Unione e fusione dei Comuni nella legislazione italiana

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Sommario: 1. Premessa. 2. L’evoluzione storica dei comuni italiani. 3. Il quadro normativo di riferimento. 4. Le funzioni amministrative dei Comuni. 5. L’autonomia economico-finanziaria degli enti locali. 6. Il periodo transitorio a seguito della riforma costituzionale del Titolo V. 7. La questione italiana. L’unione e la fusione dei Comuni. 8. L’unione, la fusione e le convenzioni. 9. Uno sguardo all’Europa: gli esempi di Spagna, Francia e Germania. 10. La situazione italiana: conclusioni.

 

  1. Premessa

In seguito alle riforme sul modello organizzativo di Stato Federale, il ruolo degli enti locali diviene sempre più centrale; se da un lato vi è una riduzione dell’intervento dello Stato centrale nelle economie locali, dall’altra accresce il decentramento delle funzioni e l’autonomia impositiva locale[1] ed il legislatore con le ultime riforme ha ridisegnato totalmente le funzioni amministrative degli enti che compongono la Repubblica.

 

  1. L’evoluzione storica dei comuni italiani

Le prime forme di aggregazione territoriale di cittadini, con propri statuti autonomi, risalgono agli inizi dell’XI secolo anche se, con l’avvento delle Signorie, tra il XII e il XIV secolo il potere locale veniva ridimensionato, prevalendo un modello gerarchico e centralizzato che faceva degli enti locali semplici circoscrizioni amministrative[2].

La prima normativa che ha regolamentato le autonomie locali è lo Statuto Albertino[3] del 1848, che prevedeva un modello organizzativo uniforme per tutti gli enti locali, sottoposti al controllo e all’indirizzo dell’organo statale[4]. Dopo l’unificazione d’Italia questo modello veniva esteso a tutti i comuni con la Legge 20 marzo 1865 nr. 2248 all. A e poi riconfermato dal Testo Unico Comunale e Provinciale del 1915.

Durante il periodo fascista l’accentramento di tutti i poteri in mano allo stato riduceva province e comuni ad enti ad esso subordinati, di fatto rendendo inoperante il testo Unico Comunale e provinciale del 3 marzo 1934 nr. 383, che prevedeva funzioni specifiche obbligatorie e funzioni facoltative in capo agli enti locali.

Con la nascita della Repubblica e con la promulgazione della Costituzione del 1948 i principi di autonomia e decentramento (art. 5 cost.) vengono sanciti come imprescindibili e province e comuni vengono definiti quali enti autonomi (art. 128 cost.).

 

  1. Il quadro normativo di riferimento

La prima importante riforma delle autonomie locali, che segue la Costituzione del 1948, è la legge n. 142 dell’8 giugno 1990 che riconosce l’autonomia dei Comuni e delle Province con propria potestà statutaria e regolamentare e definisce il comune quale ente locale che rappresenta la propria comunità, curandone gli interessi e promuovendone lo sviluppo.

Con tale riforma mutano i rapporti legge–atti normativi locali, con il passaggio dal criterio gerarchico al principio della competenza normativa, principio che amplia l’operatività delle fonti locali che disegnandole quali effettivi strumenti dell’autonomia di Comuni e Province, così come è configurata dagli articoli 5 e 128 della Costituzione[5].

È a partire dagli anni novanta che prende avvio un processo di federalismo amministrativo[6], mettendo le basi per una nuova riforma della Pubblica Amministrazione e semplificazione amministrativa[7] e conferendo inoltre nuove funzioni e compiti alle regioni ed enti locali [8], che ha ridisegnato il rapporto tra stato e enti locali.

Con la Legge Napolitano-Vigneri[9] si accentua l’autonomia delle fonti locali in ambito di potestà regolamentare sostituendo il limite della legge con i principi fissati dalla legge; da qui l’autonomia normativa locale incontra quali limiti i principi specifici imposti e non ogni disposizione di legge[10].

Successivamente il Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali approvato con decreto Legislativo nr. 267 del 18 agosto 2000 conferma la precedente normativa.

Con la riforma del Titolo V della Costituzione del 18 ottobre 2001, n. 3 l’originario modello previsto dell’art. 114 cost. in cui la Repubblica si ripartiva in Regioni, Province e Comuni viene sostituito da un modello di Repubblica ridisegnata dal “basso”, costituita in Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato.

Con tale riforma, inoltre, si procede alla modifica del comma 6 dell’articolo 117 in cui si prescrive che la potestà regolamentare spetta allo Stato salvo delega alle Regioni, suddividendo le materie di competenza anche ai Comuni, Province e Città metropolitane a cui spetta l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Allo Stato, quindi, è attribuita la competenza legislativa relativa all’individuazione delle funzioni fondamentali degli Enti locali e a quest’ultimi la normazione relativa alla regolamentazione dei profili organizzativo-gestionali[11].

