Violazione della direttiva relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: la CGUE condanna l’Italia

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(sentenza del 28 gennaio 2020, causa C-122/18)

Dott.ssa Lorenza Pedullà

 

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiamata a pronunciarsi sul ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione Europea contro lo Stato italiano, ha condannato quest’ultimo, con sentenza del 28 gennaio 2020, causa C-122/18, per inosservanza degli obblighi su di esso incombenti in forza della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ed in particolare per la inosservanza dei termini di pagamento previsti dall’art. 4, par. 3 e 4 della predetta direttiva relativamente alle transazioni commerciali tra imprese e pubbliche amministrazioni.

Al fine di poter meglio apprezzare la portata della pronuncia in esame, si rende necessario premettere una sintetica trattazione sulla procedura di infrazione avanti alla Corte di Giustizia, per poi procedere ad analizzare la disciplina in tema di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, sino ad esaminare la pronuncia della Corte di Giustizia, muovendo dalla vicenda processuale da cui la stessa ha tratto origine.

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SOMMARIO: 1. Procedura di infrazione avanti alla Corte di Giustizia; 2. La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: d.lgs. 231/2002, alla luce della direttiva 2011/7/UE; 3. Termini di pagamento; 4. Risarcimento dei costi di recupero; 5. Nullità di protezione delle clausole contrattuali gravemente inique; 6. La vicenda; 7. Argomentazioni della Commissione e della Repubblica Italiana; 8. La decisione della Corte di Giustizia.

 

Procedura di infrazione avanti alla Corte di Giustizia

Tra i ricorsi che possono essere avanzati avanti alla Corte di Giustizia dell’UE, quello per infrazione è – purtroppo – uno dei più ricorrenti con cui lo Stato Italiano è stato più volte convenuto avanti al giudice europeo.

Sinteticamente, il ricorso per infrazione (o per inadempimento) concerne la presunta violazione da parte di uno Stato membro dell’UE di obblighi derivanti dai Trattati o da un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione Europea nei settori di competenza.

La procedura di infrazione consta tipicamente di due fasi (precontenziosa ed eventuale contenziosa) e può essere promossa dalla Commissione ovvero da ciascun Stato membro, con diversa regolamentazione della fase preliminare a seconda del soggetto che assuma l’iniziativa (artt. 258 e 259 TFUE).

Nella maggioranza dei casi l’iniziativa è invero assunta dalla Commissione, evocativamente definita quale “custode dei trattati dell’Unione europea[1], che, una volta accertato l’inadempimento da parte di uno Stato membro di un obbligo imposto dal diritto dell’UE, trasmette una lettera di messa in mora o di contestazione, concedendo allo Stato un termine pari a due mesi entro cui presentare le proprie eventuali osservazioni relativamente agli addebiti censurati.

Laddove lo Stato interessato non risponda nel termine indicato ovvero non fornisca chiarimenti soddisfacenti, la Commissione adotta un parere motivato con cui invita formalmente lo Stato ad adempiere entro un nuovo termine, con l’avvertenza che, in caso di mancata conformazione, sarà avviata la fase contenziosa avanti alla Corte di giustizia, con la proposizione del ricorso per infrazione.

La fase contenziosa è destinata a concludersi, in caso di accoglimento del ricorso, con una sentenza di mero accertamento, che si limita cioè a riconoscere che lo Stato membro ha violato uno degli obblighi su di esso incombenti in virtù dei trattati e ad imporgli l’azione di misure necessarie per far cessare l’inadempimento, senza specificare quali né prevedere un termine per l’adempimento (art. 260 TFUE).

In altri termini, la sentenza che accoglie il ricorso per infrazione non può indicare le misure necessarie per far cessare l’inadempimento o stabilire misure per il risarcimento dell’eventuale danno, essendo rimessa alla Stato interessato la libera scelta dei mezzi da adottare per l’effettiva riparazione dell’illecito.

Infine, la mancata adozione, da parte dello Stato interessato, delle misure necessarie a conformarsi alla pronuncia di accertamento legittima la Commissione ad avviare un secondo procedimento di infrazione – e chiedere altresì la condanna al pagamento di una sanzione -, in considerazione del fatto che, in tal caso, la violazione degli obblighi incombenti in virtù dei trattati risulta integrata dalla inosservanza dell’obbligo sancito dall’art. 260 TFUE di conformarsi all’accertamento contenuto nella sentenza della Corte.

