Terrorismo: Giudice per le indagini preliminari Tribunale Venezia, Ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 2937/06 R.G. G.I.P. del 10 luglio 2006

Scarica PDF Stampa
ORDINANZA CHE DISPONE LA CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE
Il Giudice per le indagini preliminari dr. Giandomenico Gallo
esaminata la richiesta del Pubblico Ministero nel procedimento indicato in oggetto per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di:
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
tutti indagati per il seguente reato:
a) art. 270 bis c.p., per avere partecipato all’associazione terroristica internazionale di matrice fondamentalista islamica denominata GRUPPO SALAFITA PER LA PREDICAZIONE E IL COMBATTIMENTO (G.S.P.C.), funzionalmente collegata alla rete dell’organizzazione terroristica internazionale denominata Al Quaeda, volta al compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico in Italia ed all’estero, nella specie operando in un gruppo con base logistica in Vicenza, e collegamenti operativi con gli attivisti operanti in Brescia, Napoli e Salerno, volto alla realizzazione di un programma criminoso contemplante:
–          la preparazione ed esecuzione di azioni terroristiche o, comunque, violente da attuarsi in Italia o all’estero contro governi, forze militari, istituzioni e civili nel contesto del progetto globale di “Jihad ”, per l’affermazione universale dei sacri principi dell’Islam;
–          la raccolta dei finanziamenti necessari per il raggiungimento degli scopi dell’associazione;
–          il proselitismo effettuato attraverso video e audiocassette, documenti propagandistici e sermoni incitanti ad azioni violente ed al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire gli “infedeli”;
–          il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in Italia e verso gli altri Stati dove operano i militanti dell’organizzazione;
–          il procacciamento di falsi documenti d’identità, contratti di lavoro e permessi di soggiorno per i componenti dell’organizzazione;
–          la predisposizione, comunque, di tutti i mezzi necessari per l’attuazione del programma criminoso dell’associazione e per il sostegno ai “fratelli” ovunque operanti secondo il programma descritto;
accertato in Vicenza e altrove dal 2004, permanente al maggio 2006.
 
Tutti, inoltre, ad eccezione di …, in ordine al reato seguente:
b) art. 416 c.p., per avere promosso un’organizzazione, attiva in Italia e all’estero, dedita al procacciamento e alla falsificazione di documenti d’identità, permessi di soggiorno e contratti di lavoro tali da consentire anche il favoreggiamento dell’immigrazione e permanenza illecite nel territorio dello Stato Italiano; con l’aggravante di cui all’art. 1 della legge 6/2/1980, n. 15, avcendo commesso il reato per le finalità di terrorismo di cui al capo a);
in Brescia, Vicenza e altrove, accertato dal 2004, permanente al maggio 2006
letti gli atti;
 
OSSERVA
§1. genesi del procedimento
Il presente procedimento ha avuto origine a seguito dell’attività investigativa che è stata avviata nell’aprile 2005 in relazione alle indagini di cui al procedimento penale nr. 44946/03-R-G-N.R. della Procura della Repubblica di Napoli instaurato nei confronti di alcuni algerini, residenti in Italia tra le province di Napoli, Salerno, Vicenza e Brescia, ritenuti organici a cellule eversive internazionali di matrice confessionale islamica, riconducibili all’organizzazione terroristica algerina “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento” (G.S.P.C.) [1].
Tale organizzazione, attraverso l’uso della violenza, si prefigge di instaurare in Algeria un ordinamento statuale e sociale fondato sulla più rigida interpretazione della Sharia[2], collaborando altresì, come gruppo affiliato, al perseguimento degli obiettivi terroristici fissati dal “Fronte Islamico Internazionale Contro gli Ebrei e i Cristiani”costituito nel 1998 dallo sceicco saudita Osama Bin Laden[3].
Il citato procedimento penale partenopeo costituiva, a sua volta, stralcio di una pregressa iniziativa giudiziaria contro una rete logistica di sostegno al G.S.P.C., operante in Italia ed all’estero, coordinata dal terrorista algerino Lounici Djamel[4].
L’attività investigativa originava dalla necessità di accertare l’esistenza e l’operatività nel Veneto, e segnatamente nella provincia di Vicenza, di una rete di sostegno logistico, costituita da uomini animati da progetti jihadisti in chiave antioccidentale, pronta a collaborare per la realizzazione di azioni delittuose ispirate o collegate al citato “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”.
Il G.S.P.C. risulta documentatamente[5] collegato all’organizzazione terroristica internazionale “Al Qaeda[6] per la realizzazione di un complessivo programma terroristico, sorretto da una maglia di basi, cellule e gruppi affini, presenti in Italia ed in altri Paesi dell’Unione Europea[7], aventi finalità di supporto logistico, di propaganda, proselitismo e di reclutamentodi volontari da destinare al combattimento o al martirio, in nome della jihad [8].
Il 14.11.2005 il P.M. di Napoli emetteva un “Decreto di Fermo di Indiziato di Delitto” nei confronti di L. nonché di B. e S. – indagati anche nel presente procedimento – in quanto accusati per i reati di cui agli artt. 270 bis commi 1, 2 e 3 e 416 c.p.; 81 cpv., 110-482, in relazione agli artt. 476, 477, 468; 81 cpv., 110-648; con l’aggravante della “finalità di terrorismo” di cui all’art. 1 della Legge nr. 15/1980.
Ovvero, perché ritenuti organici ad un’associazione con finalità di terrorismo internazionale, in Italia ed all’estero, e referenti in Italia di un’articolazione-rete di sostegno logistico dell’organizzazione terroristica di matrice confessionale denominata “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”, funzionalmente collegata all’organizzazione internazionale denominata “Al Qaeda”; nonché dediti al procacciamento, falsificazione, contraffazione di documenti di identità e permessi di soggiorno, ed al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con l’aggravante, appunto, della “finalità di terrorismo”.
In forza di detto provvedimento i predetti venivano fermati ed il G.I.P. di Napoli convalidava il fermo di B., confermando l’ipotesi associativa ed emetteva nei confronti del fermato una ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Il G.I.P. di Brescia, invece, ratificava il fermo a carico di S. e di L., sanzionando però la custodia cautelare in carcere per i soli reati di associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di documenti, rinviando i relativi atti per competenza alla A.G. partenopea.
Il G.I.P. del Tribunale di Napoli, quindi, accogliendo la richiesta del P.M.[9] confermava tutte le ipotesi di reato a carico del S. e del L., compresa quella associativa di cui all’art. 270 bis, disponendo per i due la custodia cautelare in carcere.
Qualche giorno dopo, recependo la richiesta inoltrata dal locale P.M., a sua volta il G.I.P. del Tribunale di Salerno emetteva ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di B. e di altri due algerini, anch’essi indagati a vario titolo per il reato di cui all’articolo 270 bis c.p. e per il reato di contraffazione di numerosi documenti personali con l’aggravante della “finalità di terrorismo” di cui all’art. 1 della Legge nr. 15/1980.
Gli stessi erano ritenuti componenti di una cellula territoriale autonoma, cosiddetta “dormiente”, nonché dediti alla contraffazione di documenti di identità personale, di permessi di soggiorno e di contratti di lavoro, avendo realizzato un’associazione con finalità di terrorismo o di eversione costituente articolazione dell’organizzazione terroristica sopranazionale di matrice confessionale “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”, come si è detto funzionalmente collegata all’organizzazione internazionale denominata “Al Qaeda”.
Va precisato che in data 15.02.2006 il Tribunale del Riesame di Napoli ha confermato la custodia cautelare in carcere a carico di B. per le ipotesi delittuose che ne avevano portato al fermo.
§2. IL Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento
Ex colonia francese fino al 1962, l’Algeria ha conosciuto le prime elezioni multipartitiche solo nel 1992, stravinte dal “Fronte Islamico di Salvezza” (F.I.S.).
Ne è seguito un golpe dei militari che hanno annullato il risultato elettorale e messo fuori legge il F.I.S.
Il partito del “Fronte di Salvezza Islamico” è stato sciolto dal governo algerino ed è da allora sottoposto a persecuzione, tanto che alcuni dei suoi iscritti sono stati accolti da alcune nazioni europee, tra cui anche l’Italia, come rifugiati politici[10].
Esso[11], poi, organizzatosi militarmente nell’Armata Islamica di Salvezza (A.I.S.) e affiancato dal Gruppo Islamico Armato (G.I.A.), ha iniziato una violenta lotta contro il regime, presto degenerata in cruenti atti terroristici contro la popolazione civile.
Alla messa al bando del F.I.S., seguita dall’incarcerazione o dall’esilio dei suoi principali dirigenti, ha fatto seguito un’estrema frammentazione del mondo fondamentalista islamico, da cui è emersa l’ala ultra-fondamentalista del G.I.A. contrapposta all’A.I.S., esercito islamico di salvezza, che deriva più direttamente dal F.I.S.
Il G.I.A. si è impegnato in una guerra, più che decennale, contro il regime di Algeri, nel corso della quale sono morte almeno centomila persone.
Nel 1999, dopo 7 anni di guerra, il primo presidente civile, Abdelazaz Bouteflika, ha lanciato il processo di pace, offrendo l’amnistia in cambio del disarmo dei gruppi islamici.
Molti hanno accettato lo scambio, ma non le fazioni integraliste come il G.I.A., che ha continuato a seminare terrore e morte nei villaggi del Paese.
In particolare, il terrorismo radicale algerino si è frammentato in decine di sigle che spesso si combattono fra loro con la stessa ferocia con cui si oppongono al governo.
Nel 1997, lo sterminio di interi villaggi composti da musulmani innocenti – massacrati da frazioni del G.I.A. all’insegna del “chi non è esplicitamente con noi è contro di noi” – portano uno dei principali dirigenti del movimento, Hasan Hattab, a denunciare le forme indiscriminate di violenza e a formare un’organizzazione separata, il “Gruppo salafita[12] per la predicazione e il combattimento” (G.s.p.c.).
Quest’ultimo è tutt’altro che un gruppo non violento, tanto vero che complessivamente il G.I.A. e il G.s.p.c. sono responsabili in Algeria di circa centomila omicidi.
In pratica, nel complesso scenario algerino, il G.s.p.c. appare la formazione più legata a Bin Laden e ad al Qaeda[13].
Come si è detto, l’amnistia offerta alla guerriglia dal presidente Bouteflika nel 2000 è stata accettata dall’A.I.S., ma non dal G.s.p.c. (che ha continuato a compiere attentati in Algeria e all’estero) né dalla maggioranza delle frazioni del G.I.A.
Sconfitte sul piano militare in Algeria le due formazioni sono ancora attive in occidente, Italia compresa.
In effetti, nel mese d’ottobre 1998 Hacéne Hattab, alias Abou Hamza, è stato designato quale emiro[14] nazionale dal G.S.P.C. ed in quel periodo in Europa sono state costituite “cellule clandestine” dell’organizzazione algerina; numerosi sostenitori di Hassan Hattab hanno trovato riparo soprattutto in Francia, Belgio, Italia, Spagna, Germania e Gran Bretagna.
All’indomani degli attentati di New York e di Washington, l’emiro Hattab ha diffuso un comunicato, datato 15 settembre 2001, nel quale minacciava esplicitamente di colpire, soprattutto in Algeria, “gli interessi dei Paesi europei e in particolare degli Stati Uniti”.
Hattab è stato sostituito nel 2003 da un vecchio capo terrorista, NABIL Sahraoui, alias Abou Ibrahim, il quale si è sottomesso al capo dei talebani, il Mullah Omar, tributando fedeltà ad Al Qaeda.
In alcuni comunicati diffusi dal G.S.P.C., che indicano i suoi rapporti con le organizzazioni terroristiche internazionali e la sua posizione nei confronti della “Carta per la Pace e la Riconciliazione Nazionale in Algeria[15], l’attuale emiro del G.S.P.C. ha ribadito la sua determinazione nel rifiutare la pace e nel perseguire la via del terrorismo fino all’instaurazione del Khilafa[16] nel mondo musulmano.
Per l’attuale emiro, il principale obiettivo consiste nel consolidare i legami di confraternita attraverso azioni armate con gli altri gruppi terroristici stranieri ed il suo sostegno diretto ad Al Qaeda.
Orbene, con Regolamento n. 881 del 27 maggio 2002, il Consiglio dell’Unione Europea, nel recepire le misure contro i talibani, Al Qaeda e i loro associati decise dal Comitato Sanzioni sull’Afghanistan del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla base delle risoluzioni 1267/1999,1333/2000 e 1390/2002, ha stilato una lista europea coincidente con quella dell’ONU e comprendente, oltre ai membri dei talibani e di Al Quaeda in senso stretto, gruppi legati al fondamentalismo islamico di diversa estrazione geografica: mediorientale, nordafricana, somala ed asiatica.
Fra i gruppi nordafricani sono indicati nella lista il Gruppo Islamico Armato, G.I.A., e il “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”, G.S.P.C.[17]
Con tale Regolamento l’Unione Europea ha adottato meccanismi sanzionatori[18] per colpire ogni tipo di terroristi, non limitato quindi solo ai talibani ed Al Qaeda, ma esteso a tutti i gruppi collegati a queste ultime organizzazioni, siano essi internazionali che interni al territorio dell’UE.
Quel che rileva è che in tal modo l’Unione Europea ha sancito la natura e l’attività terroristica del G.S.P.C. la qual cosa deve essere recepita dal giudice.
Infatti, la Corte di Cassazione[19] ha censurato il Tribunale del riesame laddove esso affermava che il Giudice non può ritenere fatti notori, quale, nel caso specifico, la ricostruzione delle vicende storiche del Paese di origine dell’associazione, quelli attinenti alla storia interna del Paese arabo in questione.
La Corte ha osservato che nella odierna società transnazionale ed integrata il fatto notorio, agli specifici fini di cui all’art. 270 bis c.p., non può essere valutato solo nell’ambito locale poichè in tal modo si omette di considerare fatti anche eclatanti che, per la loro rilevanza, sono da ritenere di comune conoscenza[20].
Pertanto, alla luce delle vicende storiche sopraccennate e del predetto Regolamento della Unione Europea si deve dare per pacifico ed accertato che il G.S.P.C. sia un’associazione che si propone atti di violenza con finalità di terrorismo come previsto dall’art. 270 bis c.p.
In tale prospettiva ed a riprova, basta richiamare – tanto per fare degli esempi – la sentenza emessa dalla VII Sezione del Tribunale di Napoli in data 22.032002, confermata nei gradi successivi, a carico di Luonici Djamel + 13, avente ad oggetto un ramificato sodalizio criminoso dedito al reclutamento di militanti, al sostegno logistico-finanziario ed al reperimento di armi, in sostegno di attività equivalenti all’odierna nozione di terrorismo, svolte in Algeria ed altrove dal G.I.A. e dal F.I.S. ovvero l’ordinanza di cattura emessa dal G.I.P. di Firenze in data 8.05.2004, nei confronti di Abdallah Adel Ben Maatallah + 4, facenti parte di una cellula riconducibile al G.S.P.C., e dedita al proselitismo ed al reclutamento di “martiri”, in collegamento con un gruppo attestato in Siria.
Importantissima, poi, è la sentenza dell’VIII Sezione del Tribunale di Milano del 2 febbraio 2004, confermata in sede di appello, contro Remadna Abdelhalim + 4, relativa alla presenza sul territorio italiano di cellule islamiche del G.S.P.C.
Infatti, in tale sentenza sono illustrate le attività delle cellule italiane di supporto al G.I.A. algerino, responsabile di una campagna terroristica contro la Francia, compiuta nel 1995, come azione di rappresaglia per il sostegno politico fornito al regime di Algeri nonché l’attività di una cellula algerina in Italia, principalmente impegnata nel reclutamento di volontari da inviare nei campi di addestramento per mujahiddin[21] in Pakistan ed Afghanistan, facendoli poi rientrare in Europa per poi ricollocarli in Algeria, a sostegno delle attività del G.S.P.C., o in Cecenia,   per sostenere la guerriglia contro i soldati russi.
Tra l’altro, nell’ordinanza di cattura del G.I.P. di Napoli del 18.11.2005, sulla scorta del provvedimento di fermo del P.M., si citano anchei verbali degli interrogatori resi dai cittadini algerini davanti al P.M. L. D., E. H. A. e G. Y.[22], che pur prendendo le distanze dal fenomeno hanno confermato l’esistenza del G.S.P.C., e l’operatività, dal punto di vista del proselitismo, di fautori di attività terroristiche.
Ed in effetti, è stato segnalato dal R.O.S. come esistano varie prove dell’impostazione terroristica del G.S.P.C. e dei suoi stretti rapporti con Al Quaeda.
Ad esempio, nel comunicato del “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”, datato 8.01.2005, il portavoce del G.S.P.C. Abu Yasser Sayyaf invitava all’unità dei combattenti della jihad  per il ripristino del califfato[23] e della legge islamica e per la cacciata dei “traditori e degli infedeli dalla penisola arabica”.
Nel comunicato[24] il leader salafita sollecitava altresì “l’invio di martiri allo sceicco[25] Abu Musab al Zarkawi”, cioè al noto leader di Al Qaeda in Iraq[26], rimasto ucciso recentemente in un bombardamento.
Ed ancora nel comunicato del 24.01.2005, intitolato “Congratulazioni e saluti del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento al Comitato jihad di Al Qaeda e al suo amato Comandante”, il predetto portavoce del G.S.P.C. Abu Yasser Sayyaf, a nome del comandante algerino Abu Musab Abdel Wadoud, si congratulava con lo sceicco Abu Musab Al Zarkawi per aver “inflitto sul nemico crociato e i loro agenti frustrazione e morte[27] e si scusava di non poter restituire un messaggio audio che lo stesso Al Zarqawi avrebbe inviato ai dirigenti del “Gruppo Salafita” algerino[28].
Inoltre, nello stesso comunicato, Abu Yasser alludeva ad un lavoro mediatico finalizzato alla “pubblicazione di una presentazione audio o video”, il cui esito potrebbe essere il video sui mujahiddin, intitolato “yutkhin_1.wmv”, scaricato il 28.06.2005 dagli indagati del presente procedimento A. e T. dal sito islamico <www.jihad -algerie.com>, di cui si parlerà più avanti.
E’ importante notare che in tale documento veniva anche ribadita la solidarietà al “padre dei mujahiddin, il generoso sceicco Osama Bin Laden” ed allo sceicco “comandante Mullah Omar” ad ulteriore riprova delle scelte ideologico-politiche del G.S.P.C.
Si cita ancora il comunicato del 27.09.2005, intitolato “Nessuna pace senza Islam”, con il quale Abu Musab Abdel Wadoud, comandante del G.S.P.C., respingeva la proposta di “concordia nazionale” incoraggiata dal presidente algerino Abdelaziz Boutleflika.
Il comunicato, nel quale venivano altresì citati i “benedetti attacchi” dell’11 settembre, si concludeva con un saluto “al nostro sceicco” Osama Bin Laden ed al “nostro fratello” Abu Musab Al Zarqawi.
§3. la struttura tipica di tali associazioni
Dall’organizzazione predetta si diramano, poi, negli altri Stati dei gruppi di aderenti – detti “cellule” – che perseguono non solo le finalità del nazionalismo algerino ma anche in genere gli obiettivi della jihad , il suo sostegno, il terrorismo internazionale sia dal punto di vista dell’effettuazione di attentati sia dal punto di vista del finanziamento, della collaborazione e di ogni tipo di favoreggiamento, il proselitismo, il procacciamento ai correligionari di documenti falsi[29].
In effetti, tutte le inchieste svolte non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa hanno consentito di individuare queste caratteristiche tipiche e le peculiarità dell’associazione con finalità di terrorismo internazionale prevista e punita dall’art. 270 bis c.p.
A riprova si indicano brevemente le indagini più importanti effettuate in Europa negli ultimi tempi.
u Su segnalazione delle autorità francesi, secondo le quali tre veterani afgani, di origine algerina, erano giunti in Germania per organizzare un attentato contro un obiettivo statunitense, tra il 25 ed il 26 dicembre 2000, a Francoforte, la polizia tedesca traeva in arresto i seguenti mujahiddin di origine algerina, tutti in possesso di falsi documenti francesi, Beandali Aeorubi, El Haddad Hicham, Maroni Lamine e Sabur Fouhad.
Ai medesimi venne, altresì, sequestrato il necessario per la fabbricazione di un micidiale ordigno esplosivo (circa trenta chilogrammi di permanganato di pentrite), in parte già miscelato, video-riprese della città di Strasburgo[30] ed altro materiale funzionale al compimento dell’attentato. Alcuni altri membri del gruppo riuscivano comunque a sottrarsi all’arresto.