 

  1. Le funzioni amministrative dei Comuni

Proseguendo l’analisi di quanto disposto dal nuovo Titolo V della Costituzione, all’articolo 118 si possono distinguere diverse classi di funzioni[12] amministrative di competenza degli Enti locali[13].

Le funzioni conferite sono quelle attribuite ex-lege statale o regionale sulla scorta della triade dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, caratterizzate dal mero passaggio di funzioni da un soggetto ad un altro finalizzata alle esigenze e bisogni del cittadino secondo una sussidiarietà verticale in cui il Comune è il livello più adeguato per soddisfare i bisogni.

Per ciascun livello di governo, ai sensi dell’art. 118, comma 2 della costituzione, vengono assegnate funzioni proprie e funzioni conferite solo attraverso legge statale o regionale in attuazione proprio della materia di competenza, mantenendo funzioni amministrative per la sola salvaguardia dell’esercizio unitario.

È solo nel 2012 che il legislatore, con l’art. 19 del d.l. nr. 95 convertito successivamente in Legge nr. 135[14], ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni e le rispettive funzioni esercitate relativamente agli articoli 117, commi terzo e quarto e 118 della Costituzione, individua le definitive funzioni fondamentali dei comuni.

 

  1. L’autonomia economico-finanziaria degli enti locali

L’originario articolo 119 della costituzione del 1948 prevedeva un sistema basato sulla cosiddetta finanza derivata, in base alla quale gran parte dei tributi veniva riscossa dallo Stato che provvedeva successivamente a trasferire il gettito agli enti locali[15].

Tale impostazione centralistica viene superata con l’affermazione di nuovi principi autonomistici riconosciuti nella legge n. 142 del 1990, sviluppati con il decreto legislativo n. 504 del 1992 e confluiti nel T.U. sulle autonomie locali n. 267 del 2000 e attuati con la riforma del titolo V della Costituzione.

Difatti nel nuovo testo dell’articolo 119 al comma 1 si riconosce autonomia finanziaria di entrata e di spesa a tutti i Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni, purché in rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, nonché all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni stabiliscono autonomamente i tributi da applicare in armonia con la Costituzione e i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Degno di nota è l’ultimo comma del nuovo art. 119 che consente agli Enti territoriali di avere un proprio patrimonio e di ricorrere all’indebitamento, ma solo per finanziare spese di investimento, rispettando l’equilibrio di bilancio; in questo modo vengono date maggiori responsabilità ai governanti locali, essendo esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

L’articolo 119 deve, però, essere considerato in combinato con l’articolo 23 con il quale si afferma che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, e l’articolo 117, comma 2, lettera e) in base al quale lo Stato ha legislazione esclusiva nella materia del sistema tributario e dell’armonizzazione dei bilanci pubblici, quest’ultima introdotta dall’art. 3 della legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1[16]. Con la modifica dell’art. 81 della costituzione si introduce, con effetto dall’anno 2014, il principio del pareggio di bilancio e viene sancito all’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali l’obbligo del rispetto dell’equilibrio dei rispettivi bilanci[17], modificando così gli articoli successivi 97, 117 e 119.

 

  1. Il periodo transitorio a seguito della riforma costituzionale del Titolo V

Dopo la riforma nr 3/2001, che costituzionalizza l’autonomia finanziaria di entrate e spese di tutti gli enti territoriali, non sono stati emanati i provvedimenti attuativi del federalismo fiscale recepito dalla stessa riforma. Anche la Corte Costituzionale si è espressa sulla necessità dell’intervento del legislatore statale di fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, determinando ulteriormente gli spazi e i limiti del sistema tributario[18].

Occorre attendere il 2009 per l’emanazione della Legge Delega nr 42 del 5 maggio 2009 in materia di federalismo fiscale[19], con cui all’articolo 1 vengono specificati i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, viene istituito il fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante e vengono fissati i principi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni.

In ragione di ciò viene emanato il D.Lgs 216/2010 (art. 3) dove sono elencate le funzioni fondamentali dei Comuni ed il percorso di determinazione dei fabbisogni standard al fine di garantire le risorse per lo svolgimento delle funzioni stesse, funzioni poi integrate tramite la legge di conversione del D.L. 78/2010 (legge 122/2010) ed infine stabilite in via definitiva dalla legge 135/2012, di conversione del D.L. 95/2012[20].

Con riferimento specifico alla materia di federalismo fiscale municipale, il legislatore statale ha emanato il Decreto Legislativo nr 23 del 14 marzo 2011, con il quale sono stati stabiliti i prelievi comunali volti a garantire l’autonomia fiscale e tributaria avviando così il passaggio dalla finanza derivata a quella autonoma (artt. 2 – 11)[21], prevedendo comunque all’art. 12 che tale autonomia finanziaria deve essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e crescita.