 

La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: d.lgs. 231/2002, alla luce della direttiva 2011/7/UE

Ciò premesso, è possibile ora procedere all’esame della disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, introdotta nell’ordinamento italiano, in attuazione della direttiva 2000/35/CE, con il d.lgs. 9 ottobre 2002 n. 231, recentemente modificato ed integrato dal d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192 al fine di garantire l’integrale recepimento della più recente direttiva 2011/7/UE, volta a fornire una più efficiente tutela[2] ai creditori soprattutto nel caso in cui parte debitrice della transazione commerciale siano le p.a., le quali, di regola, come messo in luce dal considerando 23 della direttiva 2011/7 UE,  “godono di flussi di entrate più certi, prevedibili e continui rispetto alle imprese” e “possono inoltre ottenere finanziamenti a condizioni più interessanti rispetto alle imprese. Allo stesso tempo, per raggiungere i loro obiettivi, le pubbliche amministrazioni dipendono meno delle imprese dall’instaurazione di relazioni commerciali stabili. (…) Di conseguenza per le transazioni commerciali relative alla fornitura di merci o servizi da parte di imprese alle pubbliche amministrazioni è opportuno introdurre norme specifiche che prevedano, in particolare, periodi di pagamento di norma non superiori a trenta giorni di calendario, se non diversamente concordato espressamente nel contratto e purché ciò sia obiettivamente giustificato alla luce della particolare natura o delle caratteristiche del contratto, e in ogni caso non superiori a sessanta giorni di calendario.

Ebbene, quanto al campo oggettivo di applicazione della predetta disciplina, per “transazioni commerciali” si intendono i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o le prestazioni di servizi contro il pagamento di un prezzo[3]: la trama delle operazioni commerciali prese in considerazione riguarda esclusivamente i rapporti tra le sole imprese oppure tra imprese in qualità di parte creditrice e pubbliche amministrazioni in qualità di parte debitrice.

La ratio sottesa alla normativa dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali può apprezzarsi se si considera il fatto che, in questo ambito, il ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie reca un duplice pregiudizio: danneggia infatti l’impresa creditrice e al contempo impedisce il buon funzionamento del mercato interno.

In altri termini, la disciplina europea in tema di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali si propone di evitare che una impresa o una p.a., in posizione di debitore, possa prevedere condizioni contrattuali che ritardino l’adempimento dell’obbligazione di pagare il prezzo e che si riverberino negativamente non soltanto sul singolo creditore ma anche sull’intera attività d’impresa e quindi sul settore del mercato di riferimento.

Di qui, la previsione di cui all’art. 3 d.lgs. 231/2002 – sulla falsariga della regola generale della responsabilità soggettiva presunta del debitore ex art. 1218 c.c. – in base alla quale il creditore ha diritto agli interessi moratori sull’importo dovuto, a meno che il debitore riesca a fornire la prova liberatoria per cui il ritardato pagamento sia stato causato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, dimostrazione, questa, oggettivamente difficile per la parte debitrice trattandosi di un’obbligazione pecuniaria.

Rispetto alla disciplina generale di cui al codice civile, il d.lgs. 231/2002, modificato da ultimo nel 2012 per recepire le novità della direttiva 2011/7 UE, prevede delle previsioni specifiche concernenti in particolare tre profili peculiari, quali (a) i termini di pagamento, (b) il risarcimento dei costi di recupero e (c) la nullità di protezione delle clausole contrattuali gravemente inique.

 

Termini di pagamento

In relazione al primo profilo, sono previsti termini di pagamento stringenti, la cui decorrenza comporta automaticamente l’obbligo di corresponsione degli interessi di mora (mora ex re), senza che sia necessaria la previa costituzione in mora.[4]

Più nello specifico, il termine generale di pagamento è pari a 30 giorni; tuttavia sono previste regole diverse a seconda che il contratto sia posto in essere tra sole imprese o coinvolga anche una pubblica amministrazione.

In particolare, quanto ai contratti stipulati tra imprese, il d.lgs. 231/2002 stabilisce che
il termine di pagamento è pari a trenta giorni, a meno che le parti prevedano un diverso termine nel contratto, che non può essere superiore a sessanta giorni, salva la possibilità per i paciscenti di concordare un termine superiore a sessanta giorni ma soltanto a condizione che tale termine venga espressamente pattuito per iscritto e non risulti gravemente iniquo ai danni del creditore.[5]