I successivi sviluppi investigativi accertarono che i quattro erano affiliati alla rete di Abu Doha[31] e che erano stati preparati in Afghanistan, in uno dei campi di addestramento allestiti nel 1997 in quella regione da Redouane Laadjal, alias Moatez, svedese di origine algerina, vecchio simpatizzante del “G.I.A.”[32].
Nel medesimo contesto venne inoltre accertato che, in quello stesso periodo, erano stati assunti contatti telefonici con esponenti del G.S.P.C. in Inghilterra, preannuncianti un eclatante attentato in una piazza affollata ed identificati gli organizzatori del previsto atto criminoso in Rachid Benstitou (alias “Yaia”), Yacine Aknouche e Mohammed Bensakhria (alias “Meliani”[33]), tutti esponenti della rete di mujahiddin di Abu Doha. Il Bensakhria venne arrestato in Spagna il successivo 22.06.2001, mentre Abu Doha era già stato arrestato in Inghilterra nel febbraio precedente.
u Il 26.09.2001, la polizia spagnola procedette all’arresto di alcuni membri dell’organizzazione terroristica del G.S.P.C., tutti stanziati nelle province iberiche di Almeria, Navarra, Murcia, Huelva e Valencia.
La “cellula”, formata da nove algerini addestrati in Afghanistan, veniva indicata come base d’appoggio per terroristi in transito nel territorio spagnolo, verosimilmente intenzionati a colpire interessi statunitensi in Europa.
Tra i fermati si cita la figura di Mohamed Boualem Khouni, ritenuto il leader del G.S.P.C. nella penisola iberica, personaggio collegato anche ad altri militanti presenti nel territorio italiano[34] e già detenuto in Spagna per appartenenza e collaborazione a banda armata.
L’attività principale della “cellula” consisteva nella falsificazione di documenti e carte di credito, nonché nel reperimento di materiale tecnico quale ad esempio apparati ottici di precisione, radiotrasmittenti, telefoni, mezzi informatici e componenti elettronici destinati ai militanti nel Paese d’origine (Algeria).
Lo stesso gruppo avrebbe inviato, attraverso l’Italia, materiale logistico in Cecenia per sostenere i combattenti dello Jihad.
Durante l’operazione effettuata dalla polizia spagnola venne sequestrato materiale audio-video sulla preparazione spirituale, fisica e militare dei mujahiddin, con contestuale prova evidente di attività di proselitismo e reclutamento.            
Gli sviluppi investigativi franco-tedeschi portarono all’arresto in Francia, il 04.02.2002, di Méroine Berrahal, di nazionalità francese, Samir Korchi, nato in Marocco, Yacine Aknouche, nato a Blida (Algeria) il 27.01.1974, e della sua compagna, Aurore Damas, nata a Créteil (F) il 07.07.1983, anch’essa di nazionalità francese.
Nel corso delle investigazioni venne accertato che i primi due avevano fornito supporto logistico al gruppo terroristico di Francoforte, fornendo ospitalità a due membri del gruppo in fuga dalla Germania, tra cui Mabrouk Echiker (alias Mouthanna), nato in Algeria successivamente deceduto nel conflitto russo-ceceno.
Dopo l’arresto, Yacine Aknouche[35] rilasciò dichiarazioni sui propri contatti in Afghanistan (dove aveva soggiornato dal 1996 al 1999), con i membri del “gruppo di Francoforte” ed in particolare sull’importantissimo ruolo svolto da Abu Doha e da Labsi Mustapha (alias Zaki), nella preparazione dell’attentato di cui sopra.
In particolare, precisò che la direttiva di un’azione terroristica contro la Francia[36] era partita dall’Afghanistan, per iniziativa di Omar Chaabani (alias Abu Jaafar), responsabile della “Maison des Algeriens” a Djallalabad, e che la direttiva stessa era stata diramata in Europa da Abu Doha, che l’aveva girata in primo luogo al “gruppo di Francoforte”, appunto perché costituito principalmente da mujahiddin addestrati nei campi afgani di Osama Bin Laden.
Per dare un’idea si ricorda che tra i personaggi che lo Yacine aveva incontrato in Afghanistan figuravano:
– Samir Haji, asseritamente inviato in Germania da Abu Doha, ed autore di una sparatoria contro quattro poliziotti tedeschi, avvenuta a Francoforte il 29.06.1999, nel corso di un controllo stradale;
– Ahmed Ressam, algerino già arrestato negli USA, nel dicembre 1999, mentre effettuava un trasporto di esplosivi destinati ad un attentato da compiere nell’aeroporto di Los Angeles;
– Zakarias Moussaoui, ritenuto il ventesimo membro del gruppo di attentatori dell’11 settembre 2001.
u Il 14.02.2001, sulla base degli elementi scaturiti dall’attività della polizia tedesca, nel Regno Unito vennero arrestati gli algerini: Labsi Mustapha, Ghali Abdulnour, Malek Alì, e Omar Othman Mahmoud (alias Abu Katada).
Nella circostanza veniva sequestrata copiosa documentazione di ispirazione integralista, nonché:
due passaporti italiani in bianco (privi di nome);
una carta di identità italiana con nome cancellato;
-valuta inglese, spagnola e numerose carte di credito;
– quaranta patenti francesi ed una portoghese;
– attrezzatura idonea alla falsificazione di documenti di identità.
u Il successivo 18.09.2002, nell’ambito della cosiddetta operazione “Cyclic”, sullo stesso territorio britannico vennero arrestati altri 13 algerini, tra i quali Hocine Benabdelhafid, trovato in possesso di una carta di credito rubata e di un passaporto spagnolo, Rafik Boulehbel, trovato in possesso di un passaporto francese a nome di Vincent Bernard Joseph Vittecoq, con applicata la sua foto, risultato provento di furto, Mustapha Guemmane, anch’egli in possesso di un passaporto contraffatto, che dichiarava di aver acquistato a Parigi, unitamente ad una falsa patente di guida e ad una falsa carta di identità, per 400 franchi francesi.
u Il 05 novembre 2002 venne invece arrestato Rabah Kadri (alias Toufik, alias Mebrek Djamel), ritenuto stretto collaboratore di Abu Doha e quindi suo erede alla guida della rete terroristica, dopo l’arresto di quest’ultimo nel febbraio 2001.
All’atto del fermo, Kadri veniva trovato in possesso di documenti francesi e di diversa valuta straniera, in particolare euro, franchi svizzeri, sterline inglesi e corone slovacche.
u Dal 05 al 22 gennaio 2003, sempre le autorità britanniche portavano a compimento, una ulteriore complessa operazione, condotta in collaborazione con le autorità statunitensi, francesi e spagnole, nei confronti di un progetto terroristico basato sull’impiego di sostanze chimiche.
Anche in questo contesto vennero arrestati numerosi cittadini di origine islamica, in maggioranza di provenienza algerina, tra i quali Samir Feddag, sul quale furono rinvenute tracce di ricina[37], la formula (in lingua araba) per la preparazione di detto veleno, polvere nera, componenti elettrici vari, nonché una considerevole somma di denaro contante, di diversa valuta, pari a migliaia di sterline inglesi e B. M., fratello di B. Y. che compare nel presente procedimento penale.
u Il 16.12.2002, in un appartamento della periferia di Parigi, vennero arrestati Merouane Ben Ahmed (alias Abderrahmane, alias Karim Said Mansour), clandestino di origine algerina, la moglie convivente Saliha Lebik, anch’essa di origine algerina (già vedova di un fratello di Ben Ahmed), Mohammed Merbah, di origine marocchina, e Ahmed Belhout, anch’egli di origine algerina.
Nel loro appartamento, tra l’altro, furono sequestrati:
– una tuta militare di tipo “NBC”, priva di guanti e maschera;
– una bottiglia piena di percloruro di ferro;
– una bottiglia contenente un composto liquido formato da una miscela di stagno, piombo e zinco;
– due bombole di gas propano vuote;
– una grande quantità di materiale e componenti elettronici, nascosti in una lavatrice, assieme a dei detonatori;
– tre telefoni cellulari nuovi ed istruzioni tecniche per la fabbricazione di inneschi “timer” a distanza, mediante l’uso di cellulari;
– copioso materiale per la falsificazione di documenti amministrativi e di identità;
– passaporti, carte d’identità e patenti di guida francesi in bianco, alcune delle quali già falsificate;
– denaro contante per circa 20.000 €. e 4.400 $. statunitensi.
L’analisi del materiale sequestrato stabilì che le sostanze chimiche contenute nelle bottiglie erano state utilizzate per la fabbricazione artigianale dei sofisticati stampati elettrici, che l’assemblaggio era del tutto coerente con la documentazione tecnica sequestrata, e che detti apparati sarebbero stati in grado di attivare ordigni esplosivi a notevole distanza.
u Il 24.12.2002, all’interno di un altro appartamento della periferia parigina vennero inoltre fermati i fratelli Menad Benchellali (alias Jandal, alias Abdelhakim), nato a Lione, cittadino francese, e Mourad Benchellali, quest’ultimo arrestato dai militari statunitensi nel dicembre 2001, in Afghanistan, e tradotto nella base di Guantanamo, Beddaidj Benmehel (alias Hamid), anch’egli nato in Francia, Maamar Bederar, algerino domiciliato a Romainville (F), e Omar Tegguer, nato a Chlef (Algeria) perché trovati in possesso di copioso materiale di laboratorio[38], componenti elettrici ed elettronici di vario tipo non ancora assemblati, flaconi per soluzioni cutanee contenenti sostanze varie[39], manuali per il confezionamento di miscele esplosive artigianali e registrazioni VHS su combattimenti in Cecenia.
u Il 24.01.2003, in Spagna si concludeva un’indagine condotta dalle autorità iberiche in collaborazione con quelle di Francia e di Gran Bretagna, che portava all’arresto di 14 stranieri, quasi tutti di origine algerina, ritenuti membri di un’importante rete legata ad Al Qaeda ed, in parte, al G.S.P.C., tra i quali figurava Mohamed Tahraoui (alias “Mohamed di Barcellona”, alias “Mohamed Boukharia”), già responsabile di una struttura iberica riconducibile al G.S.P.C.
Anche in questo caso vennero sequestrati diversi prodotti chimici, resine e gomme sintetiche, manuali per la fabbricazione artigianale di comandi a distanza ed a tempo, materiale elettrico, ricetrasmittenti, documenti falsi, materiale idoneo alla loro falsificazione e documentazione di natura ideologica, sia cartacea che audiovisiva.
La rete terroristica spagnola, in collegamento con le cellule islamiste perseguite in quegli stessi mesi in Francia e Regno Unito, era prevalentemente costituita da due gruppi: uno radicato a Barcellona, sotto la direzione del citato Mohamed Tahraoui, il secondo operante nella zona di Banyoles (Girona), sotto il coordinamento di Bard Eddine Ferdji, anch’egli di nazionalità algerina.
u Il 04.04.2001, la DIGOS della Questura di Milano[40] disarticolava una rete islamica[41] composta da militanti affiliati al “G.S.P.C.” e ad “Al Qaeda”.
Nella circostanza, su provvedimento di Fermo di Indiziato di Delitto emesso dal P.M. di Milano il 03.04.2001[42], venivano catturati Essid Sami Ben Khemais[43], Khammoun Mehdi[44] e Bouchoucha Moktar[45], che avevano un ruolo di preminenza, derivante anche dall’esperienza acquisita nei campi afgani.
In merito a tale attività investigativa il 22.02.2002, a Milano, gli stessi Essid Sami, ritenuto capo della cellula e Bouchoucha Moktar, nonché Chaarabi Tarek e Belgacem Aouadi Mohamed, venivano processati con rito abbreviato e condannati per associazione a delinquere finalizzata alla falsificazione di documenti con pene variabili dai quattro ai cinque anni di reclusione.  
Nel corso delle indagini, il 06.12.2000, era stata perquisita un’abitazione ubicata a Milano, via Bligny nr. 42, nella quale furono sequestrati numerosi indirizzi telefonici cellulari, altrettante carte telefoniche GSM, documentazione di propaganda jihadista ed un biglietto con annotate utenze telefoniche della Gran Bretagna e della Germania, ivi compresa quella del già menzionato Mohamed Bensakhria (alias Meliani), leader della cellula di Francoforte.
Allo stesso modo, le attività tecniche svolte dalla P.G. a carico di Essid Sami, oltre a fornire elementi sull’attività delittuosa contestata, confermarono la ramificazione internazionale della cellula italiana, con particolare riferimento al citato “gruppo di Francoforte” ed alla cellula londinese di Abu Doha.
L’indagine, inoltre, dimostrò che il sodalizio, benché operante autonomamente sul territorio nazionale, con l’ausilio di strutture atte a soddisfare esclusive esigenze logistiche, aveva come punto di riferimento funzionale l’ “Istituto Culturale Islamico” di Milano, ormai da diversi anni impostosi come catalizzatore dei gruppi più radicali del panorama islamico.
Nel corso delle attività tecnico-dinamiche venne osservata l’assidua frequentazione da parte degli indagati del citato Istituto Culturale, sia come occasione di confronto con altre componenti animate da un analogo fanatismo religioso, sia perché ritenuto un potenziale bacino di reclutamento di nuovi adepti.
Ci si è dilungati in questo excursus perché i fatti citati dimostrano sia l’entità e pericolosità del fenomeno sia il collegamento fra le varie “cellule” del G.S.P.C. in tutta Europa sia persino che alcune reti presentano al loro interno anche elementi di altre nazionalità, come dimostrato dalla cellula disarticolata a Milano, che era diretta e composta prevalentemente da tunisini.
Tale è anche il caso del cittadino francese Hervé Djamel Loiseau, ucciso in Afghanistan nel dicembre 2001 mentre combatteva al fianco dei talibani, condannato un anno prima dal Tribunale di Parigi, nell’ambito di una vicenda giudiziaria collegata allo smantellamento di una rete del “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”.
Peraltro, gli inquirenti hanno messo in rilievo le difficoltà investigative che, in questi casi, sono ancor più rilevanti che per le associazioni criminali che infestano l’Italia.
Le associazioni terroristiche transnazionali presentano caratteristiche ben diverse dai gruppi criminali tradizionali, in particolare quelli di tipo mafioso.
Soprattutto, le associazioni mafiose sono caratterizzate da forte strutturazione e radicamento territoriale mentre le “cellule” islamiste non sono strutturate rigidamente in un’unica organizzazione gerarchica, ma collegate tra loro, peraltro del tutto informalmente.
Esse ruotano intorno a “strutture di servizio” (finanziario e logistico) come Al Quaeda[46]; operano con estrema mobilità nell’ambito di una “rete” transnazionale del terrore, nel cui ambito vengono progressivamente superate anche le identità etnico-nazionali[47].
Operano nell’ambito di una “rete” transnazionale del terrore, conservando la loro identità etnico-nazionale, ma restando in contatto, collaborando e specializzandosi (per esempio, in Italia specializzandosi nella fabbricazione di documenti falsi come è sempre emerso nelle inchieste).
Anche gli obbiettivi di ciascun gruppo possono essere distinti, pur essendo tutti accomunati da un denominatore comune: la guerra santa contro gli apostati e i miscredenti.
Il «programma violento» di tali organizzazioni può essere individuato, come detto, anche negli attentati e negli atti di violenza che sono compiuti in altri Paesi, rispetto ai quali dunque può ritenersi già atto di un programma violento anche solo l’attività propedeutica (di proselitismo, reclutamento, addestramento) finalizzata alla realizzazione dell’azione violenta nel Paese estero obiettivo finale del terrorismo.
Quando, dove e in danno di quale obiettivo ciò avverrà (contro uno Stato estero in territorio estero, contro una rappresentanza straniera o un organismo internazionale sedente in Italia, contro un obiettivo italiano all’estero ovvero contro un obiettivo italiano in Italia), dipenderà dalle contingenze politiche del momento o dalle concrete occasioni e dagli ordini ricevuti ma è certo, anche in ragione dei propositi politico/religiosi di guerra a tutto l’Occidente resi manifesti ed espliciti quasi quotidianamente, che il momento della decisione troverà le singole cellule già pronte a portare a termine la loro parte di compito.
Tanto comporta non solo problemi investigativi ma anche problemi giuridici a cominciare dal concetto di associazione per finalità terroristica di cui si tratterà ampiamente nel paragrafo seguente.
§4. La normativa sulLe associazioni con finalità di terrorismo
Onde evitare qualunque perplessità si precisa subito che con l’ultima modifica dell’art. 270 bis c.p. è stato sancito che la norma è applicabile alle associazioni con finalità di eversione dell’ordine democratico di uno Stato estero per cui sussiste il reato anche a carico di aderente ad una cellula operativa ispirata all’ideologia ed alla pratica del terrorismo religioso di matrice islamica[48].
E’ stato osservato dal P.M. di Salerno[49] che il nuovo art. 270 bis[50], nel sanzionare le condotte di partecipazione ad associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale, riflette l’attuale globalizzazione del crimine organizzato ed è diretto a tutelare la sicurezza pubblica mondiale dai pericoli posti dai gruppi terroristici per la stabilità socio-politica universale, l’ordine pubblico internazionale e i superiori interessi dell’umanità.
La normativa recente, introdotta all’indomani degli attentati di luglio a Londra, con l’art. 270 sexies c.p.[51], ha definito il concetto di terrorismo per superare tutta una serie di contraddizioni e disorientamenti della giurisprudenza di merito, dovuti alla mancanza nel sistema legislativo italiano di una precisa nozione in materia.
La scelta del legislatore è stata quella di individuare le condotte con finalità di terrorismo, proponendo una duplice definizione : una prima parte nella quale si offre una definizione generale della condotta con finalità terroristica mutuandola in pieno dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13 giugno 2002[52] ed una seconda parte nella quale, comunque, si estende la nozione a tutte quelle condotte comunque considerate terroristiche dal diritto internazionale.
Nella prima parte, dunque, il legislatore ha precisato i due requisiti indefettibili perchè si possa parlare di condotta con finalità di terrorismo, senza – secondo quel magistrato – neppure richiedere che debba trattarsi di condotte “violente”[53].
Ciò che si richiede è che tali condotte, per loro natura o contesto, debbano essere “idonee ad arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale” e che tali condotte siano caratterizzate dal dolo specifico, che può manifestarsi nelle tre forme alternative :
u lo scopo di intimidire la popolazione;
u lo scopo di costringere i pubblici poteri o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere qualsiasi atto;
u lo scopo di destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale.
Nella seconda parte, invece, il legislatore offre una norma di salvaguardia con un richiamo al diritto internazionale, laddove stabilisce che sono da considerare condotte terroristiche anche tutte quelle definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale.
In pratica, il metodo utilizzato è terroristico quando, da un lato, l’obbiettivo colpito non rileva di per sé (cioè l’autore dell’atto di violenza non è interessato a colpire proprio quella vittima, nella sua persona o nelle sue cose, per quello che ha o non ha fatto, circostanza che quindi costituisce il movente, la spiegazione della sua azione), ma rileva o in quanto incarna un simbolo per la collettività a cui appartiene [è il caso di chi riveste determinati ruoli, ad esempio esercita attività di governo o di amministrazione della giustizia o di mantenimento dell’ordine pubblico, oppure è il caso degli edifici che sono sede delle funzioni suddette] oppure, viceversa, in quanto è un membro qualunque della collettività suddetta senza alcun ruolo particolare, essendo allora del tutto indifferente la sua identità personale.
Dall’altro lato l’autore dell’atto di violenza si propone, colpendo gli obiettivi come sopra individuati, di determinare il sorgere di un diffuso sentimento di panico o di vero e proprio terrore nella collettività, di cui gli obiettivi colpiti fanno parte[54].
E’ interessante notare che la Corte di Cassazione già aveva ritenuto, molto prima della legislazione positiva di settore, che “costituisce finalità di terrorismo quella di incutere terrore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette cioè non contro le singole persone ma contro ciò che esse rappresentano e, se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell’ordinamento costituito e indebolirne le strutture[55].
Peraltro, si è obiettato in dottrina che con la disposizione in esame si è creata una norma penale dai confini incerti, mobili, difficilmente percepibili in quanto strettamente connessi alla mutevolezza dell’angolo visuale dal quale i fenomeni storici e politici vengono percepiti e giudicati[56].
Infatti, sotto un primo aspetto, la norma che prevede in genere l’illiceità di fenomeni eversivi e di terrorismo a base italiana contro ordinamenti stranieri offende il principio di determinatezza, instaurando una responsabilità penale come mero effetto politico sul nostro ordinamento dell’azione eversiva e terroristica contro un paese straniero.