 

  1. La questione italiana. L’unione e la fusione dei Comuni

A seguito dei cambiamenti dovuti al nuovo regime di autonomia fiscale e tributaria i Comuni e soprattutto quelli di piccola dimensione hanno riscontrato serie difficoltà economico finanziarie nell’assicurare l’erogazione dei servizi e il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini[22]. Per far fronte a tale problematica il legislatore ha introdotto gli istituti dell’unione e dalla fusione dei Comuni volti alla razionalizzazione dei servizi e alla riduzione dei costi, assicurando comunque il rispetto dei criteri di efficienza, efficacia ed economicità.

La prima normativa sul tema è la Legge 142/1990 che disciplina le unioni di comuni come strumenti associativi provvisori in attesa, dopo 10 anni, della loro obbligatoria fusione. L’art. 26 prevede l’unione di due o più comuni appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti per l’esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi. L’ art. 11 disciplina la fusione prevedendo, inoltre, che non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti. Tale normativa è stata successivamente riformata con Legge nr 265 del 3 agosto 1999 in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali.

Tale norma vista la necessità di controllare la spesa pubblica ha disciplinato l’istituto dell’Unione come modello di gestione associata di funzioni, a cui è riconosciuta potestà statutaria e potestà regolamentare, non più destinato obbligatoriamente alla sua conversione in fusione. Questa impostazione viene poi ripresa dall’art. 32 TUEL e confermata dai successivi interventi del legislatore in materia quali la Legge Delega 42/2009[23], il d.l. 78/2010 e il d.l. 95/2012[24].

L’istituto della fusione è previsto dall’art. 15 dello stesso TUEL il quale, dopo aver specificato che la modifica delle circoscrizioni territoriali dei Comuni è demandata alle Regioni sentite le popolazioni interessate e nelle forme previste dalla legge regionale, tramite richiamo agli artt. 117 e 133 della Costituzione, definisce la fusione quale istituto da utilizzare con preferenza nell’istituzione di nuovi comuni. L’istituzione di un nuovo Comune tramite fusione deve essere attuata con legge regionale e deve prevedere adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi per le comunità di origine[25].

Il legislatore italiano, però, non ha dato avvio a politiche di incentivazione al riordino e alla riduzione del numero dei piccoli comuni preferendo forme di fusione volontaria ad operazioni di accorpamento autoritativo[26].

Dunque l’Italia, pur avendo previsto strumenti di cooperazione istituzionale volti al perseguimento del federalismo fiscale tramite i quali lo Stato ha tentato di adottare politiche di riordino territoriale per limitare l’eccessiva polverizzazione del livello amministrativo comunale, nei fatti non è poi corrisposta la diminuzione proprio di quei livelli amministrativi sottostanti[27].

Nello specifico, l’art. 12, comma f), della Legge Delega 42/2009 ma non ancora attuato, prevede forme premiali per favorire unioni e fusioni tra comuni, anche attraverso l’incremento dell’autonomia impositiva o diverse aliquote di compartecipazione ai tributi erariali al fine appunto di razionalizzare le spese dei piccoli comuni, dislocati su tutto il territorio italiano, spesso adiacenti o contigui, e l’eventuale sfruttamento di forme di economie di scala e di economie di scopo.

Il legislatore, a partire dall’anno 2010, ha quindi adottato una serie di riforme volte a rendere obbligatorio l’associazionismo per i piccoli Comuni nella gestione delle funzioni fondamentali.

Il Decreto Legge 78/2010 (convertito in legge 122/2010), all’art. 14, comma 28, prevede per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti che le funzioni fondamentali previste dall’art. 21, comma 3 della legge n. 42 del 2009 siano obbligatoriamente esercitate in forma associata attraverso convenzione o unione. Stessa cosa vale per i comuni appartenenti o già appartenenti a comunità montane con popolazione stabilita dalla legge regionale e comunque inferiore a 3.000 abitanti[28].

Successivamente tale materia è stata riformata dal d.l. 98/2011 (convertito nella legge 111/2011) il cui art. 20, comma 2-quater dispone il minimo demografico in 5.000 abitanti o nel quadruplo del numero degli abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli associati. Il d.l. 138/2011 (convertito nella legge 148/2011) all’art. 16, commi 22 e ss cambia il limite demografico in 10.000 abitanti, salvo diverso limite individuato dalla Regione entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione al decreto legge[29].

Tale normativa ha in parte modificato la precedente ed in parte specificato l’istituto dell’unione dei comuni, in relazione alla sua formazione e funzionamento e l’esercizio associato delle funzioni riguardo al nuovo criterio demografico e temporale.