Quanto invece alle transazioni commerciali tra imprese e pubblica amministrazione in veste di debitrice, sulle quali è ampiamente intervenuta la direttiva 2011/7 UE dettando una disciplina uniforme per tutti gli Stati membri (art. 4 direttiva 2011/7 UE)[6], il d.lgs. 231/2002, modificato ed integrato dal d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, prevede, in adesione alla più recente direttiva europea, che il termine di pagamento è, di regola, pari a trenta giorni ma le parti possono pattuire un termine diverso, in ogni caso non superiore a sessanta giorni (i termini sono raddoppiati in caso qualora si tratti di enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria) sempre che ciò sia giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche.[7]

 

Risarcimento dei costi di recupero

In relazione al secondo profilo, l’art. 6  del d.lgs. 231/2002  prevede al co. 1 il diritto del creditore anche al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme che non gli sono state tempestivamente corrisposte: in particolare, in base al co. 2 della disposizione de qua, il creditore ha diritto ad un importo minimo forfettario pari ad Euro 40 a titolo di risarcimento del danno, con possibilità di prova del maggior danno.

 

Nullità di protezione delle clausole contrattuali gravemente inique

In relazione all’ultimo profilo menzionato, l’art. 7 del d.lgs. 231/2002  prevede la nullità di protezione di clausole gravemente inique, fondata sul meccanismo di sostituzione automatica di clausole ex artt. 1419, co. 2 e 1339 c.c..

In particolare, ai sensi del co. 3 dell’art. 7, si considera gravemente iniqua la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora e non è ammessa prova contraria; ai sensi del comma successivo, invece, si presume gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui all’art. 6.

Dalla disposizione in commento emerge quella che autorevole dottrina[8] ha qualificato come una norma dispositiva rinforzata, nel senso che è suscettibile di essere derogata, ma, in caso di contrasto con la buona fede tale da dare vita ad un regolamento di interessi abusivo, diviene norma imperativa che opera in sostituzione della clausola derogatoria gravemente iniqua.

 

La vicenda

A seguito di diverse denunce presentate alla Commissione da parte di associazioni di operatori economici italiani con cui veniva censurata la condotta posta in essere sistematicamente delle p.a. italiane di adempiere alle proprie obbligazioni pecuniarie non osservando i termini di pagamento prescritta dalla direttiva 2011/7, la Commissione, in data 19 giugno 2014, dando avvio alla fase precontenziosa della procedura per infrazione, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di messa in mora, contestandole l’inadempimento degli obblighi su di essa incombenti ai sensi dell’art. 4 della direttiva 2011/7 (rubricato “Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni”, v. nota 6), recepita nel nostro ordinamento, come anticipato, dal d.lgs. n. 231/2002.

Lo Stato italiano, in risposta alla suddetta lettera, ha comunicato alla Commissione le misure specifiche adottate per la lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra  imprese e soggetti pubblici.

Successivamente, la Commissione, dopo aver chiesto e ottenuto dalla Repubblica italiana le relazioni bimestrali relative alla durata effettiva dei tempi di pagamento delle p.a. nazionali, ha contestato che le relazioni trasmesse non prendessero in considerazione tutte le fatture emesse nei confronti delle p.a., ma soltanto quelle oggetto di effettiva liquidazione, con conseguente richiesta di dati aggiornati riguardanti la totalità delle fatture.

In data 5 dicembre 2016, lo Stato italiano ha quindi trasmesso alla Commissione i dati richiesti, ottenuti ricorrendo alla piattaforma per il monitoraggio dei crediti commerciali, dai quali risultava che il termine medio di pagamento per il primo semestre del 2016 era pari a 50 giorni.

Successivamente, la Commissione, ritenendo che la situazione risultante dalle relazioni presentate non fosse conforme a quanto prescritto dall’art. 4 della direttiva 2011/7, ha emesso un parere motivato ex art. 258 TFUE, invitando l’Italia a conformarvisi entro il termine di due mesi.

Senonché, in considerazione della risposta della Repubblica italiana in base alla quale “i tempi medi di pagamento delle pubbliche amministrazioni erano di 51 giorni per l’intero anno 2016, ossia 44 giorni per le amministrazioni statali, 67 giorni per il servizio sanitario nazionale, 36 giorni per le regioni e le province autonome, 43 giorni per gli enti pubblici locali, 30 giorni per gli enti pubblici nazionali e 38 giorni per le altre pubbliche amministrazioni”, la Commissione, ritenendo che lo Stato italiano non avesse ancora rimediato alla inosservanza dell’art. 4, par. 3 e 4, della direttiva 2011/7, ha proposto ricorso per infrazione avanti alla Corte di Giustizia.

