare in tutto e per tutto quelle reali. Ma se così è veramente, allora minimizzare quanto è accaduto alla dottoressa Patel non è solo frutto di odiosa misoginia, ma è maleodorante mala fede, dal momento che delle due è l’una: o le esperienze Meta sono uguali a quelle reali, ed allora la Patel è stata a tutti gli effetti violentata, oppure non lo sono, e allora la rivoluzione di Zuckerberg non è poi così rivoluzionaria.

Infine, una riflessione più prettamente giuridica. Chi si occuperà di fare rispettare le leggi, nel Metaverso? Quali saranno le conseguenze delle nostre azioni, quale diritto si applicherà al mondo virtuale? Il Metaverso rischia di diventare l’ultimo (per ora) gradino di un’escalation che ci sta portando verso la digicrazia, il governo del digitale sul reale. Ciò che nel mondo reale è vietato e punito diventa lecito nel web (pensiamo al bullismo, che nella sua accezione cyber ha raggiunto livelli esponenziali, o al fenomeno dell’hate speech, odio razziale, incitamento all’odio), ed ancor più lo sarà nel mondo virtuale, dove si potrà dare sfogo a tutti gli istinti primordiali umani. Ma se per frenare il fenomeno si invoca l’intervento dell’azienda che gestisce la piattaforma, invece di quello dell’Autorità Giudiziaria e del Legislatore, a quale forma di crazia stiamo andando incontro?

Socialcrazia? Metacrazia?

In ogni caso, a mio parere, un suicidio annunciato, e non solo per l’orrenda cacofonia a cui saremmo sottoposti quotidianamente.

Sarà vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. E ai social l’onere del processo.

Avv. Luisa Di Giacomo

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