Da segnalare, infine, il d.l. 95 del 2012 (convertito con legge 135 del 2012) che, all’art. 19, dopo aver individuato le funzioni fondamentali dei Comuni[30], stabilisce che i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti esercitino obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l), introducendo uno scadenzario per l’attuazione di tale norma (1° gennaio 2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali; 1° gennaio 2014 con riguardo alle restanti funzioni fondamentali) e, per quanto riguarda i comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti, sostituisce l’obbligo di esercitare in forma associata tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di comuni “speciale”[31], con la facoltà di tale esercizio.

Ultima riforma in materia è la legge 7 aprile 2014 nr 56, cosiddetta legge Delrio, che interviene modificando gli istituti dell’unione (art. 1 commi 4, da 104 a 115, 131 e 134) e della fusione (art. 1 commi da 116 a 134) dei Comuni; una disposizione per favorire la fusione di comuni è stata poi introdotta con il decreto-legge 90 del 2014.

Altre disposizioni in materia di unioni e fusioni di comuni sono state introdotte dal decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, dalla legge di stabilità 2015 e dalla legge di stabilità 2016 n. 208 del 2015 con cui sono state introdotte alcune disposizioni volte ad incentivare le unioni e fusioni di comuni, sia di tipo finanziario, sia relative alle risorse del personale[32].

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  1. L’unione, Fusione e convenzioni

La Legge nr 56/2014, cosiddetta Legge Delrio, è l’ultima legislazione corposa in ordine temporale che disciplina l’istituto dell’unione e della fusione dei Comuni.

Innanzitutto al comma 104 dell’art. 1 prevede l’abrogazione dell’unione speciale[33], ossia dell’unione dei comuni fino a 1.000 abitanti per l’esercizio associato delle funzioni amministrative, dei servizi pubblici e di altre funzioni, quali la programmazione economico-finanziaria, la potestà impositiva e patrimoniale.

Rimangono in vigore, invece, le altre due forme di unione, come disciplinate dall’art. 32 del TUEL, l’una facoltativa per l’esercizio associato di determinate funzioni e l’altra obbligatoria per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti per l’esercizio delle funzioni fondamentali.

Da sottolineare il comma 89 dell’art. 1 L. 56/2014 che prevede la possibilità per lo Stato e le regioni, secondo le proprie competenze, di poter attribuire alcune funzioni provinciali alle unioni di comuni.

La Legge 56 si propone anche di incentivare l’utilizzo dell’istituto dell’unione e della fusione, prevedendo al comma 131 la possibilità da parte delle Regioni di incentivare misure idonee e al comma 134 di dare priorità nell’accesso alle risorse per la presentazione di progetti per unione e fusione di cui all’articolo 18, comma 9, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69[34], convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98.

L’istituto della fusione di comuni, che si differenzia dall’unione per il fatto che il processo stesso di fusione comporta la soppressione di più Comuni preesistenti o l’incorporazione di un Comune in un altro già esistente, è disciplinata dai commi da 116 a 134 dell’art. 1 della legge 56/2014.

La legge Delrio prescrive che in caso di fusione[35] il comune che nasce da tale procedura adotta uno statuto che può prevedere anche forme particolari di collegamento tra il nuovo comune e le comunità che appartenevano ai comuni oggetto della fusione.

Il comma 117 prevede una misura accelerativa del procedimento di adozione dello statuto prevedendo che i comuni, anche prima dell’istituzione del nuovo ente, possono definirne lo statuto; tale statuto “provvisorio” entra in vigore con l’istituzione del nuovo comune e rimarrà vigente fino a che non sia eventualmente modificato dagli organi del comune frutto della fusione. Inoltre, si prevede che sia lo statuto del nuovo comune, e non più la legge regionale che lo istituisce, a contenere misure adeguate per assicurare alle comunità dei comuni oggetto della fusione forme di partecipazione e di decentramento dei servizi[36].

I successivi commi stabiliscono delle agevolazioni nel caso di utilizzo della fusione: il comma 118 prevede norme di maggior favore, incentivazione e semplificazione; il comma 119 prescrive che il nuovo comune può utilizzare i margini di indebitamento consentiti dalle norme vincolistiche in materia a uno o più dei comuni originari e nei limiti degli stessi, anche nel caso in cui dall’unificazione dei bilanci non risultino ulteriori possibili spazi di indebitamento per il nuovo ente; il comma 128 stabilisce che la nascita del nuovo ente non priva i territori dei comuni estinti di eventuali benefici di cui godono in quanto stabiliti dall’Unione europea e dalle leggi statali e che il trasferimento della proprietà dei beni mobili e immobili dai comuni estinti al nuovo comune è esente da oneri fiscali.

Una serie di commi è poi volta a disciplinare il passaggio dalla vecchia alla nuova gestione tramite disposizioni organizzative di tipo procedurale (commi 120, da 122 a 127 e 129).