In effetti, il giudizio circa l’avveramento dei requisiti materiali dell’azione rischia di dipendere di volta in volta da imponderabili coordinate politiche di natura contingente, riflesso dei rapporti internazionali che lo Stato, in quel determinato momento, vive e che implica come premessa un giudizio prognostico privo di oggettività giuridica e di accessibilità cognitiva.
Per altro verso, si pone il problema di ritenere l’azione terroristica e perciò punibile anche quando l’eversione o il cosiddetto terrorismo siano diretti contro Stati dittatoriali, violenti o solo apparentemente ammantati di democraticità; cioè, anche quando essa, tanto per fare degli esempi, si inserisca in contesti di violenza etnica o di guerra civile ovvero quando pretenda di affermare con la forza e la violenza, talvolta unico mezzo concretamente opponibile, diritti fondamentali dai quali potrebbe dipendere la possibilità stessa di sopravvivenza di un popolo[57].
Conseguentemente, il G.U.P. di Milano, nella sentenza con cui è stata ordinata la scarcerazione di due cittadini stranieri[58], imputati sulla base delle disposizioni dell’art. 270 bis c.p., non aveva ritenuto legittimo sussumere, nella nozione giuridica di terrorismo, qualsiasi attività di guerriglia attuata in un contesto bellico.
Quel magistrato aveva chiarito che «la nozione di terrorismo, recepita dall’art. 270 bis c.p., non può riguardare, in accordo con il testo dell’art.18, comma 2, della Convenzione O.N.U. sul Terrorismo del 1999[59], l’attività di gruppi armati o movimenti, diversi dalle forze armate, nella misura in cui, in contesti bellici, essi si attengano alle norme del diritto internazionale».
Dal punto di vista dommatico, poi, la costruzione dei reati di terrorismo sul modello dei reati di pericolo rende ancor più pressante l’esigenza di limitare l’offensiva a fattispecie certe e determinate e di salvaguardare diritti fondamentali tra i quali la libertà di manifestazione del pensiero[60].
In passato il giudice di legittimità aveva costantemente affermato che l’art. 270 bis configurava un delitto di pericolo presunto[61] e tale impostazione vale tuttora.
Viceversa, data la particolarità della nuova fattispecie (associazioni internazionali) non sembra possibile recepire l’affermazione secondo cui per non incorrere in censure di illegittimità costituzionale, devono essere accertati elementi di comportamento idonei ad offendere il bene tutelato[62].
Si corre il rischio di assumere posizioni o pervenire a soluzioni meramente teoriche anche in considerazione dei dubbi che possono sorgere a proposito del bene tutelato mentre la materia, invece, richiede la massima chiarezza.
Al riguardo, una parte della dottrina, pur prospettandosi i problemi di costituzionalità delle fattispecie di pericolo astratto, è giunta alla conclusione che dalla presenza dei medesimi in un ordinamento penale non può prescindersi, quando si imponga l’esigenza di salvaguardare in maniera particolarmente intensa – quindi, anticipando la soglia di punibilità fino alla pericolosità astratta – certi beni e soprattutto quando l’accertamento di un pericolo concreto potrebbe rivelarsi assai difficoltoso proprio per la natura “impalpabile” del bene tutelato. 
Però, occorre evitare che l’anticipazione della punibilità si traduca in persecuzione delle idee o di posizioni ideologiche; in particolare, con riferimento alla fattispecie di cui si tratta è necessario individuare il discrimine tra adesione ideologica al radicalismo fondamentalista e partecipazione alla associazione terroristica. 
Non è solo un problema probatorio, è anzitutto un problema giuridico e da tale punto di vista ritiene questo giudice che non bisogna disperdersi in considerazioni meramente dommatiche o sociologiche[63] bensì che la soluzione possa e debba essere trovata nel diritto positivo.
Infatti, le perplessità suscitate nella dottrina dalla disposizione di cui all’art. 270 sexies, che ha indicato normativamente le condotte con finalità di terrorismo, non tengono conto del fatto che tale norma non è altro che un’integrazione chiarificatrice di quella di cui all’art. 270 bis.
In tale norma è espressamente precisato che le associazioni illecite dal punto di vista penale sono quelle “che si propongono il compimento di atti di violenza…”.
Pertanto, è la stessa normativa che indica, indipendentemente dalla nozione di terrorismo e di eversione dell’ordinamento, che il presupposto della punibilità è costituito dalla «intenzione»[64] di porre in essere atti violenti.
Tanto è confermato dal terzo comma dello stesso articolo ove, a proposito di terrorismo rivolto contro Stati esteri, viene ribadito che deve trattarsi di atti di violenza[65].
Del resto, tanto corrisponde proprio all’aspetto lessicale del termine “terrorismo”[66]; basta controllare qualunque dizionario per constatare che al termine è associata la violenza.
E’ vero che il vocabolo può essere usato anche con un significato generico che esula dal compimento di atti violenti ma si noti che in tali casi viene sempre inserito un aggettivo (terrorismo: psicologico, religioso, economico, ecologico e così via) che indica appunto una forma di terrorismo diversa da quella usuale caratterizzata dalla violenza.
In tale prospettiva, oltretutto, è ben possibile che la popolazione possa venire intimidita – come recita l’art. 270 sexies del codice penale – anche da forme di terrorismo non violento[67].
Se, però, si adotta tout court una simile nozione di terrorismo ne consegue che dovranno sussumersi in tale concetto finanche le manifestazioni di protesta o di rivolta alla Mahatma Gandhi[68].
Qualunque peplessità, invece, viene agevolmente superata dal diritto positivo e, cioè, come detto, dalla precisazione di cui all’art. 270 bis.
In definitiva, quel che rileva ai fini che ci interessano è che l’associazione debba avere il proposito di commettere atti violenti.
E’ irrilevante, dal punto di vista sostanziale, che i suoi membri, che abbiano costituito una propaggine in un’altra nazione – nel nostro caso l’Italia – non abbiano intenti violenti.
E’ ben possibile che la “cellula” sita in un altro Stato – soprattutto occidentale – possa avere un ruolo limitato di semplice propaganda ed arruolamento di nuove leve ovvero di procacciamento di documenti[69]; insomma, che possa avere un ruolo limitato[70].
L’associazione di cui si tratta – il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento – ha indubbiamente le caratteristiche previste dalla legge.
E’, cioè, caratterizzata dalla violenza sol che si consideri, a tacer d’altro:
? il pieno sostegno e l’adesione incondizionata, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista materiale, alla jihad , ossia alla guerra santa[71] tanto vero che “AL JAMAA ASSALAFIA LI DAWA WA ALKITAL”, ovvero il G.S.P.C., ha anche creato un sito internet denominato significativamente <www.jihad-algerie.com> contenente immagini di combattimento, addestramento, rifornimento logistico e indottrinamento religioso del gruppo salafita algerino accompagnati da chiari proclami di guerra[72];
? l’adesione convinta, come già ricordato, alla rete mondiale denominata “Al Qaeda” la cui impostazione terroristica è talmente nota che non merita commenti;
? la consumazione di attentati terroristici in vari paesi europei, come accertato da inchieste italiane, francesi, inglesi e spagnole[73].
L’altro presupposto del terrorismo – determinante per superare tutte le obiezioni giuridiche in materia – è implicitamente ma chiaramente indicato dallo stesso articolo 270 sexies con il riferimento alle convenzioni ovvero alle altre norme internazionali vincolanti per l’Italia.
In effetti, quella che può sembrare una norma di chiusura rappresenta, invece, la chiave di volta per un’interpretazione perfettamente aderente al dettato costituzionale.
Infatti, al di là dell’art. 10 Costituzione che si riferisce in genere alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute[74], il primo comma dell’art. 117 nell’attuale formulazione[75] indirettamente ma chiaramente stabilisce che la potestà legislativa, sia dello Stato che delle Regioni, è subordinata non solo alle norme costituzionali ma ai “vincoli”[76] derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali.
Quindi, è stato normativizzato, al massimo livello, il principio pacta sunt servanda, che già aveva riconoscimento nel diritto internazionale.
Conseguentemente, non vi possono più essere discussioni al riguardo: le convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano e, soprattutto, le decisioni comunitarie vincolano qualunque Autorità italiana e le norme devono essere interpretate in conformità.
Nel caso del terrorismo occorre tener presente che la ricordata decisione Quadro del Consiglio dell’UE del 13 giugno 2002[77] che alla lett. B) del primo comma dell’articolo 2 ha dato la nozione di terrorismo, aveva stabilito, nel primo comma dell’articolo 1, che ciascuno Stato membro doveva adottare «le misure necessarie per garantire che siano considerati reati terroristici» gli atti intenzionali commessi al fine appunto «di intimidire gravemente la popolazione, o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un paese o un’organizzazione internazionale».
E come già detto il “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento” è stato espressamente indicato come associazione terroristica dal Regolamento n. 881 del 27 maggio 2002 dello stesso Consiglio dell’Unione Europea.
Sono assolutamente integrate, pertanto, tutte e due le condizioni prescritte dalla normativa in materia.
Per completare l’argomento si ricordi che il punto 11 del Preambolo della Decisione Quadro stabilisce che la decisione “non disciplina le attività delle Forze Armate in tempo di conflitto armato secondo le definizioni date a questi termini dal diritto internazionale umanitario, attività disciplinate da questo stesso diritto”.
Certamente l’espressione “conflitto armato” comprende tanto i conflitti internazionali quanto quelli interni e ne deriva che l’espressione “forze armate” comprende le forze di tutte le parti indipendentemente dal fatto che si tratti di Stati o di organizzazioni non statali anche insurrezionali o in lotta contro un’intervento straniero.
Ma ciò non significa affatto che ove vi sia un conflitto bellico di qualsiasi tipo non vi sia terrorismo ma solo “guerriglia”.
Deve infatti sempre trattarsi anche in caso di gruppi insurrezionali di forze assimilabili alle forze armate e cioè, secondo gli artt. 43 e 44 del primo Protocollo Addizionale alla Convenzione di Ginevra adottato nel 1997, “forze, gruppi e unità armate e organizzate poste sotto un comando responsabile della condotta dei propri subordinati”e “soggette ad un regime di disciplina interna” che assicuri tra l’altro il rispetto delle regole del diritto internazionale applicabile ai conflitti armati.
Inoltre tali combattenti hanno l’obbligo di distinguersi dalla popolazione civile quando prendono parte ad un attacco e, anche nelle situazioni in cui, a causa della natura del conflitto (il riferimento alla “guerriglia “ è evidente) non possano ottemperare interamente a tale obbligo sono obbligati a portare le armi apertamente durante ogni fatto d’armi e durante la fase precedente ad ogni attacco (il c.d. spiegamento) e per tutto il tempo in cui sono esposti alla vista dell’avversario.
Inoltre sempre il primo Protocollo Addizionale all’art. 51 proibisce a qualsiasi forza combattente gli “atti di violenza il cui fine primario è spargere il terrore nella popolazione civile”.
Se ciò non avviene tali forze perdono lo status di “legittimi combattenti”.
A questo proposito, occorre trattare l’argomento della cd. guerriglia, precisando innanzitutto che appare condivisibile l’osservazione che le categorie di “guerriglia” o “guerriglieri” recentemente utilizzate sono decisamente atecniche e rischiano di divenire fuorvianti.
Infatti, la distinzione tra terrorismo, guerriglia e movimenti rivoluzionari ha certamente un forte rilievo storico ma rimane ancora molto discussa anche nel diritto internazionale e difficilmente può essere utilizzata sul piano giuridico nel diritto interno.
In linea di massima, si può dire che la guerriglia, effettuata da gruppi dotati di una certa organizzazione e “visibilità” sul territorio, in parte eventualmente da essa controllato, è indirizzata verso obiettivi militari con metodi che nel limite del possibile si ispirerebbero a quelli della guerra classica.
Il terrorismo invece consisterebbe nell’attività di singoli individui o piccoli gruppi, carenti di direttive centrali, i quali non opererebbero distinzioni tra obiettivi civili e militari e che in linea generale non si uniformerebbero alle leggi di guerra.
In tale prospettiva, si è rilevato che anche gruppi guerriglieri possono impiegare in certe fasi metodi terroristici mentre il terrorismo può altre volte rappresentare una fase iniziale di una lotta che in un secondo momento può trasformarsi in guerriglia e, in momento ulteriore, in un movimento rivoluzionario di massa con caratteri di piena belligeranza.
Da tale punto di vista però, con riferimento alla situazione irachena che in questo momento storico ed in questa sede maggiormente ci interessa, tale lotta è andata sempre più evolvendosi nel senso del puro terrorismo o di una ”guerriglia” che utilizza sistematicamente metodi terroristici quali bombe nei mercati ed in genere tra la folla, sequestri ed uccisioni di ostaggi non solo (ma soprattutto) occidentali, attacchi contro sedi dell’O.N.U. e sedi diplomatiche, contro i luoghi di culto di minoranze religiose e così via.
Insomma, tenuto conto dei citati artt. 43, 44 e 51 e della più elementare logica democratica il terrorismo si distingue nettamente dalla guerriglia (e, comunque, dalla cd. resistenza[78]) perché esso agisce indiscriminatamente e con la massima violenza al fine di incutere “terrore” nella popolazione civile[79] addirittura indipendentemente dall’arrecare danno alle forze armate che si vuole combattere.
Inoltre, non deve essere trascurato il pericolo di confondere la rappresentazione che un gruppo ha di se stesso con gli strumenti concretamente usati e di dimenticare i fenomeni di “deviazione” rispetto alle finalità evocate.
§5. in particolare: la jihad
Tra gli atti terroristici violenti gli inquirenti indicano come fondamentale e probante la[80] Jihad  a cui non solo il G.S.P.C. aderisce pienamente ma che veniva esaltata e propagandata anche dagli indagati di questo procedimento.
Jihad  (gihad) è una parola araba che deriva dalla radice <j-h-d>” che significa “esercitare il massimo sforzo” o “combattere”.
La parola connota un ampio spettro di significati, dalla lotta interiore spirituale per attingere una perfetta fede fino alla guerra santa.
Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché Maometto si trovava alla Mecca, la jihad  si riferiva essenzialmente alla lotta non violenta e personale ma in seguito al trasferimento dalla Mecca a Medina nel 622, e alla fondazione di uno Stato islamico, il Corano autorizzò il combattimento difensivo.
Il Corano iniziò a incorporare la parola qital (combattimento o stato di guerra), e due degli ultimi versetti su questo argomento[81] suggeriscono, secondo studiosi classici, una continua guerra di conquista contro i nemici non credenti[82].
In effetti, nel Corano la parola jihad  è sempre utilizzata nel senso di lotta per Dio secondo l´espressione integrale «jihad fi sabil» Allah [lotta sul cammino di Dio], e perciò viene tradotta nelle lingue europee, dagli stessi musulmani, come “guerra santa”[83].
I musulmani liberali, invece, tendono a promuovere una comprensione della jihad  che rigetti l’identificazione della stessa con la lotta armata, scegliendo invece di porre in risalto principi di non violenza.
Ed anzi, alcuni musulmani ritengono che sia la cultura occidentale che presenti il termine col significato negativo[84].
Senza entrare nella discussione circa l’intepretazione religiosa od ideologica del termine quel che appare determinante è il significato che ad esso viene dato dal fondamentalismo islamico.
Si cita qualche esempio:
L’Associazione dei “Fratelli Musulmani”, creata in Egitto nel 1928 era indirizzata dal seguente motto: «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. La Jihad è la nostra via. Morire nella via di Allah è la nostra suprema speranza»[85] .
Più recentemente, basta citare il comunicato finale emesso al termine del summit tenutosi a Beirut nel gennaio del 2002 e a cui hanno partecipato oltre duecento ulema sunniti e sciiti provenienti da trentacinque paesi: “Le azioni di martirio dei mujahidin sono legittime e trovano fondamento nel Corano e nella tradizione del profeta. Rappresentano anzi il martirio più sublime dato che i mujahidin le compiono con totale coscienza e libera decisione“.
In tale documento gli ulema affermano di parlare “a partire dalle loro responsabilità religiose, e in nome di tutti i popoli, riti e paesi della nazione islamica per dare indicazioni precise in merito alla causa palestinese“.
A loro avviso non si deve considerare l´attentato come gesto a se stante, ma in base allo scopo per il quale viene compiuto, che può essere rincondotto nella categoria della jihad  perché si vuole proteggere o liberare un territorio musulmano in pericolo[86].
Un gruppo armato palestinese si chiama persino “Jihad Islamica”.
Nel novembre del 2002 Bin  Laden fece pervenire alla TV satellitare Al Jazeera una cassetta, in seguito considerata autentica dagli esperti della CIA, in cui erano contenuti due distinti messaggi, uno rivolto agli Iracheni e l’altro al popolo americano.
Nel primo, esplicitamente la “resistenza” dei musulmani in Iraq viene indicata come jihad[87].
Ancor prima, la fatwa[88] emessa il 23 febbraio 1998 dallo stesso Osama Bin Laden aveva come obiettivo geopolitico la creazione di un unico stato islamico improntato alla interpretazione radicale della lettera del Corano ed i cui componenti fossero dediti alla guerra santa contro l’infedele rappresentato dall’Occidente cristiano e da Israele, costituendo il “FRONTE MONDIALE ISLAMICO PER LA JIHAD  CONTRO GLI EBREI E I CROCIATI”[89].
Per inciso, è stato osservato che il senso profondo della strategia che l’originario gruppo formatosi intorno a Bin Laden nel 1998 ha voluto comunicare al mondo islamico è quello di costituire un arcipelago di gruppi che devono far riferimento ad una proposta generale (la restaurazione del Califfato e il governo della Sharia in tutte le terre parte del mondo islamico al momento della sua massima espansione) pur in una autonomia delle loro iniziative nei 3 continenti ove sono radicate.
Si spiega così come il progetto di Al Qaeda possa travasarsi da un gruppo all’altro, passando, anche senza adesioni formali, da un gruppo storico ad un gruppo federato[90] in grado comunque di esprimere con le sue azioni la finalità ultima del progetto stesso.
La jihad  in Iraq viene esaltata da tutti i seguaci di Bin Laden anche non inseriti in organizzazioni terroristiche.
Ad esempio, il 5 novembre 2004 lo sceicco Salman al-Odeh, ha emanato una fatwa in cui si legge: «Non vi è dubbio che la Jihad contro gli occupanti in Iraq è un dovere islamico impellente per tutte le persone abili. Dal momento che si tratta di respingere l’aggressore, non è necessario che a decretarlo sia l’autorità suprema, ma deve essere attuato da ciascun musulmano secondo le proprie possibilità»[91].
Ancora, a titolo di esempio, può essere citato del materiale rinvenuto proprio in possesso di musulmani nell’ambito di inchieste italiane sul terrorismo islamico, quale una video-cassetta, contenente una conferenza tenuta dallo sceicco Al Fisasi dal titolo: “La Democrazia, quel Feticcio (idolo) ”.
L’interlocutore dice che l’islam è una religione di clemenza e bisogna aver pietà dei miscredenti e tale pietà bisogna metterla in pratica ammazzandoli, combattendoli, uccidendoli, tagliando le loro teste, lapidandoli e massacrandoli solo così si può avere pietà di loro.
La jihad  con le armi e il fuoco ha come obiettivo quello di togliere il marcio da questa terra perciò è questa la pietà: salvare il mondo da loro.
Si riporta la parte che riguarda la Democrazia perché appare significativa del modo di ragionare: secondo l’oratore, nel passato in Europa e specialmente in Italia, la gente era comandata e governata con l’ingiustizia, il male e lo sfruttamento in nome della religione, della Chiesa e di Gesù.
I frati rubavano tutto quello che la gente aveva di cose materiali e dignità in nome di Cristo.
Perciò è sorta una guerra tra i Saggi di questo paese e la religione falsa della Chiesa cioè il Cristianesimo.
La chiesa uccideva chiunque cercasse di affrontarla anche con una sola parola.
Quel potere cristiano, ingiusto, della chiesa e dei crociati, è stato combattuto dalla gente di cultura.
Questi per poter affrontare la religione cristiana, hanno creato un’altra religione basata sulla terra e sul popolo: la Democrazia.
La Democrazia è una religione a tutti gli effetti e i musulmani non possono accettare una religione che non sia l’islam e che non sia di Allah.
Perciò i democratici sono dei miscredenti e bisogna combatterli con la Jihad  e con la spada.
Gli obiettivi della democrazia contrastano quelli dell’islam.
Un musulmano non può mai essere un democratico.
Per l’islam la jihad  è un obbligo e la massima aspirazione del fedele, invece per la democrazia è terrorismo (nella cassetta si vede che per mezz’ora l’oratore si scaglia contro il sistema democratico, i democratici e contro il mondo occidentale insultandolo). E così via.