 

Argomentazioni della Commissione e della Repubblica Italiana

Secondo la Commissione, la violazione sistematica, da parte delle p.a. italiane, dei termini di pagamento previsti dall’art. 4, par.3 e 4, della direttiva 2011/7 costituirebbe una violazione imputabile allo Stato italiano, atteso che, con l’entrata in vigore della direttiva in parola, tutti gli Stati membri dell’UE sono tenuti non soltanto a prevedere, nella normativa interna di recepimento e nei contratti relativi a transazioni commerciali con p.a. debitrici di imprese, termini di pagamento conformi alle disposizioni europee, ma altresì a garantire la effettiva osservanza dei suddetti termini da parte delle amministrazioni stesse.

Lo Stato italiano, invece, premettendo che i dati relativi alle annualità 2015 – 2017 e aggiornati nel marzo 2018 mostrano un miglioramento continuo e sistematico dei tempi medi di pagamento da parte delle amministrazioni pubbliche, contesta le modalità di analisi adottate dalla Commissione con riferimento ai dati forniti nelle relazioni bimestrali.[9]

Inoltre lo Stato membro sostiene di  non poter essere ritenuto esso stesso responsabile del superamento da parte della amministrazioni pubbliche debitrici dei termini di pagamento, dal momento che, nel caso in cui un organo pubblico di uno Stato membro agisce e contratta con un operatore privato su un piano di parità, l’organo stesso risponde esclusivamente avanti ai giudici interni della eventuale violazione del diritto europeo, alla stessa stregua di un operatore privato.

Secondo la Repubblica Italiana, infatti, gli Stati membri, al fine di garantire il rispetto del diritto dell’UE, potrebbero intervenire soltanto indirettamente, e cioè recependo in modo corretto le disposizioni che gli organi pubblici devono rispettare e sanzionando il mancato rispetto delle medesime, adempimenti, questi, che lo Stato italiano avrebbe rispettato, mediante la previsione di periodi di pagamento non superiori a quelli previsti dalla più recente direttiva, dell’obbligo di corresponsione automatica degli interessi moratori nonché del diritto al risarcimento per i costi di recupero.

 

La decisione della Corte di Giustizia

La Corte di Giustizia, in primo luogo, ha appurato che la direttiva europea 2011/7 deve essere interpretata nel senso che impone agli Stati membri l’obbligo di assicurare il rispetto effettivo, da parte delle p.a. nazionali, dei termini di pagamento da esso previsti: alla luce del considerevole volume di transazioni commerciali in cui sono coinvolte pubbliche amministrazioni in qualità di debitrici di imprese, nonché delle difficoltà riscontrate da queste ultime a causa dei ritardati pagamento da parte di tali amministrazioni, i giudici europei osservano come la disciplina europea abbia inteso imporre agli Stati membri obblighi rafforzati con riferimento alle transazioni tra imprese e soggetti pubblici.

In secondo luogo, la Corte ritiene, contrariamente a quanto argomentato dalla Repubblica italiana, che l’inosservanza, da parte delle p.a., dei termini di pagamento costituisca inadempimento degli obblighi incombenti sugli Stati membri interessati ex art. 258 TFUE.

Secondo la Corte, infatti, la tesi sostenuta dallo Stato italiano – in base alla quale non può sorgere la responsabilità dello Stato membro allorquando le p.a. agiscano iure privatorum, e quindi nell’ambito di una transazione commerciale – “finirebbe con il privare di effetto utile la direttiva 2011/7, in particolare il suo articolo 4, paragrafi 3 e 4, che fa gravare proprio sugli Stati membri l’obbligo di garantire l’effettivo rispetto dei termini di pagamento”.

In altri termini, la mancata tempestività nel pagamento delle transazioni commerciali da parte delle amministrazioni nazionali si eleva ad inadempimento agli obblighi europei, senza che assume rilevanza la natura autoritativa ovvero paritetica del rapporto in essere con l’impresa creditrice.

Per questi motivi, la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’UE, alla luce delle considerazioni svolte, ha statuito che “1) Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.

Si rammenta che la mancata adozione in futuro, da parte dell’Italia, di misure necessarie a conformarsi alla pronuncia esaminata legittima la Commissione ad avviare un secondo procedimento di infrazione e a richiedere l’irrogazione di una sanzione economica, che può consistere in una somma forfettaria e/o in una penalità di mora giornaliere, adeguate alla importanza delle norme violate e agli effetti della violazione sugli interessi generali e particolari.

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Note                           

[1] La funzione della Commissione come “custode dei trattati” ben si evince dall’art. 17 TUE, che al par. 1 espressamente stabilisce che “La Commissione promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine. Vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati. Vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea. Dà esecuzione al bilancio e gestisce i programmi. Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai trattati. Assicura la rappresentanza esterna dell’Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri casi previsti dai trattati. Avvia il processo di programmazione annuale e pluriennale dell’Unione per giungere ad accordi interistituzionali.”