Inoltre, la legge 56/2014 al comma 130 ha introdotto una nuova forma di fusione di comuni denominata fusione per incorporazione in cui i comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione di un comune contiguo mantenendo, per il comune incorporante, la propria personalità secondo quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 15 del testo unico[37].

Successivamente alla Legge Delrio a sostegno dell’istituto della fusione di comuni è stato emanato il decreto-legge 90/2014, convertito con legge 114/2014, che all’art. 23 comma 1 estende alle fusioni per incorporazione la concessione del contributo straordinario previsto dall’art. 5, comma 3, del TUEL (innalzato con la legge di stabilità 2016, L. 208/2015); la legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) che all’art. 1, comma 450 ha introdotto alcune disposizioni in favore delle fusioni di comuni con riferimento alla spesa per personale e risorse umane; il D.L. 210/2015, che all’art. 4, comma 4-bis prevede l’esonero, per i comuni istituiti per fusione entro il 1° gennaio 2016, dall’obbligo del rispetto delle disposizioni relative alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica introdotti per gli enti territoriali dalla legge di stabilità 2016 (L. 208/2015, art. 1, co. 709-734), mentre i comuni istituiti per fusione dal 2011, e comunque anche quelli sotto i 1.000 abitanti, hanno la priorità nell’assegnazione egli spazi finanziari – ceduti dalla Regione agli enti locali del proprio territorio – nell’ambito della disciplina della flessibilità della regola del pareggio di bilancio in ambito regionale (L. 208/2015, art. 1, co. 729); infine il D.L. 113/2016, che all’art. 7, comma 4 esclude dalle sanzioni previste a carico degli enti locali che non hanno rispettato il Patto di stabilità interno per il 2015 i comuni estinti a seguito di fusione[38].

Infine è importante accennare ad un’alternativa agli istituti citati: l’istituto della convenzione integralmente disciplinato dal TUEL, senza alcuna modifica al riguardo da parte della Legge 56/2014. L’art. 30 Tuel difatti dispone che gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi.

Con la stipula della convenzione non si ha la costituzione di un nuovo ente, come avviene per l’unione, ma solo la scelta da parte dei comuni di gestire in maniera associata alcune funzioni, anche temporaneamente; non è prevista alcuna soglia demografica né limiti al numero di convenzioni stipulabili da parte del singolo Comune e neanche vincoli a mettere insieme risorse di alcun tipo tra i Comuni convenzionati, trattandosi di un modello totalmente flessibile[39].

 

  1. Uno sguardo all’Europa: gli esempi di Spagna, Francia e Germania

A partire dal 2013, a seguito delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea agli Stati membri i legislatori nazionali hanno dato avvio a riforme del riassetto del sistema degli enti locali finalizzate alla riduzione dei costi.

Ad esempio in Spagna[40] il modello territoriale dello Stato è previsto dal titolo VIII della Costituzione del ’78 che lascia al legislatore piena libertà nella determinazione del modello concreto di regime locale. I Comuni (municipios) sono divisi in quattro classi (comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, fino a 20.000 abitanti, superiore a 20.000 abitanti e superiore a 50.000 abitanti) sulla base dei servizi minimi che devono prestare in base al livello della popolazione. A loro fianco erano previsti enti intermedi (province, unioni e comarche), ma nel 2013 il Governo ha eliminato tutte quelle forme intercomunali non operative, lasciando in vita solo quelle rispondenti a determinati criteri di efficienza e di rigida disciplina di bilancio.

Tale riforma è stata attuata con la Ley 27/2013 che ha ridefinito le competenze dei municipios, incentivandone le fusioni ed il trasferimento dei servizi di rete dei Comuni inferiori a 20.000 abitanti alle Province, nel caso in cui i municipios non fossero in grado di dimostrare l’efficienza della loro prestazione in termini di costi e la Provincia potesse assicurare il coordinamento della prestazione con altri Comuni o assumere direttamente la prestazione.

Anche la Francia[41] dal 2014 ha dato avvio ad un processo di riforma della struttura territoriale del Paese sia in termini di riorganizzazione del territorio che in termini di rimodulazione delle funzioni e delle competenze delle collettività locali, quale ad esempio la fusione delle Province con le Metropoli. Con la Legge del 16 gennaio 2015 si è realizzato l’accorpamento delle Regioni (che sono passate da 22 a 13) e la Legge del 7 agosto 2015, eliminando la clausola generale di competenza, ha limitato le competenze esercitabili dagli enti locali a quelle espressamente attribuite dalla legge. Si è voluta potenziare in questo modo la intercomunalità o intermunicipalità, riservando le competenze economiche alle Regioni e restringendo il campo delle competenze dipartimentali alla solidarietà sociale e territoriale.