In altra cassetta è ripresa una conferenza tenuta dallo sceicco Abu Talal Al Qassimy intitolata “Ammazzare è un obbligo e terrorizzare è legge”, durante la quale lo sceicco manifesta un odio irrefrenabile contro i cristiani e contro tutti i kuffar[92], affermando che essere terrorista nei loro confronti è un obbligo islamico ed è un ordine divino che bisogna eseguire.
Oltre a scagliarsi contro i cristiani accusandoli di voler distruggere l’islam e di volerlo annientare, egli si scaglia contro i governanti islamici che collaborano con i cristiani… bisogna uccidere tutti i Kuffar senza nessuna pietà perché il Jihad è un obbligo ed è una legge…
La Sharia di Allah deve regnare in tutto il mondo.
Il cristianesimo è la religione dei Kuffar ed è una religione da distruggere…
Il conferenziere, poi passa a deridere il cristianesimo, incitando a combattere tutti i cristiani ed alla jihad con tutte le forze, perché la jihad  è la dignità e chi non va alla jihad  non è una persona degna di Dio, non bisogna pensare alla vita terrena ma a ciò che ci aspetta nel paradiso, e in paradiso ci si arriva solo con la jihad .
La Jihad e Allah vi chiamano, bisogna rispondere al richiamo. Preparate le armi ed i mezzi e terrorizzateli. Bisogna far regnare la legge della forza e della morte e del terrore”.
Non pare necessario continuare: si può tranquillamente concludere che attualmente la jihad  è la guerra permanente e globale in risposta alle frustrazioni della modernità, vissuta come una lunga sconfitta storica perdurante dall’epoca medioevale, con l’obiettivo di riportare la legge islamica ”pura” e il Califfato agli stessi confini della sua massima espansione storica.
Per ottenere gli obiettivi propri della jihad , le popolazioni, senza distinguere tra civili e militari, i pubblici poteri e le basi ideologiche, politiche ed anche morali e culturali del campo avversario vanno colpite e tale campo è estesissimo comprendendo il mondo occidentale nel suo complesso, il mondo ebraico e i regimi corrotti ed infedeli insediatisi in molti Paesi arabi.
In altre parole, la jihad  rappresenta attualmente l’estrinsecazione di un fanatismo religioso di tipo “militante”, inteso come teoria e prassi della violenza con uso di strage indiscriminata verso popolazioni, dell’attacco a Stati o enti, anche mediante l’utilizzo di martiri suicidi.
Tale è la teoria della cd. jihad  offensiva, cioè l’intraprendere guerra di aggressione e conquista contro i non-musulmani al fine di sottomettere questi e i loro territori al dominio islamico[93].
A maggior ragione, la cd. jihad  difensiva: la maggioranza dei musulmani considera la lotta armata contro l’occupazione straniera o l’oppressione da parte di un governo interno degne di jihad  difensiva, obbligo individuale non diverso dal diritto di resistenza armata contro l’occupazione riconosciuto dal diritto internazionale.
Tuttavia, in riferimento alla vicenda di maggiore attualità, la Risoluzione 1546 adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’ 8 giugno 2004 nel rilevare che la presenza della forza multinazionale in Iraq è una richiesta dell´entrante governo ad interim dell´Iraq e nel ribadire, di conseguenza, l´autorizzazione alla forza multinazionale sotto comando unificato, stabilita ai sensi della risoluzione 1511 del 2003, ha condannato tutti gli atti di terrorismo in Iraq, riaffermando gli obblighi degli Stati membri contenuti nelle risoluzioni 1371, 1267, 1333, 1390, 1455 e 1526 e altri rilevanti obblighi internazionali riguardo alle attività dei terroristi in Iraq e fuori o contro i suoi cittadini.
Espressamente in tale Risoluzione l’O.N.U. ha reiterato l’appello a tutti gli Stati membri a impedire il transito di terroristi da e per l´Iraq di armi per i terroristi e di finanziamenti che possano aiutare i terroristi.
Pertanto, esiste un preciso obbligo internazionale, vincolante per l’Italia[94] che qualifica questa particolare jihad  come atto di terrorismo.
Del resto, è significativo che la Terza Corte d’Assise d’Appello di Milano ha assolto dall’accusa di terrorismo internazionale tre integralisti islamici, confermando la sentenza del giudice Forleo, con la motivazione “Aiutare i volontari a raggiungere l’Iraq per combattere, anche come kamikaze, gli americani, «non può essere considerato un’attività terroristica» visto lo stato di guerra del Paese mediorientale” precisando che tale valutazione giuridica aveva valore prima che fosse stato eletto un democratico governo iracheno[95].
La qual cosa conferma anche da tale punto di vista l’attuale illegittimità della jihad  irachena come sancito dalle Nazioni Unite.
Orbene, come si preciserà a proposito degli attuali indagati e come accertato nella menzionata inchiesta di Napoli i membri in Italia del G.S.P.C. propugnavano la jihad  in Iraq addirittura incitando i correligionari a parteciparvi.
In tal modo, gli esponenti in Italia del G.S.P.C. propugnavano concreti atti di violenza.
In ogni caso, come si è visto, esaltazione, intenzioni, proponimenti, sollecitazioni jihadiste costituiscono uno degli aspetti fondamentali dei terroristi islamici per i quali la jihad globale è non solo un dovere ed un atto di martirio ma anche l’espressione più elevata della propria fede e la affermazione nel mondo della religione-ideologia islamica.
Ritornando a questo procedimento, le intenzioni terroristiche riguardavano anche l’Italia poichè i Carabinieri hanno scoperto che questi terroristi avevano individuato le stazioni ferroviarie di Roma, Milano e Bologna e gli stadi di calcio quali obiettivi di attentati maggiormente sensibili ed inneggiavano a tali atti.
Al riguardo, nell’informativa conclusiva dei R.O.S. si riporta la seguente conversazione ambientale registrata il giorno 7 luglio 2005, in Capaccio (SA), all’interno dell’autovettura Fiat Uno tg…, ove erano presenti il proprietario A. R., B. S. ed un terzo uomo,dalla Sezione Anticrimine Carabinieri di Salerno nell’ambito del procedimento penale nr….
Da tale conversazione emerge, oltretutto, l’indifferenza per la morte “degli infedeli”, verso i quali non debbono essere coltivati sentimenti di pietà ed il disprezzo per gli Stati Uniti d’America.
“S.:      Loro sono in stato di emergenza…(ride) la stazione di Roma, Milano e Bologna (n.d.r. sono in uno stato di allerta alto).
R.:       Tra due giorni sentirai lo sceicco BIN LADEN, possa Dio proteggerlo, dire questa è la prima reazione…inc….
R.:       OMAR è andato in America?…..che c’è capo? ….c’è del lavoro?
S.:        (ride)….inc.
R.:       Non possiamo lavorare con gli Americani?
S.:        Che ne dici di lavorare in Algeria?
R:        Sai oggi ci sono state sette bombe in Inghilterra.
UOMO:          Cosa? (n.d.r. l’uomo è fuori dall’auto).
R.:       In Inghilterra!
S.:        Sette bombe a Londra.
UOMO:          ….inc…..
R.:       Tu dici “io non ho documenti in Italia”.
 UOMO:         …inc…
R.:       Possa DIO lasciarti così come sei.
S.:        …inc….
R.:       Tu sei dispiaciuto per gli infedeli?
UOMO:          Cosa!?
R.:       Tu sei dispiaciuto per gli infedeli!
S.:        Guarda la sua situazione.
R.:       Guarda come ti ha ridotto l’Euro. Tu ti senti dispiaciuto per loro. Spero che lo faranno anche qui in Italia se Dio vuole.
UOMO:          …inc…
…inc…
UOMO:          Come stai sei stato in spiaggia?
S.:        ….inc….
UOMO:          I tuoi occhi sono rossi.
R.:       ALLAL, vieni ed accendi una sigaretta per me! Hai paura del capo? (breve pausa).
S.:        DALLALI (nickname)! Hai esposto la bandiera Americana. Non devi farlo quella è un’umiliazione tu sei un collaboratore giuro su Dio.
R.:       Spero che lo possono fare qui in tribuna”(fonetico: la parola sembra pronunciata in francese e significa stadio).
…Omissis
Pertanto, appare di tutta evidenza come i membri in Italia dell’organizzazione algerina di cui si discute siano dei terroristi a pieno titolo.
§6. l’aspetto probatorio
Particolare attenzione deve essere dedicata in un procedimento del genere alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell’emissione della misura cautelare.
Naturalmente in tutti i procedimenti deve essere adeguatamente valutata la gravità degli indizi di cui si dispone ma in procedimenti quali questo le difficoltà sono aumentate sul piano della ricerca della prova innanzitutto in quanto il giudice italiano è chiamato non solo ad una valutazione autonoma del fatto-reato sottoposto al suo esame ma considerando anche gli elementi probatori acquisiti in altre nazioni e soprattutto le situazioni transnazionali nonché coordinando gli elementi che sono stati acquisiti in varie parti d’Italia ed in molteplici inchieste.
Non a caso la richiamata sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione[96] ha affermato come principio fondamentale in materia che:” Qualora occorra valutare, ai fini del delitto di cui all’art. 270 bis c.p., la condotta di gruppi esistenti in Italia, i quali – secondo l’accusa – fanno parte di organizzazioni che operano in altri paesi, è riduttivo considerare soltanto gli elementi che riguardano l’attività svolta nel nostro territorio, senza inserirla nel complessivo quadro di quella riferibile all’intero sodalizio”.
In tale prospettiva, come detto, occorre anche recepire da parte del giudice come fatti notori gli eventi storicamente accertati, ancorchè riportati dalla stampa.
Oltretutto, come accennato le associazioni terroristiche transnazionali presentano caratteristiche ben diverse dai gruppi criminali tradizionali, in particolare quelli di tipo mafioso.
Caratteristiche che costituiscono la loro vera forza perché le rendono più “sfuggenti” alla conoscenza e quindi meno permeabili dalle indagini.
In secondo luogo, occorre tenere nel debito conto alcune caratteristiche della personalità e della cultura araba – ed a maggior ragione musulmana – che differenziano notevolmente i mediorientali ed i nordafricani dagli occidentali.
Infatti, è usuale negli islamici una certa enfatizzazione soprattutto dei propri sentimenti sicchè le loro manifestazioni sono spesso plateali ed accentuate più del necessario.
Non si può nascondere, inoltre, che una consistente percentuale[97] dei musulmani è animata da un senso di repulsione – se non di avversione – nei confronti della cultura occidentale in ogni sua manifestazione.
Come detto, quindi, è fondamentale individuare il discrimine tra adesione ideologica al radicalismo fondamentalista e partecipazione alla associazione terroristica evitando il pericolo che l’anticipazione della punibilità si traduca in persecuzione delle idee o di posizioni ideologiche.
Non si deve, poi, trascurare il fatto che l’ipotesi accusatoria è basata in gran parte su conversazioni captate a mezzo di intercettazioni telefoniche (ed in minima parte anche ambientali) per cui si tratta sempre di asserzioni fatte da una persona parlando con un solo interlocutore e non già di “formali” dichiarazioni espresse in incontri con altri.
L’esistenza di gravi indizi di colpevolezza può essere desunta anche dal solo contenuto delle intercettazioni telefoniche, quando però esse siano affidabili, quando siano numerose, concordanti e dal contenuto costantemente pregnante, nel senso del riferimento ad attività illecite e di non difficile interpretazione[98].
Insomma, gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni qualora siano a) gravi, e cioè, consistenti e resistenti alle obiezioni e, quindi, attendibili e convincenti; b) precisi, e cioè, non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o anche più verosimile, perciò non equivoci; c) concordanti, e cioè, che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi[99].
Da una parte, quindi, se è ricorrente l’affermazione che ai fini dell’adozione di una misura cautelare è richiesto il solo requisito della gravità degli indizi e non anche quello della precisione e della concordanza degli stessi, essendo sufficiente che tali indizi siano idonei a dimostrare, con elevato grado di probabilità, la sussistenza della condotta criminosa ipotizzata, riferibile all’imputato (o indagato) [100] in un procedimento quale questo la gravità si risolve in una pluralità di elementi che dalla loro coordinazione permettano di dedurre l’altissima probabilità della colpevolezza.
D’altra parte, il reato associativo di cui all’art. 270 bis c.p. è desumibile dalla continuità e sistematicità dei collegamenti di natura organizzativa fra gli affiliati, sia pure nella rilevata “peculiarità” del fenomeno definibile come terrorismo religioso a matrice islamica di natura internazionale[101].
L’accordo associativo è una struttura permanente[102], nella quale i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei propri compiti assunti od affidati – parti di un tutto[103].
Conseguentemente, ritiene questo giudice che per la configurabilità del reato non possano essere semplicemente richiamate le aspirazioni alla “guerra santa” ed al “martirio” espresse da ciascun indagato in conversazioni con altri[104] bensì occorra una verifica puntuale e rigorosa della concretezza di simili affermazioni e, soprattutto, dell’appartenenza all’associazione terroristica.
Appare, al riguardo, condivisibile una decisione della S.C. – ancorchè datata e riferita alla vecchia normativa[105] – in cui si afferma che l’appartenenza ad un’associazione di cui all’art. 270 bis c.p. può[106] essere desunta dalla convergenza di vari elementi, quali la personalità degli associati con la loro accertata qualificazione ideologica, …, il rinvenimento di documenti falsi o di altri arnesi o strumenti sintomatici di attività illegali, la detenzione di carte e stampati e scritti vari, a contenuto chiaramente sovversivo, destinati allo utilizzo ed alla diffusione, la disponibilità[107] di somme non giustificate e da qualunque altro elemento logicamente utilizzabile per una diagnosi tecnico-giuridica.
Quindi, appare decisiva ai fini che ci interessano la compresenza in relazione ai vari indagati dei seguenti fattori:
1) possesso di documentazione audiovisiva scaricata (ossia, copiata) da Internet a più riprese riguardante proclami alla jihad  ovvero azioni violente in danno di truppe statunitensi.
Al riguardo si segnala che il monitoraggio dei flussi telematici in arrivo ed in partenza dall’internet-point “Il Mondo al telefono” e le attività tecnico-digimetriche sui personal computer utilizzati per la navigazione internet hanno permesso di intercettare un costante ed elevato numero di collegamenti con pagine web e siti islamici (quasi tutti in lingua araba), caratterizzati in larga parte dall’esaltazione della “guerra santa” contro i regimi islamici “corrotti” e contro l’occidente, dalla valorizzazione delle lotte dei mujahiddin  (e di altri gruppi combattenti in nome dell’Islam) e dalla celebrazione delle azioni suicide degli “shahid[108].
Il tutto in una logica di propaganda apologetica dell’interpretazione coranica più radicale, di stampo jihadista.
Allo stesso modo, sono state intercettate diverse connessioni a siti ed a pagine web direttamente collegati al “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”.
Tra questi in particolare, emerge il sito <jihad-algerie.com> che, da informazioni formalmente acquisite dagli inquirenti tramite le autorità statunitensi, risulta noto come il “sito del G.S.P.C.”.
Tra gli elementi più significativi e sintomatici che sono emersi in questa prima fase dell’indagine, risulta il fatto che per accedere a molti dei link selezionati era necessario conoscere anticipatamente le relative “userid” e  “password”, senza le quali il collegamento veniva negato.
Tale misura di sicurezza mira ad escludere la possibilità di connessioni fortuite o accidentali da parte di utenti indesiderati e consente invece di limitare a soggetti predeterminati, conoscitori delle chiavi di ingresso, l’accesso al contenuto dei siti.
Pertanto, il fatto stesso di conoscere le parole d’ordine qualifica coloro che si connettono a tali siti come persone aderenti ad associazioni islamiche integraliste.
2) dichiarata adesione ad un’ideologia particolarmente rigida ed incentrata sulla necessità di una jihad  internazionale[109] come risulta da varie intercettazioni in cui spesso, ad esempio, si esalta l’attività di Al Zarqawi;
3) modus operandi improntato alla massima cautela e circospezione nonchè il ricorrente ricorso a modalità di linguaggio criptiche e, persino, l’occultamento a connazionali dei propri movimenti;
4) compiacimento per le azioni terroristiche commesse da islamici contro obiettivi «occidentali»[110];
5) relazioni con connazionali oggetto di indagini condotte da altre articolazioni del Raggruppamento Operativo dei Carabinieri [R.O.S.] sotto il coordinamento di altrettante Procure della Repubblica il massimalismo ideologico dei quali si concretizza in un fattivo attivismo in favore della causa islamica ovvero nella:
– propensione al martirio sui campi di battaglia ed invito a correligionari a recarsi in teatri di guerra per supportare la resistenza islamica;
– azione di proselitismo in favore dei gruppi armati operativi in Algeria, come documentato nei confronti, fra gli altri, dell’A. K.;
6) interessamento per connazionali arrestati in varie parti d’Italia proprio per appartenenza ad associazioni terroristiche e procacciamento di fondi per finanziare le loro difese legali;
7) attività propagandistiche consistenti nel favorire conferenze di oratori islamici nelle Moschee;
8) raccolta di offerte (zakat) per il movimento islamico[111];
9) procacciamento ai connazionali di documenti falsi onde permettere loro di soggiornare in Italia e di spostarsi in Europa.
Naturalmente non è necessario che per ciascun indagato siano stati accertati tutti i predetti elementi ma è indicativo della colpevolezza ai fini dell’art. 273 c.p.p.[112] la sussistenza di più indizi fra quelli detti.
E’ chiaro che ciascun elemento, singolarmente esaminato, può avere tutt’altra spiegazione che quella dell’appartenenza all’associazione di cui si discute ma occorre considerare la loro valenza complessiva anche nell’ambito del collegamento con altri indagati[113].
In altri termini, il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio verificando se essi, ricostruiti in sè e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale[114].
Tanto per fare un esempio, a proposito della documentazione scaricata da Internet, potrebbe obiettarsi che si sia trattato di semplice curiosità ovvero, anche, di “gradimento” per certe immagini.
Tuttavia, si osserva che in tal caso l’agente si sarebbe limitato alla loro visione e non avrebbe avuto alcun motivo di scaricarle.
Né è possibile sostenere che i video siano stati scaricati in quanto gli interessati volevano conservarli per rivederli a loro piacimento.
E’ proprio il coordinamento con i vari altri elementi che dimostra che quel materiale è stato scaricato a fini propagandistici e, cioè, per mostrarlo o distribuirlo ad altri.
Da ultimo, per l’aspetto probatorio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[115] hanno precisato che:”In tema di reato associativo è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima”.
Poiché molte delle attività poste in essere dai componenti delle “cellule” non costituiscono neanche reato in molti casi sembrebbe impossibile la dimostrazione della responsabilità.
Tuttavia, la prova del vincolo permanente nascente dall’accordo associativo, può essere data anche per mezzo dell’accertamento di “facta concludentia” quali i contatti continui tra gli associati, il loro attivismo ideologico e religioso, il linguaggio criptico ed il loro modo di comunicare riservato, il possesso di beni necessari per le operazioni delittuose[116] ovvero per lo svolgimento di certe attività[117], le forme organizzative, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, oltre che la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive[118].
§7. i reati associativi
In primo luogo si reputa opportuno chiarire che qualunque specie di associazione illecita non è altro che una forma particolare della generale associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. per cui devono ricorrere gli stessi elementi.
Dal punto di vista della ratio legis la esistenza e permanenza di un vincolo associativo fra più persone legate da un comune fine criminoso determina «pericolo per l’ordine pubblico» ed è la ragione stessa per la configurazione quale autonomo titolo del reato associativo, per la cui sussistenza, peraltro, è irrilevante l’eventuale mancata partecipazione di alcuni degli associati alla consumazione dei delitti programmati giacché ciò che è sufficiente è la “finalità” della struttura.
Il problema principale è costituito dalla differenza con la figura del concorso di persone nel reato continuato.
Al riguardo, va rilevato che il criterio distintivo del delitto di associazione per delinquere rispetto al concorso di persone nel reato continuato consiste essenzialmente nel modo di svolgersi dell’accordo criminoso che nel concorso di persone nel reato continuato avviene in via occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di più reati determinati, con la cui realizzazione l’accordo si esaurisce[119].
Nell’associazione per delinquere[120], invece, l’accordo criminoso è diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti con la permanenza di un vincolo associativo fra i partecipanti, ciascuno dei quali ha la costante consapevolezza di essere associato all’attuazione del programma criminoso.