[2] In base al considerando 12 direttiva 2011/7, “È necessario un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui, tra l’altro, l’esclusione del diritto di applicare interessi di mora sia sempre considerata una clausola o prassi contrattuale gravemente iniqua, per invertire tale tendenza e per disincentivare i ritardi di pagamento. Tale passaggio dovrebbe inoltre includere l’introduzione di disposizioni specifiche sui periodi di pagamento e sul risarcimento dei creditori per le spese sostenute”.

[3] La suddetta definizione si rinviene all’art. 2, co. 1, lett. a) del d.lgs. 231/2002, così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), d.lgs. n. 192 del 2012.

 

[4] Il co. 1 dell’art. 4 del d.lgs. 231/2002 prevede testualmente che “Gli interessi moratori decorrono, senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento”.

[5] La disciplina relativa alle transazioni commerciali tra sole imprese si rinviene al co. 3 dell’art. 4 del d.lgs. 231/2002.

[6] L’art. 4 della direttiva 2011/7 UE, rubricato “Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni”, è articolato in sei paragrafi e prevede espressamente che: “1. Gli Stati membri assicurano che, nelle transazioni commerciali in cui il debitore è la pubblica amministrazione, alla scadenza del periodo di cui al paragrafo 3, 4 o 6 il creditore abbia diritto agli interessi legali di mora senza che sia necessario un sollecito, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: a)  il creditore ha adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge; e b)  il creditore non ha ricevuto nei termini l’importo dovuto e il ritardo è imputabile al debitore.

Gli Stati membri assicurano che il tasso di riferimento applicabile: a) per il primo semestre dell’anno in questione sia quello in vigore il 1 gennaio di quell’anno; b) per il secondo semestre dell’anno in questione sia quello in vigore il 1 luglio di quell’anno.

Gli Stati membri assicurano che nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione: a) il periodo di pagamento non superi uno dei termini seguenti: i) trenta giorni di calendario dal ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento; ii) se non vi è certezza sulla data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento, trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi; iii) se la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi, trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi; iv) se la legge o il contratto prevedono una procedura di accettazione o di verifica diretta ad accertare la conformità delle merci o dei servizi al contratto e se il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento anteriormente o alla stessa data dell’accettazione o della verifica, trenta giorni di calendario da quella data; b) la data di ricevimento della fattura non sia soggetta a un accordo contrattuale tra debitore e creditore.

Gli Stati membri possono prorogare i termini di cui al paragrafo 3, lettera a), fino ad un massimo di sessanta giorni di calendario per: a) qualsiasi amministrazione pubblica che svolga attività economiche di natura industriale o commerciale offrendo merci o servizi sul mercato e che sia soggetta, come impresa pubblica, ai requisiti di trasparenza di cui alla direttiva 2006/111/CE della Commissione, del 16 novembre 2006, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all’interno di talune imprese; b) enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tal fine.

Ove uno Stato membro decida di prorogare i termini a norma del presente paragrafo, trasmette alla Commissione una relazione su tale proroga entro il 16 marzo 2018.

Su tale base la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione che indica gli Stati membri che hanno prorogato i termini a norma del presente paragrafo e tiene conto dell’impatto sul funzionamento del mercato interno, in particolare sulle PMI. Alla relazione sono accluse eventuali proposte pertinenti.

Gli Stati membri assicurano che la durata massima della procedura di accettazione o di verifica di cui al paragrafo 3, lettera a), punto iv), non superi trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi, se non diversamente concordato espressamente nel contratto e nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi dell’articolo 7.

Gli Stati membri assicurano che il periodo di pagamento stabilito nel contratto non superi il termine di cui al paragrafo 3, se non diversamente concordato espressamente nel contratto e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche, e non superi comunque sessanta giorni di calendario”.

[7] La disciplina relativa alle transazioni commerciali tra imprese e p.a. si rinviene al co. 4 dell’art. 4 del d.lgs. 231/2002.

[8] In questo senso, LOPILATO V., Manuale di diritto amministrativo, 2020, p. 860.

[9] A tal riguardo, lo Stato italiano sottolinea infatti che la scelta da parte della Commissione di ricorrere all’indicatore corrispondente al “tempo medio di pagamento” piuttosto che all’indicatore relativo al “tempo medio di ritardo” inficia la affidabilità dell’analisi effettuata dalla Commissione stessa.

Lorenza Pedullà

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