Tale semplificazione garantisce la riduzione degli sprechi ed un incremento di efficienza tagliando le spese, incrementando la qualità dei servizi e rilanciando la crescita economica, sia a livello nazionale che locale, con l’effetto di ridurre l’imposizione fiscale.

La Germania[42] è la nazione più popolosa dell’Unione Europea e circa un terzo della popolazione vive in città con più di 100mila abitanti; la struttura istituzionale tedesca è costruita su tre livelli di governo (federale, nazionale e locale), articolata in 16 Lander, di cui 3 città-stato, 408 Distretti (Kreise) di cui 301 distretti rurali (Landkreise) e 107 città-distretto (reisfreie St dte) e 12.302 comuni (gemeinde).

Tale Stato da molto tempo si impegna con riforme territoriali dal basso proprio per ottenere il coinvolgimento attivo degli enti locali, quali veri attori delle riforme, perseguendo l’obiettivo dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

Fin dagli anni ‘70 i Länder tedeschi hanno avviato un processo di ottimizzazione della struttura amministrativa tedesca; i comuni stessi hanno dato vita a svariate fusioni, alcune volontarie e altre imposte dall’alto, con una diminuzione del numero degli stessi enti da 24.000, all’inizio degli anni ’80, ad appena 8000.

Il governo federale ha sempre sostenuto i Länder nel processo di riordino dei Comuni e Circondari tramite incorporazioni e fusioni, considerando tale riordino il mezzo per ottenere una reale riduzione dei costi e un’ottimizzazione della gestione del territorio.

Le riforme territoriali portate avanti in una prima fase tra il 1968 e il 1978 (e poi riprese dopo la riunificazione nei Lander dell’Est), hanno conseguito risultati considerevoli, sia per quanto concerne i Comuni, ridotti da 24.282 a 8505 (-65%, con punte di -80% in alcuni Länder), sia per i Circondari, ridotti da 425 a 237, (- 44,7%).

Il processo di riordino territoriale ha interessato i Comuni di minori dimensioni determinandone una netta diminuzione: nel periodo 1968-1989 i Comuni inferiori a 500 abitanti sono passati da 10760 a 1735; quelli tra 500 e mille abitanti da 5706 a 1400; quelli tra 1000 e 2000 abitanti da 3850 a 1631; quelli tra 2000 e 5000 abitanti da 2406 a 1699.

Tale processo ha poi conosciuto una sua seconda fase dopo la riunificazione, tra il 1991 e il 1994, per riordinare i territori della ex Germania Est, in considerazione della eccessiva parcellizzazione della popolazione in troppi piccoli Comuni, conducendo al dimezzamento del numero dei Circondari, passati da 189 a 92 e alla riduzione di circa il 17% del numero dei Comuni, passati da 7622 a 6293.

 

  1. La situazione attuale (in Italia): conclusioni

Tornando al quadro nazionale, si può in conclusione affermare che il legislatore al fine di migliorare l’efficienza e l’efficacia economica delle risorse messe a disposizione al territorio locale ha incentivato l’associazionismo e per fare ciò ha persino calendarizzato l’entrata in vigore dell’obbligo di esercizio associato delle funzioni dei piccoli comuni, previsto dal decreto-legge n. 78 del 2010 con la seguente scadenza temporale: entro il 1° gennaio 2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali, entro il 30 settembre 2014, con riguardo ad ulteriori tre delle funzioni fondamentali, entro il 31 dicembre 2014, con riguardo alle restanti funzioni fondamentali di cui al comma 27.

Tali termini sono stati però prorogati prima al 31 dicembre 2015 (D.L. 192/2014, art. 4, co. 6-bis), poi al 31 dicembre 2016 (D.L. 210/2015, art. 4, co. 4), quindi al 31 dicembre 2017 (D.L. 244/2016, art. 5, co. 6), al 31 dicembre 2018 (legge di bilancio 2018), al 30 giugno 2019 (art. 1, comma 2-bis, DL 91/2018) e da ultimo al 31 dicembre 2019 (art. 11-bis, comma 1, D.L. 135/2018).

Quest’ultimo decreto-legge 135/2018 ha, altresì, istituito un tavolo tecnico-politico, presso la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, per dare avvio ad un processo di revisione della disciplina di province e città metropolitane.

Anche la Corte costituzionale ha avuto modo di affrontare il tema dell’associazionismo degli enti locali e con la Sentenza n. 33/2019 dove ha affermato che la disposizione che impone ai comuni con meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le funzioni fondamentali è incostituzionale là dove non consente ai comuni di dimostrare che, in quella forma, non sono realizzabili economie di scala o miglioramenti nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento. Sin altre parole secondo la Corte, l’obbligo suddetto dovrebbe essere applicato anche in situazioni limite come ad esempio quando non esistono Comuni confinanti anch’essi obbligati, oppure la collocazione geografica dei confini dei Comuni (per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori antropici, dispersione territoriale e isolamento) non consente di raggiungere gli obiettivi normativi.