Gli <elementi strutturali> del reato associativo sono, dunque,: I) la formazione e la permanenza di un vincolo associativo continuativo, II) più persone, III) lo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti[121], IV) la predisposizione dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale, V) la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso.
In breve, i reati associativi richiedono per definizione che una pluralità di persone si uniscano stabilmente per realizzare un programma comune.
Naturalmente, non è necessario che il partecipante conosca gli altri consociati giacché è semplicemente sufficiente che egli sia consapevole dell’esistenza dell’organizzazione e di far parte di essa, in un ruolo qualunque e tanto è di ancora maggiore evidenza a proposito dell’associazione terroristica internazionale.
E’ pacifico che per la sussistenza di qualunque reato associativo è irrilevante l’effettiva commissione dei reati programmati[122] tanto che la responsabilità dell’associato per tale reato può essere ritenuta anche qualora nessuno dei delitti-fine sia stato consumato e persino qualora egli non abbia preso parte ad alcuna delle imprese criminose portate a termine dall’associazione [123].
Tanto assume decisiva importanza in questo procedimento ove – tranne il procacciamento di documenti falsi – non venivano commessi dalla “cellula” veneta reati ma l’attività del gruppo si inseriva nella commissione di reati commessi da altri, anche a livello mondiale.
In questo procedimento occorre anche considerare il problema giuridico della eventuale partecipazione a titolo di concorso da parte di qualcuno degli indagati[124].
Per tale aspetto si è ormai delineato l’orientamento che si può configurare il concorso eventuale di persone nel reato associativonel caso in cui taluno contribuisca al pregiudizio che l’associazione reca all’ordine pubblico, mediante un contributo materiale o morale al vincolo dei partecipi, senza che egli sia a sua volta vincolato.
In particolare, ove si dimostri che gli affiliati fanno preventivo affidamento sul contributo di taluno, la condotta di questi, non essendo svincolata dallo scopo sociale, va considerata alla stregua di quella di qualsiasi partecipe.
Invece, qualora gli affiliati non facciano preventivo conto sul suo apporto, la relativa condotta è qualificabile come concorso eventuale nel reato[125].
Del resto, come è noto, tempo fa le Sezioni Unite della Cassazione[126] hanno stabilito, in generale, la possibilità del concorso esterno nel reato associativo ponendo l’accento sull’aspetto psicologico.
Infatti, si è stabilito che “Ai fini della configurabilità, sul piano soggettivo, del concorso esterno nel delitto associativo non si richiede, in capo al concorrente, il dolo specifico proprio del partecipe – dolo che consiste nella consapevolezza di far parte dell’associazione e nella volontà di contribuire a tenerla in vita e a farle raggiungere gli obiettivi che si è prefissa – bensì quello generico, consistente nella coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione”.
In generale, in ordine alle tante perplessità[127] sulla fattispecie del concorso esterno si rileva che tale figura giuridica è sempre stata ammessa per i reati a concorso necessario e si identifica in quelle condotte atipiche nel senso che la condotta tipica viene realizzata da altri ed il correo pone in essere un’azione che, riguardata da sola, non avrebbe niente a che vedere col reato.
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione e, in particolare quella relativa al c.d. caso Carnevale[128] hanno confermato la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa.
In motivazione si sottolinea che, anche dal punto di vista logico, “la situazione di chi entra a far parte di una organizzazione, condividendone vita e obiettivi e quella di chi, pur non entrando a farne parte, apporta dall’esterno un contributo rilevante…sono chiaramente distinguibili”.
Inoltre, il dolo del partecipe e quello del concorrente non risultano del tutto sovrapponibili: anche se vi è coincidenza rispetto all’apporto contributivo all’associazione, il dolo del partecipe “è arricchito…dall’elemento dell’affectio societatis, che, invece, per definizione è estraneo all’apporto del concorrente esterno”.
La novità introdotta dalla pronuncia in esame consiste nell’affermare che, per la configurabilità del concorso esterno, non appare sufficiente la mera consapevolezza che altri agisca con la volontà di realizzare il programma associativo.
Viene, infatti, accolta la concezione c.d. monistica del concorso di persone e, conseguentemente, “il concorrente esterno è tale quando, pur estraneo all’associazione… apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio”.
Dal punto di vista soggettivo, la distinzione tra dolo del partecipe e del concorrente esterno si fonda, da una parte, sul segmento dell’atteggiamento psicologico che riguarda la volontà di far parte dell’associazione, dall’altra emerge in senso positivo, “poiché il ricorso alle norme sul concorso fa emergere comportamenti atipici rispetto a quelli delineati dalla fattispecie di parte speciale, ma che si pongono in relazione causale con quest’ultima”.
Conseguentemente, dal punto di vista oggettivo, la mera “contiguità compiacente” o la “vicinanza” o la disponibilità nei riguardi del sodalizio o dei suoi esponenti, devono essere necessariamente accompagnate da positive attività che forniscono uno o più contributi utili al rafforzamento o al consolidamento dell’associazione, secondo gli stessi parametri usati per riconoscere la partecipazione.
L’altra sentenza delle Sezioni Unite sostanzialmente ribadisce l’aspetto causale[129].
In conclusione, va tenuto conto di due fattori:
u psicologicamente l’agente deve non solo sapere dell’esistenza dell’associazione ma anche deve volere contribuire alle sue finalità;
u obiettivamente deve apportare concretamente un contributo alla sua esistenza o alle sue attività illecite.
Nel caso di specie occorre, come già detto, una verifica ed una dimostrazione ancor più approfondita del solito onde evitare il pericolo di finire per sanzionare la c.d. contiguità “esterna” che è circostanza ricorrente nel mondo del fondamentalismo islamico.
Tanto deve essere ricordato nell’analisi delle singole posizioni degli indagati.
A proposito del reato associativo finalizzato alla falsificazione ed al procacciamento di documenti si riporta quanto evidenziato nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Milano in data 31 marzo 2003 relativa ad un’indagine nei confronti di terroristi islamici[130], e cioè che in conseguenza del bombardamento dei campi del gruppo terroristico di ANSAR AL ISLAM[131], sono stati rinvenuti nella struttura di Kurmal oltre diversi passaporti o documenti d’identità appartenenti a stranieri provenienti dall’Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Sudan, dall’Europa e dal Nord America, anche numerosi documenti d’identità falsi provenienti dall’Italia.
Tanto si segnala in relazione al reato di cui al capo b) affinché si comprenda che la falsificazione dei documenti ed il loro procacciamento e traffico da parte delle associazioni terroristiche non sono solo finalizzati a consentire ai propri aderenti di soggiornare e muoversi in Italia e negli altri Stati della Comunità europea ma anche ad agevolare gli interessati a recarsi nei luoghi ove si svolge la jihad [132].
Senza contare, poi, che la commissione di tali fatti-reati costituisce anche un sistema non indifferente di proselitismo in quanto favorire in tal modo i connazionali da una parte permette di entrare in contatto molto profondo con costoro[133] e d’altra parte avvicina l’utilizzatore del documento falso – che solitamente è un povero bisognoso – prima all’ambiente integralista e, poi, all’associazione.
Piuttosto, in considerazione della contestazione di cui al capo b), appare opportuno chiarire in generale alcuni punti che potrebbero dar luogo a perplessità.
Innanzitutto, si è detto che per il reato associativo uno degli elementi fondamentali è costituito dalla pluralità di persone che vi partecipano.
Peraltro, la norma di cui all’art. 416 c.p. prescrive espressamente la presenza di almeno 3 persone.
Nel caso di specie, come si dirà, sono quattro gli indagati per i quali si ravvisano gravi indizi anche in ordine a tale delitto.
Ad essi, però, vanno aggiunti il B.ed il Se. – per i quali non viene emesso provvedimento restrittivo per i motivi giuridici che saranno illustrati successivamente – in quanto gli inquirenti hanno comprovato il loro attivismo anche in tale settore[134].
Va, poi, chiarito che il presupposto dell’esistenza di una struttura organizzativa non deve essere inteso come creazione di un apparato rigido ed articolato in cui ciascun concorrente riveste un ruolo ben preciso.
Elemento essenziale dei reati previsti dalle norme sui reati associativi è l’accordo (cd. affectio societatis) che crea un vincolo permanente a causa della consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio e di partecipare, con contributo causale, alla realizzazione di un duraturo programma criminale.
Ne consegue la secondarietà degli elementi organizzativi che si pongono a substrato del sodalizio, elementi la cui sussistenza è richiesta nella misura in cui dimostrano che l’accordo può dirsi seriamente contratto, nel senso cioè che l’assoluta mancanza di un supporto strumentale priva il delitto del requisito dell’ offensività.
Tanto sta pure a significare che, sotto un profilo ontologico, è sufficiente un’organizzazione minima perché il reato si perfezioni, e che la ricerca dei tratti organizzativi non è diretta a dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del reato, ma a provare, attraverso dati sintomatici, l’esistenza di quell’accordo fra tre o più persone diretto a commettere più delitti, accordo in cui il reato associativo di per sè si concreta[135].
E’ stato più volte precisato dal giudice di legittimità che il reato associativo non richiede una struttura articolata o complessa o una esplicita reciproca manifestazione di intenti essendo sufficiente una struttura anche esile cui i compartecipi possano fare reciproco, anche tacito, affidamento[136].
Nè occorre anche la dimostrazione di quello che può essere stato il ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell’ambito dell’associazione stessa.
La “partecipazione”, infatti, per sua stessa natura, può realizzarsi nei modi più vari, la cui specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice e non può, quindi, essere richiesta neppure nel provvedimento dell’A.G.[137] tanto più che può facilmente verificarsi la fungibilità dei ruoli[138].
Nel caso di specie basta sapere che, come sarà precisato successivamente, taluno veniva contattato dalle persone che avevano bisogno dei documenti falsi e questi si rivolgeva ad altri associati per reperirli.
Piuttosto, potrebbe dare adito a recriminazioni il fatto che il P.M. non abbia affatto elevato incriminazioni per specifici reati di falso limitandosi solo a contestare l’associazione per delinquere.
Tuttavia, ciò non è assolutamente necessario: non occorrono autonome imputazioni nel momento in cui il P.M. indica in modo sufficientemente chiaro i fatti delittuosi che avrebbero costituito la finalità dell’associazione per delinquere[139].
Tanto non compromette in alcun modo l’esigenza difensiva chè l’interessato è messo perfettamente al corrente dell’accusa nei suoi confronti.
Nel caso di specie, è stato precisato nel capo d’imputazione relativo al reato di cui all’art. 416 c.p. che l’associazione si occupava del procacciamento e della falsificazione di documenti d’identità, permessi di soggiorno e contratti di lavoro.
Per quanto riguarda i documenti di identità è evidente il richiamo al reato previsto e punito dagli artt. 477 e 482 c.p.[140].
I permessi di soggiorno sono oggetto dei reati di cui all’art. 12 D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286 tenuto conto che nel concetto di immigrazione illegale è ricompreso anche il requisito della permanenza illegale[141].
Per quanto riguarda, poi, la contestata aggravante della finalità di terrorismo, prevista dall’art. 1 legge n. 15/1980[142], essa ricorre automaticamente – al di là del movente che ha determinato l’agente – in ogni reato finalisticamente diretto a progetti eversivi quali quelli del terrorismo internazionale ed inquadrabile tra quelli utili al raggiungimento finale dello scopo di sovversione[143].
Per la sua sussistenza è sufficiente che essa sia collegata ad un reato comunque finalizzato, anche indirettamente, all’eventuale fine di realizzare od agevolare le condizioni necessarie al raggiungimento del terrorismo o dell’eversione attraverso l’associazione criminosa[144].
D’altra parte, in base all’art. 3 della Decisione Quadro dell’Unione Europea devono essere considerati reati connessi alle attività terroristiche anche quelli che negli Ordinamenti interni sono comunemente indicati come reati-fine e cioè i furti aggravati finalizzati a commettere una delle condotte di cui all’art. 1, le estorsioni ugualmente finalizzate e proprio la formazione di documenti amministrativi falsi anche al fine di agevolare i movimenti di coloro che dirigono o partecipano all’organizzazione terroristica.
§ 8. GLI INDAGATI b. y. e s. k.
Si tratta congiuntamente di questi due indagati in quanto entrambi sono già stati tratti in arresto, come riferito all’inizio, nell’ambito del procedimento instaurato dall’A.G. di Napoli[145].
Si pone, quindi, preliminarmente il problema di valutare l’incidenza del precedente provvedimento restrittivo rispetto all’attuale richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere.
Deve essere precisato che in entrambi i procedimenti si tratta non solo delle stesse imputazioni[146] ma anche degli stessi fatti e differiscono solo i coindagati.
Infatti, la data ed i luoghi dei reati sono stati testualmente indicati nelle imputazioni formulate a Napoli:”Reati commessi in Napoli, Brescia, Vicenza e Salerno dal 15.10.2003 e fino al settembre 2005 (tutt’ora in atto)[147]”.
Si deve prendere atto, quindi, che già in quella sede è stata contestata l’attività illecita svolta dai predetti nel Veneto.
Orbene, la Corte Costituzionale[148] ha testualmente affermato:”E’ da escludersi che il giudice possa essere chiamato a pronunciarsi una seconda volta sull’ipotesi accusatoria in vista dell’apertura di un nuovo giudizio [149], e ciò sia che debba aversi riguardo a quanto disposto dall’art. 649 c.p.p., sia che trovi applicazione il principio del ne bis in idem in un’accezione più ampia di quella risultante dal predetto art. 649 e tale da impedire l’eventualità di procedimenti simultanei, rendendo applicabile, anche in tal caso, l’art. 529 c.p.p., la cui previsione possa ragionevolmente estendersi a comprendere le ipotesi in cui l’azione penale non abbia da avere corso in un procedimento perchè già promossa in un altro”.
Infatti, l’art. 649 c.p.p. (divieto di un secondo giudizio) costituisce espressione del generale principio di ne bis in idem, che tende ad evitare che per lo stesso fatto-reato si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendente dall’altro [150].
La giurisprudenza si sta ormai consolidando su questo punto[151] ma già in passato era stato fatto presente che”La regola del “ne bis in idem” presenta carattere generale essendo connaturata alla stessa “ratio” dell’ordinamento processuale e, pertanto, con i dovuti adattamenti, è applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, al “processum libertatis” e ad ogni forma di impugnativa, di riesame e di revoca di provvedimenti giudiziali[152].
La giurisprudenza citata esige che sia stata, comunque, pronunciata una sentenza di primo grado in quanto le sentenze hanno citato tale circostanza particolare perché quello era il caso alla loro attenzione.
Ma alla luce di tutti i predetti arresti giurisprudenziali non sussistono motivi per non applicare la regola anche al caso di specie anche per una semplice questione di economia processuale oltre che per la necessità di non recare un danno all’interessato.
Infatti, per quanto riguarda la particolarità del ne bis in idem occorre precisare che ai fini della preclusione del giudicato, costituisce fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma ed integrando gli estremi del medesimo reato, è l’ulteriore estrinsecazione dell’attività del soggetto diversa e distinta da quella posta in essere in precedenza.
L’identità del fatto, pertanto, è configurabile quando questa si realizza nelle medesime condizioni di tempo, di luogo e di persone [153].
In particolare, ai fini della preclusione del giudicato, costituisce fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma ed integrando gli estremi del medesimo reato, è l’ulteriore estrinsecazione dell’attività del soggetto diversa e distinta nello spazio e nel tempo da quella posta in essere in precedenza ed accertata con sentenza definitiva[154].
Peraltro, nel caso di procedimento per reato associativo al fine di escludere la medesimezza del fatto non rilevano nè, dal punto di vista del soggetto, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione (attività e ruoli), nè dal punto di vista dell’organizzazione, eventuali mutamenti in ordine all’ampiezza dell’oggetto del programma criminoso o in relazione al numero dei componenti; il giudice di merito deve accertare, invece, se il soggetto sia passato ad una diversa organizzazione criminale ovvero si sia verificata una successione nelle attività criminali tra organismi diversi, sia pure con lo stesso nome ed operanti nello stesso territorio[155].
Insomma, occorre verificare se l’agente abbia fatto parte di un’altra struttura associativa[156] e nel caso di specie non appare proprio che si sia verificata una tale eventualità come, in effetti, ritenuto dallo stesso G.I.P. di Napoli che ha preso in considerazione l’appartenenza degli indagati, anche quando si trovavano a Vicenza, alla stessa associazione terroristica[157].
Nell’informativa del R.O.S. si sostiene che il gruppo salafita vicentino non costituisse una mera emanazione delle articolazioni presenti sui territori campano (e lombardo), bensì che essa stessa formasse un’autonoma entità[158].
La tesi, però, non è sorretta da precisi elementi probatori bensì solo da, per così dire, una «impressione» basata sulla constatazione del sostegno all’attività di proselitismo ed alla raccolta di denaro dello sceicco yemenita Al Galal Aref Abdo Sharafi.
Ma è del tutto logico che ogni “cellula” si dedichi anche ad attività diverse a seconda delle circostanze.
Inoltre, non deve essere dimenticato l’aspetto giuridico: il reato contestato non riguarda ogni singolo gruppo sito in Italia e, soprattutto, non considera ogni gruppo a secondo della propria autonomia o meno.
L’art. 270 bis c.p. punisce l’appartenenza ad associazioni transnazionali – nel caso di specie il G.S.P.C. – e tutti gli indagati in qualunque sede giudiziaria italiana sono puniti sempre e soltanto come appartenenti a quell’organizzazione.
Tanto distingue la fattispecie in esame da quella che prevede l’eventualità che un soggetto faccia parte di un organismo criminoso che, oltre a operare in proprio, sia anche inserito in una “federazione” di analoghi organismi, avente sue proprie e distinte finalità, in funzione delle quali appunto essa è stata concepita e realizzata[159].
Se pure si volesse affermare che le cd. “cellule” sono strutturate in una sorta di “federazione” non si potrebbe mai ritenere e sostenere che ciacuna di esse persegua finalità diverse.
Ordunque, anche se l’art. 649 c.p.p. prescrive l’esistenza di un giudicato definitivo per l’applicazione del ne bis in idem esso in realtà costituisce, come detto, espressione di un principio di carattere generale.
E l’art. 12, comma 2, delle Disposizioni sulla legge in generale, stabilisce che «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato»[160].
Come fatto presente dalla recente sentenza delle Sezioni Unite in materia[161] dalla giurisprudenza che ha dato vita all’indirizzo favorevole ad una lettura estensiva dell’art. 649 c.p.p. traspare inequivocamente che, pur in assenza di una decisione irrevocabile, è giustificato il divieto di un secondo provvedimento giurisdizionale non attraverso l’applicazione diretta della predetta disposizione, la cui configurazione normativa risulta tracciata in confini ben precisi e delimitati, ma facendo leva, invece, su un principio che la trascende ed è collocato a monte della stessa, corrispondendo l’art. 649 ad una delle plurime specificazioni di una direttiva generale alla quale è conformato tutto il sistema processuale.
Si è voluto, cioè, significare che l’art. 649 costituisce un singolo, specifico, punto di emersione del principio del ne bis in idem, che permea l’intero ordinamento dando linfa ad un preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema.
A tale divieto va attribuito, quindi, il ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, a norma del secondo comma dell’art. 12 delle Preleggi, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione logico-sistematica.
Si è rilevato che la matrice del divieto del bis in idem deve essere identificata nella categoria della preclusione processuale, ben nota alla teoria generale del processo, sia civile che penale.
Ed è comune in dottrina l’opinione che l’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere.
In quest’ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere come nel caso, appunto, del provvedimento cautelare.
Del resto, è ormai ormai prevalente l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la preclusione del ne bis in idem giustifica la dichiarazione di impromovibilità dell’azione penale anche in presenza di provvedimenti decisori diversi da quelli indicati nell’art. 649 c.p.p., come il decreto di archiviazione seguito da riapertura delle indagini da parte dello stesso pubblico ministero senza l’autorizzazione del giudice prescritta dall’art. 414[162] e la sentenza di non luogo a procedere in assenza del provvedimento di revoca ex art. 434[163].
Tanto conferma l’esattezza della tesi surriferita sicchè è più che probabile a questo punto che anche il giudice di legittimità sancisca espressamente che il divieto del bis in idem trova applicazione anche in materia di provvedimenti cautelari[164] in quanto – come affermato dalla predetta sentenza delle Sezioni Unite – un sistema che non riconoscesse al divieto del bis in idem il carattere di principio generale dell’ordinamento potrebbe dischiudere la via a prassi anomale ed a condotte qualificabili come vero e proprio “abuso del processo”[165].
Significativamente il brocardo latino completo è:”ne bis de eadem re ne sit actio” intendendo dire nella sua genericità che è inibita qualunque azione.
