Usufrutto legale e divorzio

Redazione 07/06/04
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prof. dr. Alberto Patron
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L’art. 324 c.c. prevede che i genitori esercenti la potestà hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio. Questa è l’unica ipotesi nota di usufrutto legale e va ricollegata all’art. 320 c.c. ed in particolare all’esercizio della potestà (non solo della titolarità).
I frutti percepiti a mezzo dei beni del figlio sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli: di tutti i figli, non solo quindi a favore del figlio eventualmente titolare dei beni. Il principio è quello della solidarietà familiare espresso nel 315 c.c.: il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia, finché convive con essa.
Questo diritto di usufrutto in capo ai genitori non comporta l’obbligo del rendiconto. Spetta ai genitori, sia legittimi sia naturali, oppure al genitore che esercita la potestà in via esclusiva (317, 317bis, 330, 333, etc.).
Vi sono inoltre dei casi in cui l’usufrutto legale spetta ad uno solo dei genitori anche se entrambi esercitano la potestà genitoriale. Ipotesi che ritroviamo innanzitutto nell’art 324 c.c. ai nn. 3 e 4, nel 334 c.c. (rimozione dall’amministrazione), nel 465 c.c. (indegnità a succedere).
Questione di somma importanza è se occorra un nucleo familiare. Se c’è un nucleo familiare, questi frutti serviranno per il mantenimento di quel nucleo familiare, altrimenti serviranno al mantenimento solo del figlio. Per il Carraro, nel caso in cui il figlio non conviva con alcuno dei genitori, non si darebbe ipotesi di usufrutto legale.
Vanno tenute ben distinte le due posizioni dei genitori quali usufruttuari e quali amministratori e quindi anche legali rappresentanti rispetto al patrimonio del figlio. Prima di tutto perché l’usufrutto è un diritto proprio dei genitori: quando essi agiscono lo fanno in nome proprio; mentre quando agiscono come amministratori e quindi anche legali rappresentanti dei beni del figlio, lo fanno in nome altrui: bisogna dunque capire in che veste questi atti sono svolti. Per quanto riguarda i rapporti interni, il contenuto e l’esercizio del diritto di usufrutto legale riguarda la gestione dei frutti; più delicato il rapporto con i terzi, poiché cambia il soggetto del diritto.
Gli atti che i genitori possono compiere in nome proprio sono quelli che non incidono sulla consistenza dei beni del figlio (i genitori possono compiere questi atti anche disgiuntamente). Tuttavia non sempre è semplice capire se un atto che i genitori compiono sul patrimonio del figlio sia inerente all’usufrutto, rispetto al quale non occorrono autorizzazioni ed i cui effetti impegnano i genitori stessi; oppure un’attività che ricade sul figlio, con la necessità, per le ipotesi previste dalla legge, dell’autorizzazione del giudice.
Ad esempio: se il minore è titolare di un’azienda agricola i genitori possono, coltivare il fondo e venderne i frutti; non possono invece alienare il fondo o modificarne la destinazione.
Quale la natura giuridica del diritto in capo ai genitori? La tesi del Bianca, ma che è decisamente dominante, è che si tratti di un vero usufrutto, anche se con dei connotati particolari, perché la sostanza è che hanno lo stesso potere di godere del bene con lo stesso obbligo di conservarne la destinazione economica degli usufruttuari. C’è un aggancio normativo, l’art. 325 c.c.: gravano sull’usufrutto legale gli obblighi propri dell’usufruttuario. Questo, beninteso, come usufruttuari: come amministratori dei beni del figlio, invece, ben possono mutarne la destinazione economica, ottenendone le autorizzazioni dell’autorità giudiziaria.
Una rilevante eccezione rispetto all’usufrutto ordinario è data dall’assenza del diritto di sequela, perché se il bene viene venduto, l’usufrutto si estingue.
Qual è l’oggetto dell’usufrutto legale? Tutti i beni mobili ed immobili, con alcune esclusioni. Ad es. l’art. 324 prevede che non sono inclusi:
– i beni acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro;
– i beni lasciati o donati a l figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione;
– i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la potestà o uno di essi non ne abbiano l’usufrutto; la condizione però non ha effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima;
– i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione, e accettati nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la potestà. Se uno solo di essi era favorevole all’accettazione, l’usufrutto legale spetta esclusivamente a lui.
A questi si aggiunge il caso visto prima, quei beni facenti parte di un’eredità, rispetto alla quale il genitore è stato dichiarati indegno: a lui non spetta l’usufrutto qualora quei beni pervengano al figlio.