I Comuni, invece, soprattutto quelli di ridotta dimensione demografica, si sono sempre più interessati a queste forme di associazionismo, soprattutto a causa del difficile quadro finanziario e ordinamentale che hanno dovuto fronteggiare.

Per verificare quanto in concreto la gestione associata delle funzioni è stata ad oggi utilizzata dagli enti locali è interessante analizzare il documento conclusivo approvato dalla I Commissione della Camera nella seduta del 28/11/2016. Al termine dell’indagine conoscitiva sul tema, emerge che a seguito del decreto-legge n. 78/2010 e successiva legge n. 56/2014 si registra un segno positivo: mentre nel 2009 le unioni riguardavano solo pochi comuni, alla data del 4 ottobre 2016 risultano istituite 536 unioni relativamente a 3.105 comuni, di cui 1.004 con popolazione inferiore ai 1000 abitanti.

Sicuramente viene riconosciuta una reale riduzione dei costi su scala nazionale e in una prospettiva diacronica e alcuni miglioramenti sul fronte della efficienza nella erogazione dei servizi e delle economie di spesa ma vengono ancora riscontrati, anche se pochi, una moltiplicazione degli uffici[43].

Se da un lato, dunque, l’istituto dell’associazionismo ha una reale efficacia ed è utilizzato in maniera crescente, visto anche l’esempio dei più grandi paesi europei, dove questo istituto è utilizzato quale mezzo per una gestione più razionale efficace ed efficiente dell’organizzazione amministrativa, non si possono sottacere gli elementi di criticità incontrati, problematiche queste che il legislatore dovrà affrontare tenendo a mente la centralità degli enti locali nell’ordinamento istituzionale nazionale, quali soggetti direttamente eletti dai cittadini, erogatori di servizi e funzioni primarie per la vita di cittadini e imprese, e importanti motori di sviluppo locale.

Note

[1] G. Antonucci, A. Gitto M. Venditti, Financially Distressed Local Governments Recovery Plan, Appunti, Università degli Studi di Chieti, 2016.

[2] E. De Marco, Il regime costituzionale delle Autonomie locali tra processi e prospettive di riforma, Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, nr. 2/2015 del 17/04/2015.

[3] Lo Statuto del Regno o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia del 4 marzo 1848, conosciuto come lo Statuto Albertino dal nome del Re che lo ha promulgato, Carlo Alberto di Savoia, era la Costituzione adottata dal Regno Sardo Piemontese.

[4] L. Giovenco, Il Prefetto organo del Governo nella Provincia, in AA. VV., Cento anni di Amministrazione Italiana, cit., p. 221, con richiamo di M.S. GIANNINI, Autonomia locale e autogoverno, in Corriere amministrativo, 1948, n. 21-22.

[5] A. Grasso, L’autonomia normativa dei comuni e il principio di legalità, Quaderno di ricerca, p. 4, Università dell’Insubria, 2005.

[6] Con la Legge 25 marzo 1993 nr. 81 vengono emanate le norme per l’elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale;

[7] Con la Legge 15 marzo 1997 nr. 59 inerente la riforma della Pubblica Amministrazione e semplificazione amministrativa, si attribuiva ai Comuni, Provincie e Comunità montane la generalità dei compiti e le rispettive funzioni ai Comuni. Con il successivo, d.lgs 112, pur attribuendo tali compiti e funzioni amministrative imponeva alcuni limiti quali il principio del conferimento, la forma associativa e la dimensione territoriale.

[8] Tale legge e le successive (Legge 15 maggio 1997, n.127; Legge 16 giugno 1998, n.191 e Legge 8 marzo 1999, n.50), redatte da Franco Bassanini in materia di pubblica amministrazione prendono il nome di Legge Bassanini.

[9] Con la legge nr. 265 del 3 agosto 1999 vengono riformati, tra gli altri, gli articoli 4 e 5 della 142/1990

[10] L. Vandelli, (1999), Autonomia statutaria e regolamentare a partecipazione popolare, in A. Vigneri, S. Riccio, (a cura di) Nuovo ordinamento degli enti locali e status degli amministratori, Rimini, 1999. Cfr anche T. Miele, La potestà regolamentare dei comuni e delle provincie dopo la legge n. 265/99, in nuova rassegna, 1999.

[11] E. De Marco, Il regime costituzionale delle Autonomie locali tra processi e prospettive di riforma, Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, nr. 2/2015 del 17/04/2015.

[12] Le funzioni proprie sono quelle scelte politiche considerate in misura urgenti in una determinata comunità in materia di politica economica del Comune.

[13] Scanniello, M. (2010), La distribuzione delle funzioni amministrative nel nuovo Titolo V, articolo del 04.11.2010, Rivista diritto.it.