Una diversa soluzione, del resto, confliggerebbe non solo con i caratteri del giusto processo delineati dall’articolo 111 della Costituzione, che richiede il rispetto delle regole della ragionevole durata del processo e della parità delle parti, ma anche del richiamato art. 117 in riferimento alle principali normative internazionali a cominciare dall’art. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo[166], cioè il diritto dell’imputato a non essere perseguito più di una volta per lo stesso fatto.
Diversa sarebbe stata la soluzione giuridica qualora fosse stata contestata un’attività ulteriore rispetto a quella per cui si procede a Napoli.
E’ da precisare che si è fatta una questione meramente giuridica in ordine alla possibilità di disporre in questa sede la misura cautelare ma nel merito questo giudice condivide pienamente le valutazioni del G.I.P. del Tribunale di Napoli il quale, a proposito del B., conclude nella sua ordinanza di cattura significativamente:
Ø      le conversazioni richiamate non si limitano ad esprimere opinioni su gravi episodi di matrice terroristica, ma esprimono, con il frequente utilizzo del pronome “Noi”, una realtà di appartenenza;
Ø      in occasione degli attentati di Madrid del marzo 2004, il B. esprime al suo interlocutore la certezza che sia stato usato esplosivo di provenienza pakistana, dimostrando la propria competenza in ordine alla miscelazione del TNT con altri prodotti chimici;
Ø      in più occasioni ed esplicitamente il B. prospetta agli interlocutori come imminenti eventi sanguinosi ed eclatanti, con l’intento di rafforzarli nella fede Jihadista, ed in un’occasione anche accennando ad un proprio coinvolgimento (si veda la conversazione del 7-7-2005, h. 19,25, nella quale l’A. utilizzando un chiaro linguaggio convenzionale dice al B. di averlo chiamato, come sempre, in occasione delle feste e delle ricorrenze, ricevendo da quest’ultimo –dopo qualche titubanza – i ringraziamenti e l’esclamazione “che Dio l’accetti( il sacrificio) per noi e per voi……….” e continua facendogli gli auguri di buon compleanno (anche se il compleanno di B. sarà solo due giorni dopo essendo lo stesso nato il 9 7.1973). Del resto che non si tratti di veri auguri di compleanno, lo si desume dall’ulteriore affermazione di B.e che testualmente dice al suo interlocutore, ovviamente non riferendosi anche questa volta ad una festa di compleanno, “………. Se Dio vuole questa volta ci sarà una festa più grande di questa ……”; ed ancora, nella conversazione in ambientale, già riportata, di commento alla strage di Sharm El Sheik:”…Vi colpiremo con l’ordine di Dio, lo Sceicco ha detto col sangue, col sangue vi vinceremo…moriamo tutti con l’ordine di Dio…Adesso li distruggerò! La cosa fatta bene richiede tempo!…”
Particolare rilievo è conferito dal P.M. a sviluppi investigativi nel Regno Unito, a carico di un gruppo di immigrati algerini coinvolti in un’indagine sulla presunta preparazione di un attentato con l’utilizzo di un veleno, denominato ricina (vds. ff. 75 e ss. del decreto di fermo).
Egualmente per S. il G.I.P. di Napoli, nell’ordinanza di cattura del 5 dicembre 2005 ha segnalato la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.
Si sono richiamate le motivazioni dei due provvedimenti restrittivi in quanto i tanti contatti che si esamineranno di questi due indagati con altri evidenziano la responsabilità anche di questi ultimi in ordine al reato associativo.
In altri termini, si deve sempre tenere presente che altro elemento che comprova la sussistenza di gravi indizi di responsabilità per gli altri indagati è l’esistenza di rapporti non generici bensì attinenti ai fatti di causa con il B. ed il SE. che denotano la compartecipazione nell’attività associativa e la sussistenza dei medesimi interessi.
—————————————————————————
OMISSIS
E’ fuor di dubbio, quindi, che G.R. conoscesse tutti i fatti principali della comunità integralista islamica in Italia e, soprattutto, delle persone che sono state indagate per terrorismo in questo procedimento ed in quelli di Napoli, Brescia e Salerno.
Così come, si è visto, fosse un convintissimo sostenitore della jihad verso la quale cercava anche di spingere gli amici e si preoccupasse e seguisse le vicende degli arrestati.
Se ne trae la conclusione da questa sua continua partecipazione che egli fosse inserito nella struttura associativa per cui è processo e verosimilmente questa è anche la sua convinzione.
Tanto più che pur trattandosi di uno straniero residente all’estero egli risponderebbe della sua partecipazione ad un’associazione che agiva in Italia ai sensi dell’art. 6 c.p.[167]
Nasce, però, un problema giuridico-fattuale che allo stato delle indagini impedisce di poter ritenere anche il G.R. gravemente indiziato del reato di cui all’art. 270 bis c.p.
Infatti, gli indagati di cui si è parlato in precedenza non solo erano dei propugnatori della jihad [168]ed estimatori degli attentati, non solo si riferivano spesso al “gruppo” salvo successivamente ad assumere posizioni di prudenza sia nei discorsi sia nell’uso stesso dei telefoni, non solo seguivano le vicende dei connazionali arrestati ma agivano concretamente ad esempio favorendo le conferenze nelle moschee dei “predicatori” per poter fare proseliti, raccogliendo denaro per sostenere le spese legali degli arrestati, procuravano falsi documenti ai connazionali per consentire loro di permanere in Italia o trasferirsi nel resto d’Europa.
Nulla di tutto questo è rimasto dimostrato in ordine al G.R. la cui partecipazione all’associazione – per quanto è dato sapere[169] – era di carattere semplicemente morale.
E’ noto che la teoria generale ammette il concorso morale in un reato a condizione che l’agente abbia apportato un contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti[170].
Proprio a proposito del reato di cui all’art. 270 bis c.p. la Corte di Cassazione ha precisato che la condotta di partecipazione all’associazione a delinquere, benché connotata dalla finalità di terrorismo, è a forma libera, “nel senso che il comportamento del partecipe può realizzarsi in forme e contenuti diversi, purché si traduca in un contributo non marginale ma apprezzabile alla realizzazione degli scopi dell’organismo”[171].
In effetti, come si è precisato in precedenza non occorre ai fini della sussistenza del reato associativo la commissione dei reati-fine ma in questo caso non è in discussione il reato bensì la responsabilità di una persona in ragione della sua appartenenza o meno – dal punto di vista giuridico – alla struttura.
Orbene, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che “per ritenere sussistente la compartecipazione al delitto di associazione per delinquere, non è sufficiente l’accordo per la realizzazione di uno o più delitti tra quelli che formano oggetto del comune programma di delinquenza; occorre invece la dimostrazione della volontà dell’agente di entrare a far parte dell’associazione e apportare un concreto contributo alla realizzazione del comune scopo criminoso per la realizzazione del quale l’associazione è stata costituita[172].
Da ultimo, le Sezioni Unite della Suprema Corte[173] ha chiarito che:”In tema di associazione, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi”.
La Corte, nel tracciare il criterio discretivo tra le categorie concettuali della partecipazione interna e del concorso esterno, ha rilevato che è “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima.
Anche in dottrina si è evidenziato che l’affectio societatis è ravvisabile nelle ipotesi in cui la condotta del soggetto integri un contributo (sia pure minimo) all’esistenza[174] dell’ente associativo.
D’altra parte, le condotte di partecipazione all’associazione devono essere caratterizzate, sul piano soggettivo, da quella che in dottrina è stata chiamata appunto l’affectio societatis, ossia dalla consapevolezza e dalla volontà di far parte dell’associazione criminosa, condividendone le sorti e gli scopi e, sul piano oggettivo, dallo stabile inserimento nell’organizzazione che prescinde da formalità o riti, ben potendo risultare per facta concludentia, attraverso un comportamento, cioè, che, sul piano sintomatico, sottolinei la partecipazione alla vita dell’associazione[175] .
E nel caso del G.R. non pare si possa affermare che egli concretamente partecipasse alla vita dell’associazione bensì solo che la seguisse da lontano né tantomeno che arrecasse alla stessa, ai suoi scopi, alle sue attività un qualunque apporto.
Insomma, dal suo punto di vista certamente ha aderito al “gruppo” ma dal punto di vista giuridico ne è rimasto a margine senza averne fatto parte a pieno titolo dal momento che il suo sostegno è rimasto sempre sotto l’aspetto psicologico ma non era affatto determinante, in alcuna misura, in quanto gli altri partecipanti erano già convinti di quel che facevano e non risulta che abbiano avuto bisogno, anche solo, dello stimolo di G.F.
Ci si riferisce, in particolare, alla sollecitazione che l’indagato ha fatto ad alcuni suoi amici ad andare in Iraq per fare la Jihad  che potrebbe essere identificata con quell’attività e quel contributo all’associazione di cui si è finora parlato.
Una tale conclusione, peraltro, deve essere esclusa sia per un motivo logico-giuridico sia, incontrovertibilmente, per un motivo di fatto.
Sotto il primo aspetto, tenuto conto che le predette sollecitazioni a quanto è dato sapere erano rivolte agli stessi appartenenti all’organizzazione, si deve considerare che appare del tutto paradossale il fatto che in tal modo egli non apportava affatto un contributo all’associazione bensì tendeva ad indebolirla allontanandone (pressocchè definitivamente) i membri.
Dal punto di vista di fatto bisogna ammettere che non sembra proprio che le sue esortazioni avessero sortito effetto e che qualcuno le avesse accolte.
Nell’interrogatorio di A. davanti al P.M. di Napoli in data 12 dicembre 2005 l’algerino fa capire chiaramente di non aver affatto accolto l’invito del G.R. a recarsi in Iraq chè, anzi, “Io sono stufo di frequentare persone come B., G.R., A., L., in quanto queste persone mi hanno creato solo dei problemi. Parlando spesso di questioni politiche legate alla situazione in Algeria, Iraq, Afganistan e in generale della Jihad intesa come “Guerra Santa… quando loro mi parlavano di questi argomenti, in particolare B., G.R. ed A., io dicevo loro di stare zitti e che non volevo parlare di quelle cose al telefono o da vicino”.
E’ del tutto probabile che A. abbia solo voluto prendere le distanze da quelle persone per suoi fini difensivi ma nella valutazione della posizione di G.R. non è possibile non tener conto di tali dichiarazioni ed eliminarle completamente.
Gli stessi CC sostengono che i propositi di costui di partecipare alla jihad  sono stati determinati non già dai discorsi di G.R. bensì dalle dichiarazioni dell’ex leader algerino Ahmed Ben Bella sulla “nona crociata contro i musulmani”.
Tanto più che l’altra persona con cui G.R. faceva simili discorsi, L., non risulta che abbia avuto l’intenzione di recarsi a combattere in Iraq (o altrove) e durante una conversazione telefonica ha anche tentato di cambiare argomento parlando di prendere moglie.
Pertanto, non sembra proprio che il G.R. abbia contribuito all’associazione quanto meno sotto l’aspetto del rafforzamento della volontà altrui[176].
 In definitiva, si osservino le seguenti circostanze:
a)      G.R. non ha fatto proprio nulla di concreto per contribuire alle attività dell’associazione di cui all’art. 270 bis c.p. sita in Italia;
b)      la sua condotta “illecita” era limitata a discorsi enfatici e «lirici» (la <polvere>) tanto che è netta l’impressione che si tratti più che altro di un ‘esaltato;
c)      il fratello F. gli ricorda di essere andato in Inghilterra a lavorare, lo rimprovera e lo invita ad essere più prudente;
d)     i suoi interlocutori non recepiscono i suoi discorsi ed, anzi, tentano di cambiare argomento.
Sembra proprio che il G.R. sia solo un ingenuo fanatico che è stato praticamente estromesso dall’organizzazione e tenuto ai margini anche se lui è convinto di fare parte a pieno titolo del “gruppo”.
Ciò spiega anche il fatto che il fratello non abbia voluto dare il suo numero di telefono a chi glielo chiedeva dopo gli attentati a Londra: evidentemente temeva che R., nella sua enfasi, potesse dire ad estranei qualcosa di pericoloso per sé e per gli altri.
Naturalmente, egli era disponibile in caso fosse stato necessario ma ciò non induce a ritenere la responsabilità di G.R. neanche a titolo di concorso esterno nel reato associativo contestato.
Le citate Sezioni Unite[177] sulla scia della precedente giurisprudenza che richiamano[178], secondo cui anche per il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. è configurabile il concorso esterno, hanno chiarito che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, deve aver avuto una reale efficienza causale, cioè essere stato condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine – per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.
E trattandosi in ogni caso di accertamento di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito, ha ritenuto che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo.
D’altra parte, ferma restando l’astratta configurabilità dell’autonoma categoria del concorso eventuale “morale” in associazione mafiosa, la S.C. non ha ritenuto consentito accedere ad un’impostazione di tipo meramente “soggettivistico” che “operando una sorta di conversione concettuale (e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), autorizzasse il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa”.
La S.C. ha osservato che il criterio di imputazione causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale costituisce il presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato e la fonte della responsabilità del singolo concorrente, secondo il classico modello condizionalistico della spiegazione causale dell’evento, tanto che è stato ribadito sia dal progetto 2001 della Commissione Grosso quanto da quello 2005 della Commissione Nordio di riforma della parte generale del codice penale.
Nella relazione al primo, in tema di concorso di persone nel reato, si segnala la specificazione aggiunta all’art. 43 comma 1 – “causalmente rilevanti per la sua esecuzione” – per sottolineare “l’elemento fondamentale della efficacia causale rispetto alla realizzazione del reato che ogni condotta atipica deve in ogni caso possedere”, sì da “assicurare l’esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo”.
Parimenti, nella relazione al secondo si avverte, nel definire le forme di partecipazione consistenti in specifici “atti di agevolazione”, che anche per essi “l’art. 43 comma 5 rapporta il contributo agevolatore alla sua efficacia causale”, in modo da rendere “l’accertamento del contributo nettamente più concreto perché impone al giudice di verificare se realmente il singolo concorrente abbia materialmente portato al fatto un quid pluris (contributo individualizzante) che abbia effettivamente influenzato il fatto storico”.
Insomma, a proposito di questo indagato è ben più verosimile che si sia verificata l’ipotesi della c.d. contiguità “esterna” di cui si è detto nel paragrafo relativo al reato associativo.
Pertanto, pur tenuto conto degli indizi che si sono, comunque, obiettivamente riferiti questo giudice, in considerazione delle osservazioni giuridiche, logiche e fattuali di cui sopra non ritiene che essi raggiungano quella gravità essenziale per l’applicazione della misura cautelare come prescritto dalla normativa.
———————————————————————-
OMISSIS
Ricorrono, a parere di questo giudice, specifiche esigenze cautelari di tutti i tipi indicati dall’art. 274 cp.p.
In particolare:
A) quelle di cui alla lett. a) poichè sono ancora in pieno svolgimento le indagini finalizzate ad individuare, anche eventualmente in collegamento con le Autorità di Polizia e Giudiziarie di altri Paesi europei, altri militanti della struttura non ancora identificati o identificati solo con nome in codice, sicchè appare assolutamente necessario impedire interferenze di qualunque tipo da parte di coloro che invece sono stati individuati e sono reperibili dalle Autorità italiane.
Ai fini dell’applicazione o del mantenimento di misura cautelare personale, il pericolo di inquinamento probatorio va valutato con riferimento sia alle prove da acquisire, sia alle fonti di prova già individuate, e ciò in considerazione della spiccata valenza endoprocessuale del dato riferito alle indagini preliminari e alla sua ridotta utilizzabilità in dibattimento.
Pertanto, al fine di prevenire il persistente e concreto pericolo di inquinamento probatorio, a nulla rileva il fatto che le indagini preliminari siano in stato avanzato ovvero siano già concluse con riferimento alle intercettazioni telefoniche ed ambientali[179].
Ed il pericolo per l’acquisizione e la genuinità delle prove soprattutto con riferimento alle dichiarazioni di terze persone è elevato e concreto.
Si pensi, infatti, all’ascendente – in ragione della loro personalità e del loro fanatismo[180] – che gli indagati possono avere sui propri connazionali i quali non solo possono essere indotti a dire il falso o a tacere da loro ma anche possono essere spaventati dal fatto che essi sono in circolazione sì da assumere atteggiamenti omertosi.
Insomma, poiché la formazione, l’acquisizione e l’avanzamento della prova non si arrestano alla fase delle indagini preliminari, in quanto avvengono solo nel corso del dibattimento e nel contraddittorio della parte pubblica e delle parti private, allorquando sia necessario e, comunque, venga ravvisata l’occorrenza e vi siano le condizioni, deve essere conservata la tutela delle fonti di prova per preservarne la genuinità sino al momento della formazione della prova stessa.
Sicché, qualora ricorra pericolo di compromissione per la prova, sia per la sua acquisizione sia per mantenere la genuinità delle fonti della stessa, è consentito al giudice di instaurare la misura cautelare personale a salvaguardia di essa anche ai fini del dibattimento[181].
E’ pacifico che il provvedimento di coercizione personale, giustificato dalla esigenza di prevenire l’inquinamento delle prove è legittimo anche se non fissa la durata della misura coercitiva, allorché risulti fondato anche sulla pericolosità sociale del soggetto come si riferirà alla lettera C)[182].
B) quelle di cui alla lettera b) poiché è indubbio che sussiste il concreto pericolo che gli indagati si sottraggano al processo e facciano perdere completamente le loro tracce.
Gli inquirenti hanno segnalato al riguardo che è estremamente significativo che poco dopo gli arresti a Napoli A. abbia cambiato indirizzo per ben due volte di seguito.
Ma in generale, ancorché essi abbiano a quanto pare agganci precisi con il territorio italiano[183], non si può trascurare il fatto che sono stranieri.
Riguardo al pericolo di fuga la legge parla espressamente di «concretezza» ma non è possibile non riferire tale termine a tutta la situazione ed alla personalità dell’indagato attribuendogli, quindi, (conformemente al senso della lingua italiana, v. dizionari Garzanti o Devoto-Oli) il significato di “pratico, legato all’esperienza”, a meno di non voler trascurare completamente la realtà.
Infatti, non è certo un mistero o cosa assolutamente inconsueta che gli extracomunitari dimorano spessissimo nel nostro Stato servendosi di false generalità e non è affatto inusuale che la loro identificazione sia estremamente problematica – se non addirittura impossibile – per la difficoltà di distinguerli ogni volta dai loro connazionali.
Gli algerini per cui si procede, poi, appartengono ad un’etnia[184], quella dei magrebini, presente in maniera consistente sul territorio nazionale per cui è estremamente facile per loro mimetizzarsi fra i connazionali, usufruendo facilmente anche di false generalità e di documenti apocrifi.
Oltretutto, la relativa vicinanza del loro paese d’origine e la “facilità” con cui essi possono raggiungerlo clandestinamente sono dati di tale evidenza che non meritano spiegazioni.
Né si dimentichi la agevole possibilità di recarsi in altre parti d’Europa: alcuni indagati hanno espressamente in conversazioni telefoniche adombrato l’opportunità di trasferirsi in Norvegia dove i controlli sono molto minori.
Insomma, è semplicemente irrealistico ipotizzare che queste persone, con tutte le possibilità che hanno di sottrarsi alle ricerche, restino, invece, ad attendere una qualunque decisione dell’Autorità Giudiziaria ed a disposizione degli inquirenti.
Inoltre, il tipo di reati e l’entità della pena che può essere inflitta, tenuto conto della personalità degli indagati, fanatici islamici che non esitano a commettere atti di terrorismo in quanto si considerano combattenti[185] ed odiano il mondo occidentale, rendono manifesta la probabilità che essi facciano perdere le proprie tracce[186].
Il pericolo di fuga così come la pericolosità sociale sono ben presenti nella valutazione del legislatore che ha modificato recentemente le disposizioni sul fermo[187] disponendo non la possibilità bensì proprio l’obbligo per il P.M. e la P.G. di procedere al fermo delle persone in ogni caso quando si tratti di un delitto commesso per finalità di terrorismo, anche internazionale, qualora esse vengano trovate in possesso di documenti falsi giacché è conseguenziale il pericolo di fuga.
Ciò vuol dire che lo stesso legislatore implicitamente ma chiaramente ha ritenuto sia la pericolosità sociale sia il pericolo di fuga dei terroristi che siano in possesso di documenti falsi.
Proprio le circostanze che si riscontrano in questo procedimento giacché gli indagati per i quali sono stati ritenuti gravi indizi di colpevolezza trafficavano in documenti falsi tanto che è stata ritenuta la sussistenza dell’associazione di cui al capo b) ed, anzi, uno di loro, A., si era procurato documenti falsi anche per sé.