Da notare che, a differenza di quest’ultimo caso, nelle ipotesi previste dal 324 c.c. i genitori, pur privi dell’usufrutto legale, conservano l’amministrazione dei beni.
Un caso particolare è quello dell’art. 356 c.c. nel caso di nomina di un curatore speciale. Qui la situazione è rovesciata: chi fa una donazione o dispone con testamento a favore di un minore, anche se questi è soggetto alla potestà dei genitori, può nominargli un curatore speciale per l’amministrazione dei beni donati o lasciati. In questo caso i genitori non hanno l’amministrazione dei beni, ma conservano l’usufrutto legale.
Disciplina. Art. 325 c.c.: gravano sull’usufrutto legale gli obblighi dell’usufruttuario. È esclusa però la prestazione di garanzia dell’art. 1002 c.c.. Ci sono alcune norme che si ritengono applicabili: l’art. 1004 c.c., 1008 c.c., 1010 c.c. e 1013 c.c.
Si escludono invece gli artt. 985 e 986 c.c., che riguardano i miglioramenti e le addizioni e gli artt. 995, 996 e 999 c.c.
Norma rilevante è l’art. 326 c.c., che pone delle regole coerenti con il principio del vincolo di destinazione del bene: l’usufrutto legale non può essere oggetto di alienazione, di pegno o di ipoteca né di esecuzione da parte dei creditori. Per quanto attiene invece i frutti, l’esecuzione non può aver luogo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Altrimenti è possibile per il creditore chiedere l’esecuzione sui frutti.
Diversa l’espropriazione del bene del figlio, che può essere esperita dal creditore del figlio: sia per debiti che provengono dalla legge, sia per debiti assunti dai genitori agendo in nome del figlio, vale a dire come suoi legali rappresentanti.
Altra norma è l’art. 328 c.c.: il genitore che passa a nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo tuttavia di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo. Cade il principio del mantenimento della famiglia e si riduce alla soddisfazione delle esigenze del figlio.
L’art. 329 c.c. disciplina il godimento dei beni dopo la cessazione dell’usufrutto legale (es. il figlio diventa maggiorenne): cessato l’usufrutto legale, se il genitore ha continuato a godere i beni del figlio senza procura ma senza opposizione, o anche con procura ma senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli o i suoi eredi non sono tenuti che a consegnare i frutti esistenti al tempo della domanda.
Un problema che si pone la dottrina è il seguente: la funzione dei frutti è quella della destinazione al mantenimento della famiglia, all’istruzione e all’educazione dei figli. E se i frutti sono eccedenti a tali bisogni? Vi sono diverse teorie. Il Bianca, ad esempio, considera che quando lo scopo della destinazione è raggiunto, non vi sarebbe alcun vincolo ulteriore e quindi i genitori possono disporre del residuo come credono. Si fa riferimento in tal caso all’art. 328 c.c.: solo quando il genitore passa a nuove nozze viene dalla legge posto esplicitamente un vincolo di accantonamento dei frutti in esubero. La tesi del Bianca è coerente con l’idea che l’usufrutto legale sia un vero e proprio diritto di usufrutto, dove il titolare può disporre come crede dei frutti, salva in questo caso l’esigenza primaria della destinazione di cui sopra ed il limite posto dall’art. 334 c.c., dove il controllo sull’amministrazione dei genitori può portare il giudice a privare in tutto od in parte i genitori dell’usufrutto.
Estinzione. Rispetto alle cause di estinzione del diritto generale di usufrutto non possiamo trovare la confusione: da un lato l’usufrutto dei genitori non può essere ceduto al figlio (questo tipo di usufrutto è inalienabile) e dall’altro i genitori non possono acquistare la nuda proprietà (art. 323 c.c. divieto per i genitori di farsi acquirenti direttamente o per interposta persona dei beni e dei diritti del minore). Non si estingue neppure per non uso o per rinuncia, perché non è rinunciabile. Per quanto riguarda l’abuso, non si applica la norma specifica in materia di abuso dell’usufruttuario, ma il dovere di ben amministrare è comunque sanzionato dagli artt. 333 e 334 c.c.
Si estingue invece per raggiungimento della maggiore età o per emancipazione, per morte del figlio, per vendita del bene a terzi.
In caso di separazione dei genitori con affidamento del figlio ad uno solo dei genitori, solo a questi compete il diritto di usufrutto; se poi interviene la riconciliazione, si ripristina il diritto di entrambi.