[14] c.d. spending review.

[15] C. Garbarino, Federalismo fiscale in Italia: dalla finanza derivata al modella a struttura variabile, articolo, Università L. Bocconi, Milano, 2015.

[16] La Legge costituzionale 1/2012 è stata emanata in attuazione del Trattato approvato dai 25 Stati membri dell’Unione europea e noto come “Fiscal Compact” e prevede l’obbligo per gli Stati membri di recepire il principio del pareggio di bilancio nei propri ordinamenti.

[17] E. De Marco, Il regime costituzionale delle Autonomie locali tra processi e prospettive di riforma, Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, nr. 2/2015 del 17/04/2015.

[18] Corte costituzionale nr 37 del 26 gennaio 2004.

[19] Si cfr supra pag. 5.

[20] L. Greco, “Unione dei Comuni, federalismo e governance” articolo pubblicato sul sito internet www.portalefederalismofiscale.gov.it

[21] SNA (Scuola Nazionale dell’Amministrazione), Federalismo fiscale municipale, Guida alla lettura del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 “Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale” in www.sna.gov.it.

[22] Si cfr nota nr 21

[23] La Legge delega al governo in materia di federalismo fiscale.

[24] F. Politi, “Dall’Unione alla fusione dei Comuni: il quadro giuridico” articolo pubblicato nella rivista Istituzioni del Federalismo – Rivista di studi giuridici e politici, 2012.

[25] A. Pirani, “Le fusioni di Comuni: dal livello nazionale all’esperienza dell’Emilia-Romagna” articolo pubblicato nella rivista Istituzioni del Federalismo – Rivista di studi giuridici e politici, 2012.

[26] M. Fedele, G. Moini, Cooperare conviene? Intercomunalità e politiche pubbliche, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 2006, pp. 38-39.

[27] A. Pirani, “Le fusioni di Comuni: dal livello nazionale all’esperienza dell’Emilia-Romagna” articolo pubblicato nella rivista Istituzioni del Federalismo – Rivista di studi giuridici e politici, 2012.

[28] Per la specifica disciplina si cfr art 14 d.l. 78/2010 dal comma nr 25 al comma nr 31.

[29] Quante Unioni, quali Unioni. Studio sulle Unioni di Comuni in Italia1. Mariano Marotta, Università della Calabria XXIX Convegno SISP Società Italiana di Scienza Politica Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Arcavacata di Rende (Cosenza) 10 – 12 settembre 2015 Sezione 10 Studi regionali e politiche locali (Regional studies and local policies) Sezione 7 Amministrazione e politiche pubbliche

[30] Si cfr supra pag. 5.

[31] Si cfr supra pag. 14.

[32] I Commissione Permanente – Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni, (2016), “Indagine conoscitiva sulla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali: esame del documento conclusivo”.

[33] Si cfr supra pag. 14 e 15; come già visto si tratta di una particolare forma di unione di comuni, disciplinata in deroga all’art. 32 del TUEL, introdotta dal d.l. 138/2011 all’art. 16 in via obbligatoria e successivamente resa facoltativa dal d.l. 95/2012 con l’art. 19.

[34] Primo Programma cd. “6.000 campanili” che stanzia fondi per opere infrastrutturali nei piccoli Comuni.

[35] Fermo restando quanto previsto dall’articolo 16 del testo unico: “Nei comuni istituiti mediante fusione di due o più comuni contigui lo statuto comunale può prevedere l’istituzione di municipi nei territori delle comunità di origine o di alcune di esse. Lo statuto e il regolamento disciplinano l’organizzazione e le funzioni dei municipi, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale diretto. Si applicano agli amministratori dei municipi le norme previste per gli amministratori dei comuni con pari popolazione”.

[36] Commissione I Affari Costituzionali, Regioni, autonomie e servizi pubblici locali, “Unioni e fusioni di comunihttp://www.camera.it/leg17/465?tema=unioni_fusioni_comuni#m, 2016.

[37]A norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale limite”.

[38] Cfr. 36.

[39] A. Poggi, “Unione e fusione di Comuni” in “Riforma delle autonomie territoriali nella legge Delrio”, Studi di federalismi.it 9788824323253, 2014, pp. 101-132.

[40] https://www.iusinitinere.it/le-fusioni-dei-comuni-in-europa-cosa-e-accaduto-in-spagna-e-francia-10764.

[41] Cfr n. 40

[42] A. L. Piani, Le Unioni dei Comuni nel sistema europeo, Tesi di Laurea Magistrale presso Università Telematica e-Campus Facoltà di Giurisprudenza, 2014.

[43] Camera dei Deputati, “Unione e fusione dei Comuni” pubblicato in data 04/03/2019 on line in http://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1105809.pdf?_1555520990223.

 

* Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche e Politiche.

 

Gianluca Trenta

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