Se ne deduce l’estrema facilità per tutti di procurarsi falsi documenti e sottrarsi alle ricerche come detto.
C) quelle di cui alla lettera c) giacché è assolutamente incontrovertibile la concreta probabilità – se non la certezza – che gli indagati commetterrano altri reati associativi, quali quelli per cui si procede, ovvero atti di terrorismo e, quindi, con violenza alle persone.
Trattasi di fanatici religiosi-ideologici il cui scopo principale, se non unico, della loro vita è quello di affermare nella realtà la supremazia dell’islamismo su tutto e su tutti a mezzo di tappe intermedie quali da un lato il continuo “danneggiamento” della società occidentale e dall’altro la creazione man mano del Califfato nei vari Stati musulmani.
Convinti, naturalmente, della «esattezza, verità e bontà» della loro fede[188] tanto che considerano il loro comportamento come una missione ed un apostolato[189].
Pertanto, è del tutto irrealistico credere che essi, in pendenza di un’inchiesta giudiziaria nei loro confronti, si estraino completamente dal G.S.P.C. e cessino completamente le attività.
Al massimo adotterebbero maggiori precauzioni e cautele come hanno fatto proprio in questo periodo avendo saputo delle investigazioni nei loro confronti dopo gli arresti a Napoli.
Non deve, poi, essere trascurato il fatto che essi possono continuare le condotte illecite trasferendosi in altri Stati europei[190].
Una tale evenienza frusterebbe praticamente la ratio della legislazione in materia che è stata chiaramente quella di reprimere i comportamenti terroristici al di là dei ristretti confini nazionali al fine anche di aiutare i vari Stati.
Non arrestarli, quindi, finirebbe per favorire il trasferimento del terrorismo all’estero, ottenendo proprio l’effetto opposto alla ratio legis ed alla volontà del legislatore!
Et de hoc satis: la pericolosità dei soggetti in questione è talmente evidente che non abbisogna di ulteriori considerazioni.
OMISSIS
 
Il Presidente della Sezione GIP del Tribunale di Venezia
Giandomenico Gallo


[1] Sul G.S.P.C. in particolare vedi il paragrafo successivo.
[2] Sharia è il termine arabo per indicare la Legge divina contenuta nel Corano e nella Sunna del fondatore dell’Islam Maometto (Da Wikipedia, l’enciclopedia multimediale libera).
Ai fini che ci interessano, onde cominciare a comprendere il particolare rigorismo di certo mondo islamico è interessante notare che la Sharia consente la pena di morte in tre casi: omicidio di un islamico, adulterio di una donna islamica sposata, bestemmia contro Allah (da parte di persone di qualunque fede).
[3] Il nome di Osama è trascritto in modi diversi (come Usama bin Laden è citato nei rapporti dell’FBI e nei resoconti giornalistici dei mass media di lingua anglosassone).
[4] Alias “Ouhaddouh Jamal”, alias “Labyed Bengacem” alias “Salah”, alias “Moustafà”, alias “Zoubier”, nato ad Algeri e già residente a Sesto San Giovanni (MI), in atto detenuto, poiché condannato dalla VII Sezione Penale del Tribunale di Napoli ad anni 8 di reclusione per “associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di armi e documenti falsi, con finalità di terrorismo” (sentenza del 22.03.2002, confermata in grado di appello e, nel maggio 2005, dalla Corte di Cassazione).
Djamel Lounici è coniugato con Deramchi Zahida, nata ad Algeri figlia di Deramchi Othman, personaggio di primissimo piano del panorama islamico radicale, già responsabile per l’Europa del “F.I.S.” (Fronte Islamico di Salvezza”) anch’esso condannato il 22.03.2002 dal Tribunale di Napoli, perché riconosciuto guida di una omonima rete di supporto al terrorismo algerino
[5] Al riguardo, si può citare la lettera datata 09.07.2005, del numero due di Al Qaeda, il medico egiziano Al Zawahiri nella quale il medesimo chiede al terrorista giordano Al Zarkawi informazioni sui rapporti con i fratelli algerini (fonte internet). Comunque, vedi oltre.
[6] Taluni scrivono Al Quaida secondo la pronuncia. In realtà, questa non è un’organizzazione. Al-Qa’ida significa “la Base” : essa agisce come una sorta di centro di servizi, come un punto di riferimento. In cambio al-Qa’ida riceve sostegno in Europa, ovvero soldi e logistica. D’altronde nel 2002 sono gli stessi integralisti islamici a dirlo apertamente: “Dobbiamo comprendere che cos’è Al-Qa’ida. E’ semplicemente una base, una struttura, attorno a cui ruotano dei gruppi che sono semi-autonomi” (“La Repubblica”, 13.07.2002, pag. 8: dichiarazioni di Muhammad al-Mas’ari, già professore di fisica nelle università saudite, convertitosi per sua ammissione alla causa di Osama Bin Laden).
E’ stato anche lo stesso Bin Laden a chiarirlo. Conversando il 2.10.2001 con il corrispondente di Al-Jazira da Kabul, lo sceicco ha precisato: “Le cose non stanno come le dipinge l’occidente, per cui ci sarebbe un’organizzazione con un nome specifico, al-Qa’ida. Questa denominazione è molto vecchia. E’ nata senza che noi lo volessimo. Il fratello Abu ‘Ubaida al-Bansiri creò (in Afghanistan) una base per addestrare i giovani a combattere il perverso, arrogante, brutale, terroristico impero sovietico (….). Quel campo di addestramento fu chiamato “la base” (appunto al Qa’ida, in arabo)”.
In senso più vasto la “base” era allora l’Afghanistan talibano, rifugio e riferimento sicuro per l’internazionale jidahista. Insomma,il marchio al-Qa’ida è oggi quello di un’azienda per la promozione della guerra santa, strutturata inizialmente verso la metà degli anni ’80 a sostegno dei mujahidin che dal Pakistan si infiltravano in Afghanistan per combattere i sovietici; ma essa non ha assunto mai forma piramidale. Lo stesso movimento jidahista, del resto, ha una struttura orizzontale, a rete, che aspira ad investire la intera comunità islamica (umma islamiyya) [da un intervento sul “Giornale di Storia Contemporanea” di Armando Spataro, Procuratore Aggiunto della Procura di Milano, magistrato specializzato in terrorismo].
E’ per questa struttura, per così dire, associativa che quasi mai Al Quaeda rivendica attentati che sono compiuti dalle varie organizzazioni.
[7] Tra i quali la Spagna e la Francia oltre alla Gran Bretagna.
[8] V. l’apposito paragrafo sulla jihad.
[9] Ordinanza nr. 666/05-R.G.G.I.P. del 05.12.2005.
[10] V. anche Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 29 ottobre 2002, n. 36096.
[11] Questo partito, in effetti, costituisce la genesi di tutte le altre formazioni di cui si dirà:“Tutta la comunità fa parte del Fronte Islamico della Salvezza… Tutti noi facciamo parte del Fronte Islamico della Salvezza” (conversazioni ambientali nr. 4474 e nr. 4475, registrate l’11.02.2006 sulla Renault/19 di T.).
[12] L’espressione “fondamentalismo” si richiama all’auto-definizione dei “militanti” islamici che usano il sostantivo asasiyyun (dall’arabo asas: “basi, fondamenta”). In occidente si usa anche l’espressione “integralismo” per indicare quello che si può definire “Islam radicale” (nel puro senso letterale di ritorno alle “radici” della fede islamica”).
Il fine principale del “fondamentalismo” musulmano appare quello del “ritorno” alla pietas dei primi musulmani ( salafiyyun ) per ricreare le condizioni operanti all’età in cui visse e agì il profeta Maometto (VII secolo) con i suoi fedeli Compagni. Per questo si usa il sostantivo-aggettivo “salafita”.
Il fatto che il salafismo sia una dottrina integralista di tutto il mondo musulmano è dimostrato dall’esistenza in Marocco persino di un’associazione terroristica denominata “Salafia Jihadia” il cui fine è quello del cambiamento con l’uso della violenza.
[13] Gli arresti operati a più riprese in Europa (Francia, Spagna e Gran Bretagna) di fiancheggiatori e militanti rivelatisi e dichiaratisi appartenenti al G.S.P.C. forniscono diretta conferma di tale assunto, contribuendo altresì ad aggiornare i diversi contesti associativi che si ispirano ad una rigida ed estrema interpretazione cranica.
[14] Il termine emiro, che di per sé non avrebbe alcuna valenza spirituale, acquista un significato del tutto particolare quando si faccia riferimento all’espressione araba Amir al-mu’minin, cioè “Comandante dei credenti” che, dall’epoca del secondo Califfo, Umar ibn al-Khattab, divenne il perfetto sinonimo di “Califfo” (v. nota 16).
Naturale che, in età successiva, il termine abbia acquisito un significato del tutto figurato per essere quindi impiegato per tutti coloro che, in qualsiasi campo dell’attività umana, siano considerati in possesso dell’autorità morale per costituire un punto di riferimento e di magistero.
[15] Cioè, il concordato offerto dal governo algerino.
[16] Letteralmente “Califfato”, cioè governo islamico. Non a caso il settimanale di Al Quaeda e del terrorismo arabo, istituito nel 2005, si chiama “South Al-Khilafa”, cioè “La voce del Califfato”.
[17] Cfr. allegato 1, pag.12 al regolamento Cee n. 881/2002.
[18] Di carattere economico, che in questa sede non ci interessano.
[19] Sez. II, sent. 10450, 9 febbraio/ 16 marzo 2005, in CED RV. 231258 chiamata a decidere proprio per un’ordinanza dell’A.G. di Napoli con cui non era stata accolta la richiesta di applicazione di misure cautelari in carcere nei confronti di ventotto cittadini algerini, in relazione al reato di cui all’art. 270 bis co. 1 2 e 3 c.p., per essersi associati tra loro e con altre persone non identificate, realizzando in Italia una rete di sostegno logistico dell’organizzazione eversiva di matrice confessionale denominata “Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento”, funzionalmente collegata all’organizzazione terroristica internazionale denominata Al Quaeda, allo scopo di compiere atti di violenza contro lo Stato Algerino e atti aventi finalità di terrorismo internazionale.
[20] Testualmente in motivazione:«L’affermazione della non appartenenza della storia dell’Algeria al patrimonio di conoscenze comuni che il giudice può porre a fondamento della sua decisione e della inutilizzabilità processuale delle notizie di stampa, per le quali occorrerebbe l’accertamento della provenienza e genuinità, si fonda su un erroneo approccio culturale e giuridico alla nozione di fatto notorio. Quest’ultimo, nell’odierna società sempre più integrata e transnazionale, non può più essere valutato in un ristretto ambito locale, poiché in tal modo il giudice di fronte a vicende, che coinvolgono il nostro ed altri paesi, finisce ineluttabilmente col pervenire ad un sostanziale “non liquet”, rifiutandosi di considerare fatti anche eclatanti che, per la loro rilevanza, sono da ritenere di comune conoscenza».
[21] Mujaheddin (traslitterato anche come mujahidin, mujahedeen, mujahedin, mujahidin, mujahideen, ecc.) è la forma plurale di mujahid, che si traduce letteralmente dall’arabo con il termine “combattente”, qualcuno che si impegna nella jihad, o “lotta”, ma viene spesso tradotto come “guerriero santo”. Nella fine del XX secolo, il termine “mujaheddin” è divenuto popolare sui mass-media per descrivere diversi combattenti armati che si ispirano a ideologie islamiche, anche se la parola non reca sempre un significato esplicito di “santo” o “guerriero” (da Wikipedia, Enciclopedia libera Internet).
[22] Condannati con la citata sentenza del Tribunale di Napoli.
[23] Sulla nozione di califfato v. note 14 e 16.
[24] Assolutamente chiara è la conclusione del comunicato:”… Io chiedo a Dio Onnipotente di concedere la vittoria all’islam e ai musulmani e distruggere e umiliare gli infedeli”.
[25] Shaykh, in italiano sceicco, è il termine arabo che letteralmente significa “vecchio” ma che in realtà indica una persona di grande rispetto. In particolare, al giorno d’oggi il termine può essere impiegato per chi sia considerato un Maestro, nei campi più disparati dell’attività umana, anche se il campo delle discipline religiose è quello in cui il fenomeno maggiormente si realizza ma può essere anche riferito – ad esempio negli ambienti “radicali” islamici – a un personaggio quale Osama Bin Laden, giudicato “guida” del movimento.
[26] Durante un raid americano in uno dei covi di Zarkawi è stata ritrovata una sua lettera a Droukdel (eminente esponente del G.S.P.C.).
[27] Con evidente riferimento ai numerosi quanto sanguinosi attentati compiuti in Iraq alla vigilia delle elezioni generali del 30 gennaio 2005, per la formazione della nuova Assemblea Nazionale, con il chiaro obiettivo di far naufragare la prima esperienza democratica di quel paese, dopo molti anni di dittatura.
[28] A giustificazione della mancata restituzione, il portavoce salafita adduce una fase di stallo dello jihad in Algeria dove, a differenza di quelli operanti in Iraq, Cecenia, o Arabia Saudita, in quei mesi i mujahiddin algerini si troverebbero trincerati in zone impervie del paese. La qual cosa conferma ancora una volta l’impostazione jiahiddista globale del movimento.
Per inciso, questo riferimento ad un messaggio audio documenta con assoluta evidenza la sussistenza di rapporti diretti del terrorista giordano Al Zarqawi con la dirigenza algerina del G.S.P.C..
[29] A riprova in una conversazione ambientale intercettata il giorno 15 giugno 2002 all’interno degli uffici della Comunità Islamica in Italia a Milano un uomo di imprecisata nazionalità proveniente dalla Germania nel parlare di attività terroristiche da molti di punti di vista tra l’altro affermava:”… i nostri gruppi sono sparsi dall’Algeria in tutto il mondo” (fonte Internet www.statewatch.org/cia/documents/milan-tribunal-abu-omar.pdf).
[30] In base a ciò veniva ipotizzato che l’attentato potesse avvenire anche in territorio francese.
[31] Alias Rachid Kefflous, alias Haidar Al Samiz, alias Doctor Haidar, tratto in arresto a Londra nel febbraio del 2001 nell’ambito di una operazione antiterrorismo, a seguito della quale venne avviata procedura di estradizione verso gli Stati Uniti.
[32] Abu Doha era succeduto a Redouane Laadjal nella direzione della “Maison des Algeriens” (infrastruttura di raccolta degli aspiranti mujahiddin, costituita nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan, dedicata ai soli volontari algerini), dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta a Kabul il 29.07.1999, nel corso di un’imboscata tesagli dai combattenti del comandante Massud.
[33] Il recapito telefonico tedesco del “Meliani” è stato rinvenuto in Milano, via Bligny nr. 42, del nel corso di una perquisizione effettuata il 06.12.2000 dalla DIGOS della locale Questura, presso la dimora di Koal Abdelkader.
[34] In particolare si citano i contatti con gli indagati facenti parte dell’indagine denominata “AL MUHAJRUN”        della Polizia di Stato di Milano risalente all’anno 2001. 
[35] Già arrestato a Francoforte il 06.09.2000 per truffa, uso di falsi documenti e false carte bancarie, scarcerato il 25.01.2001.
[36] Come rappresaglia al sostegno politico del regime algerino.
[37] V. nota 282.
[38] Provette, bacinelle, bilance di precisione, boccali graduati per dosaggi, densitometri.
[39] Tra cui glicerina ed acqua ossigenata.
[40] Operazione “Al Muhajirun”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Milano.
[41] In diretto collegamento operativo con analoghi gruppi localizzati in Germania, Gran Bretagna ed Algeria.
[42] Per il reato di associazione per delinquere, costituente articolazione del G.S.P.C., in diretto collegamento operativo con analoghi gruppi operanti in altri Stati europei (Germania, Inghilterra ed Algeria), finalizzata alla realizzazione di svariate attività criminose quali la predisposizione di carichi di armi e di esplosivi, illegalmente importati e detenuti sul territorio nazionale, anche in funzione del successivo trasporto in altri Paesi, contraffazione di documenti di identità anche in funzione di garantire il transito e la permanenza sul territorio nazionale di militanti del gruppo eversivo.
[43] Alias “Saber”, alias “Sami” alias “Umar Al Muhajir”, nato a Menzel (Tunisia) e residente a Gallarate (VA), condannato a cinque anni di reclusione.
[44] Alias “Khaled”, nato in Tunisia e residente a Gallarate (VA).
[45] Alias “Farid”, alias “Ishak”, nato in Tunisia e residente a Peschiera Borromeo (MI).
[46] Si richiama quanto detto alla nota 6.
[47] Si configurano come una confederazione informale di cellule, ognuna delle quali ha un referente chiamato “sceicco”.
[48] V. Cass., sez. II, sent. 669, 21 dicembre 2004/17 gennaio 2005, imp. Ragoubi ed altri, in CED RV. 230431.
[49] Richiesta di applicazione di misura cautelare nel proc. N. 5333/2004 R.G.N.R.
[50] Art. 270-bis (testo in vigore dal 19-12-2001) – Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico
 Chiunque   promuove,   costituisce,   organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione e un organismo internazionale.
[51] Art. 270-sexies. (testo in vigore dal 2-8-2005, approvato immediatamente dopo i tragici attentati di Londra e di Sharm el Sheikh) – Condotte con finalità di terrorismo.       
   1. Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo     scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture     politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonchè le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.
[52] Ispirata alla Convenzione internazionale per la repressione dei finanziamenti al terrorismo (New York, 9 dicembre 1999) che aveva stabilito che deve essere considerato atto di terrorismo «ogni atto la cui finalità per natura o contesto, sia quella di intimidire una popolazione o di costringere un governo o una organizzazione internazionale a fare o ad omettere qualche atto…» (art.2, comma 1, lett.b).
[53] In ogni caso, come esattamente ha precisato la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione nella predetta sentenza del 16 marzo 2005 qualora occorra valutare, ai fini del delitto di cui all’art. 270 bis c.p., la condotta di gruppi esistenti in Italia, i quali – secondo l’accusa – fanno parte di organizzazioni che operano in altri paesi, non si deve considerare soltanto gli elementi che riguardano l’attività svolta nel nostro territorio, senza inserirla nel complessivo quadro di quella riferibile all’intero sodalizio. La cellula italiana, infatti, potrebbe essere chiamata a svolgere compiti di mero supporto all’azione e, pur avendo limitato ruolo, si porrebbe come parte integrante di una associazione che si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo.
Consegue che non occorrono atti di violenza da parte della propagine sita in Italia ma l’organizzazione estera non può non avere come elemento costitutivo la violenza.
[54] Ancor più esteso è il concetto nel Terrorism Act 2000 della Gran Bretagna in cui si definisce terrorismo “l’azione” violenta (“use”) o la minaccia (“threart”) diretti ad influenzare il Governo, intimidire la collettività, o parte di essa, o diretti a raggiungere un fine politico, religioso o ideologico”. Sono considerate terrorismo, altresì, l’azione o la minaccia consistente in una “grave violenza” contro la persona o in un “grave danno” contro la proprietà privata”, ovvero l’azione che mette in pericolo la vita della persona o crea un grave pericolo per l’incolumità o sicurezza della collettività o parte di essa. Tale disposizione segna il superamento della nozione di atto terroristico come atto violento, sanguinario, eversivo in senso classico. Conferma tale interpretazione la circolare esplicativa del Terrorism Act 2000 emanata dal Ministero dell’interno ove si legge: “La legge adotta una definizione più larga riconoscendo che il terrorismo può avere una motivazione ideologica, politica e religiosa e che può ricoprire azioni che possono non essere violente in se stesse ma che possono avere, in una società moderna, un impatto devastante”.
[55] Sez. I, sent. 11382, 11 luglio/5 novembre 1987, in CED RV. 176946.
[56] Deve considerarsi, però, che originariamente nel D.L. n. 374 del 2001 era stata stabilita la condizione di procedibilità dell’autorizzazione a procedere per il reato di cui all’art. 270 bis c.p.
La relazione al Decreto legge a proposito dell’autorizzazione a procedere, affermava che “tale passaggio procedimentale ha lo scopo di consentire una attenta valutazione politica dei fatti, riguardati nei possibili e delicati riflessi sui rapporti internazionali ”. Tuttavia, l’autorizzazione ministeriale avrebbe dato un improprio sapore politico e discrezionale alla scelta di procedere o meno interferendo anche con le valutazioni della magistratura.