Va sottolineato il fatto che quando viene preso un provvedimento ai sensi del 334 c.c., non necessariamente tale provvedimento abbraccia entrambe le ipotesi contemplate dalla norma, ben potendo esserci, a seguito di valutazione della situazione, un provvedimento in cui viene tolto l’usufrutto e mantenuta l’amministrazione e viceversa. Da notare, però, che per privare il genitore dell’usufrutto occorre che nella cattiva amministrazione vi sia dolo o colpa, essendo questa una vera sanzione; il genitore potrebbe infatti semplicemente non essere in grado di gestire il patrimonio del minore: lo scopo del provvedimento non sarebbe sanzionatorio, ma avrebbe piuttosto la funzione di salvaguardia del patrimonio del minore. Tornando all’esempio di prima dell’azienda agricola, nel caso in cui i genitori fossero privi dell’usufrutto legale, ma non dell’amministrazione, agirebbero sempre come rappresentanti in nome e per conto del figlio, anche per quanto attiene ai frutti.
Come si può distinguere tra attività di competenza dell’usufruttuario e quella invece di competenza del genitore quale rappresentante?
A livello normativo la distinzione è chiara. Piuttosto potrebbero esserci dei problemi pratici: il genitore che conceda un immobile in affitto, opera come rappresentante o come usufruttuario? Certamente se il contratto è ultranovennale viene ad incidere sulla destinazione del bene e come tale va autorizzato dal giudice. Altrimenti è difficile che venga in rilievo giuridicamente il problema: soprattutto per il fatto che l’usufruttuario non è tenuto all’obbligo del rendiconto. Si dovrà in concreto valutare il tipo di attività che il genitore pone in essere: per esempio se ci dovesse essere da cambiare il tetto, quella è un’attività amministrativa straordinaria che come tale spetta al proprietario, ed il genitore opererebbe inevitabilmente come rappresentante.
Si discute se, nella famiglia di fatto, i frutti siano destinati anche al mantenimento della famiglia di fatto. Si tende comunque ad affermare. Nel caso che ci sia la convivenza di entrambi i genitori e l’esercizio congiunto della potestà, quindi anche titolarità ed esercizio congiunto dell’usufrutto legale, si. Se invece il figlio non convive con alcuno dei genitori, pur essendoci la potestà che spetta ad uno dei genitori, che è quello che ha fatto per primo il riconoscimento, l’usufrutto legale dovrebbe servire solo per soddisfare i bisogni del figlio, perché non c’è più una famiglia a cui possa farsi riferimento.
Art. 317 c.c. 2° comma: la potestà comune dei genitori non cessa quando, a seguito di separazione, scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, i figli vengono affidati ad uno di essi. L’esercizio della potestà è regolato, in tali casi, secondo quanto disposto dall’art. 155 c.c.
La titolarità della potestà dunque permane in capo ai genitori, ma l’esercizio è regolato secondo il 155 c.c. : il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esclusivo esercizio della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice.
Qui si intende solo qualora i figli siano affidati in via esclusiva, perché la legge sul divorzio ha introdotto un’ipotesi di affidamento congiunto o alternato: in tal caso titolarità ed esercizio della potestà continuano a coesistere (con l’applicazione dell’art. 316 c.c. in caso di contrasto).
Il giudice può delineare le condizioni, in primis il diritto di visita dell’altro genitore. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggior interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro educazione e istruzione e può ricorrere al giudice quando ritenga che sono state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse. Emerge nuovamente la titolarità comune, con diritti e doveri di vigilanza; vigilanza e decisionalità che incidono sull’educazione, sulle condizioni di vita (es. il luogo in cui questi vanno ad abitare, cambiamenti di residenza, anche in materia di cure quando siano rilevanti).
Quella che deve essere adottata da entrambi i coniugi è la fase quindi decisionale, non la fase esecutiva della decisione, che spetta al genitore affidatario, perché quello ha l’esercizio della potestà e nei rapporti con i terzi ha la rappresentanza del minore. E se l’attività deve essere autorizzata dal giudice, chi la chiede e chi viene autorizzato dei genitori? Alcuni ritengono che debba essere richiesta da entrambi; altri solo da chi esercita la potestà (es. lo Iannuzzi). La questione sembra mal posta: se si richiede al giudice l’autorizzazione in relazione ad un’attività che, rivestendo un particolare interesse, richiede a monte una decisione concorde, è chiaro che tale situazione dovrà essere prospettata al giudice. È altresì vero, però, che basta che sia autorizzato il genitore che ha il potere di compiere l’atto. Se il fatto che la decisione deve essere concorde non sposta il fatto che solo il genitore che esercita la potestà ha il potere di rappresentanza e quindi di compiere l’atto, è sufficiente che questo sia autorizzato. Bisogna che nell’autorizzazione emerga la decisione congiunta, poi l’autorizzazione va data al genitore che dovrà porre in essere l’atto. Per cui ha poca importanza che la richiesta sia fatta formalmente da entrambi o che sia fatta da uno con il consenso dell’altro, che può aderire. È bene invece che l’autorizzazione sia espressamente rilasciata solo al genitore che può agire.
Alcuni autori ritengono che la richiesta debba essere fatta da entrambi, per ottemperare alla necessità che la decisione sia concorde; ma quello che è importante non è tanto che la richiesta sia fatta da entrambi, quanto che dall’autorizzazione emerga che entrambi sono d’accordo.
Va da sé che poi, in concreto, la difficoltà sulla valutazione dell’effettiva rilevanza della decisione, dipende sia dalla rappresentazione che di quell’atto viene data, sia dalla concreta situazione del minore: si pensi ad esempio all’alienazione di un immobile ed alla diversa rilevanza rispetto ad un patrimonio, piuttosto che ad un bene che del patrimonio costituisce l’unico cespite.
E in caso di disaccordo? C’è chi si rifà al 316 c.c., come se la famiglia fosse ancora unita (Bianca), limitandosi alle determinazioni più utili nell’interesse del figlio.
C’è invece chi, come Iannuzzi, ritiene che l’art. 316 c.c. per essere applicato richieda la convivenza dei genitori (cioè che ci sia ancora l’unità familiare, come recita l’articolo): allora come si risolve il disaccordo? Il giudice è colui al quale il genitore non affidatario ricorre quando, esercitando il suo dovere di vigilanza, ritenga che siano state assunte delle decisioni a lui pregiudizievoli: è il giudice della separazione o del divorzio, non il tribunale dei minorenni.
Queste le due principali tesi in dottrina.
La norma del 155 c.c. terzo comma dettata in materia di separazione giudiziale è applicabile anche alla separazione consensuale. C’è comunque sempre la possibilità che il giudice, in sede di sentenza di separazione o di divorzio dia delle disposizioni diverse; tanto circa l’esercizio esclusivo della potestà del coniuge affidatario (limitarlo o richiedere, nonostante l’affidamento unilaterale, l’esercizio congiunto), quanto riguardo alle decisioni più importanti che devono essere concordate.
E in caso di separazione di fatto?
La problematica non emerge in caso di separazione di fatto, dove rimane sempre l’esercizio congiunto della potestà, perché è solo l’affidamento esclusivo che fa venir meno l’esercizio congiunto della potestà; affidamento esclusivo che si può realizzare anche in via provvisoria attraverso i provvedimenti presidenziali.
Dal 1942, anno in cui è stato promulgato il codice ad oggi, per quanto riguarda la potestà c’è stato un avvicinamento progressivo della situazione giuridica dei figli naturali e dei figli legittimi; agli inizi la filiazione naturale era vista con grande diffidenza, la stessa Costituzione all’art. 29 tutela essenzialmente la famiglia legittima, ma pone comunque un accento molto importante su quella che è la tutela del rapporto di filiazione. In questo ambito si è giunti, attraverso una serie di riforme (ultima quella del diritto di famiglia), ad una disciplina dei figli naturali che si avvicina moltissimo a quella dei figli legittimi.
Per quanto riguarda l’adozione, poi, mentre una volta era ammessa l’adozione solo di maggiori, abbiamo avuto l’introduzione dell’adozione di minori e poi la nuova legge dell’83 che ha riformato completamente l’istituto per quanto riguarda i minori.
La potestà è un complesso di poteri e di doveri e sotto questo aspetto viene avvicinato molto al concetto di ufficio che è tipico del diritto pubblico, ossia una serie di poteri e doveri (non tanto quindi diritti) attribuiti ad un soggetto per la tutela ed il perseguimento di un interesse specifico.
L’aspetto cui possiamo avvicinare la patria potestà sotto il complesso di poteri e doveri realizzati a tutela di un interesse diverso da quello del titolare è forse quello del rapporto organico, tipico quello delle società, dove gli amministratori non hanno degli specifici diritti nei confronti della società, ma hanno un complesso di poteri e doveri, proprio perché hanno questo compito fondamentale di essere “la società” nei confronti dell’esterno.
Si parla di poteri e doveri nella patria potestà, perché in realtà non è possibile riscontrare dei veri e propri diritti soggettivi nei confronti del soggetto verso i quali si esplicano e non è neanche così facile trovare un diritto soggettivo all’esterno, se non forse il diritto di amministrare nei confronti dei terzi, nel senso di diritto di essere riconosciuti dai terzi come gli unici che possono compiere gli atti di amministrazione nell’interesse dei figli. Forse l’unico diritto vero e proprio è il diritto di usufrutto legale, che ha il suo contenuto di natura patrimoniale.
C’è poi da mettere in rilievo l’esistenza di una netta differenza tra la rappresentanza volontaria e quella tipica della patria potestà, proprio perché la rappresentanza volontaria trova la sua fonte in un soggetto capace che attribuisce volontariamente ad un terzo il compito o di rappresentarlo o comunque di amministrarne i beni, mentre nella patria potestà ci troviamo di fronte ad una situazione nella quale questo complesso di poteri e doveri viene attribuito direttamente dalla legge in virtù della nascita del figlio o dell’adozione e che non è declinabile, essendo irrinunciabile ed indelegabile: l’unica cosa che può essere delegata è l’esercizio di singoli atti di amministrazione (es. se deleghiamo ad altri il compito di educare un figlio, responsabile della sua educazione saremo sempre noi genitori).
Un altro aspetto da tenere presente è questo: come nella rappresentanza volontaria c’è una scissione tra il potere rappresentativo e gli obblighi che nascono (la procura attribuisce un potere, ma gli obblighi ed i diritti eventuali nascono dal contratto di mandato che soggiace alla procura ), così la patria potestà ha due contenuti: uno la titolarità della patria potestà, l’altro l’esercizio di essa, cioè un conto è essere titolari di poteri e doveri ed un conto è la rappresentanza, che è il momento esterno di manifestazione eventualmente di quello che è lo specifico potere di amministrazione.
Normalmente titolarità e rappresentanza coincidono tra di loro; vi sono però dei casi nei quali questo non succede necessariamente. Questo è importante anche ai fini eventuali anche della legittimazione al compimento degli atti e quello di sapere chi è il soggetto che in questo caso è legittimato e in che modalità deve farlo per chiedere le eventuali autorizzazioni che fossero necessarie (art. 320 e segg. c.c.).
Un esempio della non coincidenza è il contrasto fra i genitori sulla necessità o sull’opportunità di compiere un certo atto nell’interesse del figlio, per la soluzione di questo contrasto la legge prevede innanzitutto il ricorso al giudice in fase conciliativa, ossia un tentativo di discutere con i due genitori per giungere ad un accordo comune e se questo accordo viene raggiunto, permane il concetto di rappresentanza comune per l’esecuzione di questo atto. Se però non si raggiunge l’accordo, non più in fase conciliativa, ma in fase decisoria (sia pur sempre di volontaria giurisdizione, in quanto non si tratta di risolvere un contrasto tra i genitori, ma di trovare qual è l’atto più conforme alle esigenze del figlio), è il tribunale che decide qual è il genitore al quale attribuire il compito di esercitare la rappresentanza (sempre che l’atto proposto venga ritenuto opportuno). È evidente che nel caso in cui vi sia un esercizio esclusivo scisso da quella che è la titolarità, colui che agisce quale titolare esclusivo dell’esercizio della potestà, dovrà giustificare il fatto che agisce da solo.
Altra ipotesi frequente di non coincidenza tra titolarità ed esercizio si ha, per esempio, in caso di separazione e divorzio. Secondo l’art. 155 c.c. (che si applica anche in caso di divorzio), nell’ipotesi di separazione la patria potestà spetta ad entrambi i genitori (sempre che ne siano entrambi titolari), ma l’esercizio spetta in via esclusiva al genitore al quale i figli sono affidati.
Situazione più vicina a quella dei figli legittimi è quella dei figli legittimati (dal 280 al 286 c.c.). La legittimazione normalmente avviene nei confronti dei figli che sono nati tra due persone e che successivamente si sposano. Però può avvenire anche per provvedimento del giudice (art. 284 c.c.).
C’è però l’ipotesi che il figlio naturale possa essere legittimato da uno solo dei genitori e mantenga con quell’altro lo status di figlio naturale: anche in questo caso la potestà spetta ad entrambi i genitori, ma l’esercizio è regolato in maniera diversa. In questo caso l’esercizio segue sempre la via della convivenza. Se non v’è convivenza fra i genitori (perché ad esempio viene legittimato da uno solo che ha un altro nucleo familiare), per quanto riguarda la patria potestà non c’è questa totale separazione, come figlio legittimo, nei confronti de genitori che lo hanno riconosciuto.
Comunque, nell’ipotesi normale, che è quella della legittimazione per susseguente matrimonio, in cui si acquista lo status di figlio legittimo nei confronti di entrambi i genitori e della famiglia di entrambi i genitori, la situazione è esattamente la stessa di quella dei figli legittimi come pure la normativa che si applica.

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