L’eliminazione, invece, ha consentito proprio di evitare implicazioni politiche in quanto il magistrato non ha alcuna discrezionalità ma deve solo verificare la sussistenza dei presupposti di cui si parla nel testo.
[57] Il terrorismo internazionale ha riportato in auge, nei tempi più recenti, il tema della guerra giusta, tale da giustificare un’aggressione unilaterale (o apparentemente tale) a uno Stato “fuorilegge”, a uno Stato “canaglia”, etc.
Tralasciando le ragioni storiche della distinzione fra «nemico» (justus hostis, cioè un nemico che può avere ragione) e «criminale» per il diritto bellico (un nemico che non può avere ragione per il solo fatto di avere attivato una guerra che non sia strettamente difensiva, o per il fatto di non essere legittimato come nemico), attualmente prevale la concezione del nemico come criminale in quanto mero aggressore nel diritto internazionale: irrilevanti essendo (ma solo entro certi limiti!) i motivi, il primo che aggredisce con una guerra come strumento di risoluzione di un conflitto (non con un mero atto di aggressione che guerra ancora non sia) sarebbe in quanto tale fuorilegge, subentrando così il concetto di guerra come crimine «in sé».
E’ questa la concezione recepita anche dal nostro Costituente che nell’art. 11 ha stabilito che”L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;…
[58] Sentenza del giudice Clementina Forleo del 24 gennaio 2005 basata sulla distinzione tra “terroristi” e “guerriglieri”: “Il limite tra guerriglia e terrorismo è stato tracciato in modo pressocchè unanime dalla dottrina internazionalistica, in base alla quale si verte nell’ambito della guerriglia quando, attraverso una struttura paramilitare e clandestina, si combatta contro un esercito straniero occupante o contro un assetto statuale ritenuto dagli stessi combattenti come illegittimo, indirizzando l’atto violento nei confronti di obiettivi militari. Viceversa, può parlarsi di atto terroristico quando gruppi anche muniti di stabile organizzazione, per i fini più vari e di solito attinenti a forti motivazioni ideologiche, colpiscano, anche in contesti bellici, indifferenziatamente obiettivi militari e civili, creando terrore indiscriminato nella popolazione” V., però, i pesanti rilievi del G.I.P. di Brescia nell’ordinanza del 31 gennaio 2005 con cui è stata disposta la rinnovazione della misura cautelare nei confronti di due indagati. V. altresì i commenti di questo giudice a proposito della “guerriglia”.
[59] Si trattava, però, solo di un progetto normativo: la risoluzione, poi, non è stata approvata.
[60] Infatti, basta richiamare la dichiarazione del Ministro della Giustizia britannico Jack Straw rilasciata nel 1998 (Panorama, 25 giugno 1998, pag. 94) a proposito dei reati eversivi e terroristici contro istituzioni straniere. A chi gli chiedeva spiegazioni dell’assenza nell’ordinamento inglese di una norma incriminatrice così rispondeva: “Non dimentichiamo che chi oggi è considerato un terrorista potrebbe domani essere definito un combattente per la libertà”.
[61] V., ex plurimis, Cass., sez. I, 11 maggio 2000, n.3486, imp. Paiano e altri, in Cass. Pen., 2001, 1196 ovvero Giur. It., 2001, 1229 nonché sez. VI, sent. 3241, 10 febbraio/13 marzo 1998, imp. Cadinu C. e altro, in CED RV. 210680.
[62] Tradizionalmente, si è ritenuto che l’oggetto della tutela penale sia duplice: da un lato, l’interesse relativo alla personalità dello Stato, come desumibile dalla stessa collocazione sistematica della fattispecie, dall’altro, l’ordine pubblico, leso per effetto del programma di violenza che, sul versante finalistico, deve connotare il sodalizio.
Ciò posto, parte della dottrina ha ritenuto che, anche all’indomani delle modificazioni introdotte dalla legge n. 438/2001, l’oggetto della tutela penale sia destinato a restare invariato, quand’anche gli atti di violenza siano stati programmati contro uno Stato estero o un organismo internazionale: a tale risultato ricostruttivo si perviene osservandosi che, anche nelle ipotesi di associazione con finalità di terrorismo internazionale, il bene giuridico protetto continua ad essere costituito dall’ordinamento costituzionale italiano, in specie nella parte in cui richiama le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e le organizzazioni internazionali che operano per assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni (artt. 10 e 11 Cost.), nonché i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Su altro versante chi, escludendo che l’incriminazione delle associazioni dedite al terrorismo internazionale sia diretta a tutelare la personalità interna dello Stato e l’ordine pubblico, sostiene che la stessa sia funzionale alla piena attuazione degli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano con l’adesione alle convenzioni in materia di terrorismo internazionale.
Più nel dettaglio, alla stregua di tale seconda e più recente impostazione, la modifica per mano del legislatore del 2001 dell’art. 270-bis (e lo stesso può sostenersi per l’introduzione degli artt. 270-quater e quinques) serve a garantire la c.d. sicurezza pubblica mondiale, ossia la sicurezza della comunità internazionale dagli attacchi terroristici pianificati da organizzazioni terroristiche sopranazionali o da loro cellule, operanti sul territorio italiano (Roberto Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Tomo I, Giuffrè, 2005).
[63] O, peggio ancora, politiche.
[64] Quindi, non dalla effettiva commissione: come detto, trattasi di reato di pericolo per cui viene anticipata la soglia di punibilità. V., anche, quanto detto e quanto si dirà a proposito degli atti terroristici all’estero.
[65] L’art. 12 delle Preleggi dispone che nell’interpretare la disposizione di legge occorre anche tener presente che ciascuna norma non è isolata ma deve essere inquadrata nel complesso delle altre norme che costituiscono l’ordinamento giuridico (elemento sistematico).
Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliquota particula eius proposita iudicare vel respondere” (Celso, D. 1, 3, 24).
[66] La parola viene dal latino terrere, far tremare, ed è entrata nel linguaggio comune nel senso politico di assalto all’ordine pubblico e civile; infatti il terrorismo ha lo scopo di terrorizzare. Vengono etichettati come terrorismo atti pubblici di violenza commessi senza un chiaro obbiettivo militare e che suscitano un diffuso sentimento di paura.
[67] Tanto per fare un esempio, strettamente collegato all’argomento del terrorismo islamico, si richiamano le prescrizioni religiose quali le “fatwa”. In tali casi, però, può essere ritenuto violento l’atto in quanto non solo deve essere presa in considerazione la violenza fisica, vera e propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima ma anche la violenza impropria che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione (cfr. Cass., sez. V, sent. 1195, 27 febbraio/7 maggio 1998, imp. Piccinin ed altri, in CED RV. 211230).
[68] Anche uno sciopero è suscettibile di costringere un governo a compiere od astenersi dal compiere un atto o a destabilizzare strutture economiche (art. 270 sexies c.p.).
[69] Circostanza che è stata spesso accertata in vari procedimenti in Italia.
[70] Anche se come si vedrà successivamente anche gli associati in Italia in definitiva manifestavano propositi di violenza.
[71] Vedi paragrafo successivo.
[72] …combatteremo sempre, …nessuno ci fermerà, perché siamo qui per divulgare la parola di Allah!…molti predicano anche se non sanno nulla sulla religione, non sanno ciò che è buono, e ciò che è cattivo; essi dicono delle cose che Allah non ha mai detto (…) allora interpretano a modo loro le scritture. Altri scrivono delle cose non veritiere. Ma   Allah un giorno li punirà…” “…noi combatteremo, non importa per quanto possa durare, anche fino al giorno giudizio..” (…) “…siate pronti a battervi nel nome di Allah, perché la jihad non è solo la responsabilità di alcune persone o di un gruppo, ma è responsabilità di tutti i musulmani”.
[73] V. informativa conclusiva dei Carabinieri.
[74] Con tutti i dubbi che tale formula può ingenerare soprattutto con riferimento all’ideologia oltranzista islamica che da molte parti viene considerata come non già una forma violenta di aggressione bensì come una reazione difensiva tanto vero che gli attivisti religiosi militanti e i loro sostenitori per descrivere l’operato del loro gruppo non usano il termine terrorista bensì «combattente».
[75] A seguito della L. 18 ottobre 2001 n. 3.
[76] Così sono testualmente definiti.
[77] (2002/475/GAI) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 164 dell’Unione Europea del 22.6.2002. Questa Decisione Quadro si è resa necessaria non solo per rafforzare l’impegno comune in materia di competenza territoriale allargata, estradizione, misure di sorveglianza di sospettati e misure di protezione e assistenza in favore delle vittime ma anche perchè solo alcuni Stati membri, quali la Francia, la Germania e l’Italia possedevano una legislazione specifica in materia di reati terroristici mentre nella maggioranza degli altri Paesi le condotte ad essi assimilabili erano sanzionate come reato comune.
La decisione adottata nell’ambito della normativa europea, in particolare gli artt. 29, 31, lettere e) e 34, paragrafo 2, lettera 9), del Trattato di Maastricht è vincolante per gli Stati membri pur lasciando alle autorità nazionali la scelta delle forme e dei mezzi con cui pervenire ai risultati che si prefigge di ottenere.
[78] Appare assurda la similitudine fatta da alcuni tra il “terrorismo” iracheno e la “resistenza” dei partigiani in Italia contro il nazi-fascismo. Senza considerare le tante differenze, basta solo richiamare il fatto che i partigiani non commettevano atti gratuiti di violenza nei confronti della popolazione civile a differenza di quanto avviene quotidianamente nella realtà irachena.
[79] Se questa <resistenza> avesse un’impostazione democratica non avrebbe necessità di aggredire e terrorizzare la popolazione perché sarebbe appoggiata, anche implicitamente, da una parte rilevante del popolo come è avvenuto appunto in Italia all’epoca della “Repubblica di Salò”.
[80] Si usa il genere femminile perché, nella accezione che ci interessa, si avvicina al termine “guerra”. Molti, peraltro, dicono “il” jihad.
[81] 9:5, 29.
[82] Taluno sostiene che la “Guerra Santa” islamica sia nata con Maometto in quanto egli fu un razziatore di carovane e autocrate di Medina. Secondo il Profeta il mondo è popolato di “infedeli” ed è dovere d’ogni islamico il sottometterli.
[83] Versetto 2:191: “Dal momento che la Jihad prevede la morte e l’uccisione di uomini, Allah attira la nostra attenzione sul fatto che la miscredenza, il politeismo e lo sviare dal percorso di Allah sono immensamente peggiori dell’uccidere”.
Oltretutto, nel Corano si afferma che la Jihad fa accedere alla più grande ricompensa ed è la strada più sicura per il paradiso se il “guerriero” muore: “Non pensate a coloro che sono stati uccisi nella causa di Allah come morti … essi vivono … alla presenza del loro Signore” (versetto 3:169). “… a colui che combatte nella causa di Allah … presto noi {Dio} gli daremo una ricompensa…” (versetto 4:74).
[84] V. il sito Internet <www.islamitalia.it>.
[85] Dal sito Internet <http://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_musulmani>.
[86] Lo stesso Bin Laden cita l’inizio di Corano 2, 191 (“Uccideteli ovunque li incontriate […]”) ed il versetto 2, 193 (“Combatteteli finché non ci sia più persecuzione, e il culto sia [reso solo] ad Allah“), ricollegandosi a una lunga tradizione rigorista secondo cui la miscredenza stessa è un atto di aggressione e giustifica la più dura reazione militare. Si richiama, poi, la fatwa del 23 febbraio 1998 (sottoscritta non solo da Bin Laden, ma anche da dirigenti che – diversamente da lui – possono vantare credenziali come studiosi del Corano) che conclude testualmente che “uccidere gli Americani e i loro alleati – civili e militari” in questi tempi apocalittici è “dovere individuale di ogni musulmano, che può farlo in ogni paese dove gli riesca“.
[87] Testo del Messaggio: «Chi combatte senza avere in cambio soldi è un martire. E’ questa la mia seconda lettera indirizzata ai nostri fratelli musulmani in Iraq. Oh gente di Salahuddin. Il vostro Jihad è un Jihad benedetto, specialmente quello dei fratelli palestinesi.
Gli americani si sono messi nei guai andando in Iraq, sono rimasti impantanati nello stagno del Tigri e dell’Eufrate. Bush ha pensato che l’Iraq è ricco di petrolio e ora è rimasto bloccato.
Voi state combattendo questa guerra senza porre condizioni. Questa è una crociata contro il mondo islamico.
Oh giovane popolo dell’Islam ovunque nel mondo e in special modo nello Yemen, devi puntare sul Jihad e mostrare i tuoi muscoli. Segui la retta via e non seguire il popolo che segue i miscredenti che vuole sviarti da questa missione….
 Dico agli iracheni: è davanti a voi la vittoria contro gli americani e le forze dei crociati. Essi vietano ciò che ha permesso Allah come il Jihad. Dico a tutti coloro che aiutano gli americani che in verità essi sono dei miscredenti rinnegati, così come il partito socialista Baath e i partiti democratici curdi. Quello del Consiglio governativo è un governo scelto dall’America, come quello di Karzai o quello di Abu Mazen ed è un governo traditore. C’è bisogno in Iraq di un governo islamico che segua l’Islam.
Dico ai fratelli iracheni che sono con voi nel vostro sforzo e nel vostro Jihad: dovete prodigarvi per instaurare uno stato islamico….
Oh mujahidin iracheni vi dico, per finire, che voi siete l’esercito di Allah e siete la prima linea per difendere la comunità islamica del mondo, la Nazione di Maometto
».
[88] Il termine ha il duplice significato di dichiarazione di guerra all’infedele ed incitamento verso tutti i credenti musulmani.
In particolare, nella dichiarazione in parola gli estensori, tra cui Usama Bin Laden ed il suo luogotenente Ayman Al Zawahiry, dispongono che “… la risoluzione di uccidere gli americani e i loro alleati, civili e militari, è un dovere individuale per ogni mussulmano che può essere espletato in ogni paese in cui è possibile farlo ..”.
[89] Per comprendere l’importanza di tali “proclami” e l’universalità della loro influenza basti pensare che a questo fronte internazionale hanno aderito, con dichiarazione pubblica, anche le tre formazioni egiziane JIHAD ISLAMICA, TALAIA AL FATAH e GAMA’A ISLAMIYA, i gruppi pakistani HARAKAT AL ANSAR e LASKAR–E–TAIBA, le organizzazioni palestinesi HAMAS e JIHAD ISLAMICA, il movimento sciita libanese filo-iraniano HEZBOLLAH, il gruppo filippino di ABU SAYYAF, quello giordano ESERCITO DI MAOMETTO e il MOVIMENTO ISLAMICO
dell’Uzbekistan.
[90] Come il G.I.A.
[91] Molti terroristi sauditi arrestati hanno confessato di essere volontariamente partiti per l’Iraq per fare la loro Jihad, intesa come guerra santa, dopo essersi lasciati convincere della bontà di questa fatwa.
[92] “Cani infedeli”.
[93] Secondo la Encylopedia of the Orient, “la jihad offensiva, cioè l’aggressione, è pienamente permessa dall’islam sunnita“. Un teologo islamico considerato il padre del moderno movimento islamista, Abd Allah Yusuf Azzam, dichiarava nella fatwa “Difesa dei territori islamici: il primo obbligo secondo la fede”.
[94] Come previsto dall’art. 117 Costituzione.
[95] Sentenza del 28 novembre 2005.
[96] Depositata il 16 marzo 2005.
[97] Per non dire la maggioranza. E’ stato osservato che il “terrore religioso” contemporaneo individua nella secolarizzazione degli Stati, nell’emancipazione delle donne, nella libertà di espressione e di associazione, nell’istruzione e nella libertà di coscienza e nella libertà di scienza non valori tendenzialmente comuni a tutta l’umanità ma altrettanti strumenti di “aggressione” provenienti dalla cultura occidentale.
[98] Cass., sez. VI, sent. 3276, 22 settembre/3 novembre 1992, imp. Delle Femmine ed altro, in CED RV 192861.
[99] V. Cass., sez. IV, sent. 1035, 17 ottobre 1991/30 gennaio 1992, Russo ed altri, in CED RV. 189043; identica sezione IV, sent. 22391, 2 apile/21 maggio 2003, imp. Qehalliu Luan, in CED RV. 224962.
[100] V., ad esempio, Cass., sez. I, sent. 5567, 3 ottobre/28 novembre 1997, imp. Marzano, in CED RIVISTA 208981.
[101] Così Cassazione , sez. II penale, sent. 669, 21 dicembre 2004/17 gennaio 2005. La Corte di Cassazione ha precisato che la costituzione del sodalizio criminoso non è esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più attorno a nuclei culturali che si rifanno all’integralismo religioso islamico, perchè, al contrario, i rapporti idelogico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza finalizzati a terrorizzare, lo rendono ancor più pericoloso.
[102] Nell’art. 2 della citata Decisione Quadro dell’Unione Europea l’organizzazione terroristica viene definita “come un’associazione tra due o più persone perdurante nel tempo e che agisce in modo concertato…”
[103] V. Cass., sez. VI, sent. 7957, 5 dicembre 2003/24 febbraio 2004, in CED RV. 228482 in tema di discrimine tra la fattispecie plurisoggettiva e quella concorsuale.
[104] V. Cass., sez. II, sent. 669, 21 dicembre 2004/17 gennaio 2005, imp. Ragoubi ed altri, in CED RV. 230431.
[105] Cass., sez. II, sent. 5831, 14 febbraio/14 giugno 1985, imp.Agresti, in CED RV. 169747.
[106] Ma secondo questo giudice è estremamente opportuno.
[107] Nel nostro caso raccolta di fondi, come si dirà.
[108] In arabo “martiri”.
[109] A differenza di tanti altri connazionali o correligionari.
[110] Ad esempio, il 23.07.2005, nell’ambito del procedimento penale nr. 44946/03 della Procura della Repubblica di Napoli (indagine “Full Moon”), venivano captati a mezzo di intercettazione ambientale alcune dialoghi tra B. e Tartag Samir (altro algerino arrestato in quel procedimento), nei quali i due, commentando le immagini televisive di “Al Jazeera” sugli attentati terroristici di Sharm el Sheihk (Egitto), evidenziavano conoscenze tecniche sul maneggio di esplosivi ed alludevano alla pianificazione di un’azione terroristica coordinata da un non meglio indicato “sceicco”, da compiere con l’impiego di un aereo. In tale circostanza il B. non si tratteneva da esclamazioni del tipo “vi colpiremo con l’ordine di Dio…” – “col sangue vi vinceremo…” – “Sangue con sangue vinceremo”.
[111] La Zakat è l’elemosina rituale: fra i più importanti doveri religiosi nell’Islam, l’imposta o zakat è, in un certo modo, il debito verso Dio che il musulmano deve saldare per ciò che Egli gli ha dato: in questo modo ci si purifica (za-ka-ha) e si rende legale tutto quello che si possiede. L’enciclopedia libera su Internet Wikipedia precisa che negli ultimi anni il versamento della zakat ha talora sovvenzionato organizzazioni impegnate nella jihad. Infatti, il Ministero dell’Interno (93° Corso di Formazione per Commissari della Polizia di Stato) insegna ai funzionari che tutte le organizzazioni di intelligence hanno evidenziato come molti dei capitali raccolti tramite l’istituto islamico della Zakat vengano reimpiegati per il finanziamento del terrorismo islamico.
[112] V. Cass., sez. Unite, sent. 11, 21 aprile/1 agosto 1995, , imp. Costantino ed altro, in CED RV. 202002:”… per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p. devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che – contenendo “in nuce” tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sè, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza”.
[113] Cass, sez. VI, sent. 10642, 28 settembre/3 novembre 1992, imp. Runci, in CED RV. 192157.
[114] Così Cass., sez. VI, sent. 8314, 25 giugno/5 settembre 1996, imp. Cotoli E. M., in CED RV. 206131; v., in generale sull’argomento, Cass, Sez. Unite, sent. 6682, 4 febbraio/4 giugno 1992, imp. Musumeci ed altri, in CED RV. 191230.
[115] sentenza n. 10, 28 marzo/27 aprile 2001, imp. Cinalli ed altri, in CED RV. 218376; v. anche sez. II, sent. 486, 21 dicembre 1998/15 gennaio 1999, imp. Avezzano, in CED RV. 212251.
Si deve precisare che si citano in continuazione le decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione perché esse rappresentano la massima espressione dell’interpretazione e dell’orientamento giurisprudenziale.
Rettamente la S.C. (sez. III, 23 febbraio/1° luglio 1994, imp. Di Chiara) ha segnalato che l’uniforme interpretazione della legge significa eguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge sicchè la nomofilachia è diretta espressione di un principio sancito dall’art. 3 della Costituzione.
L’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario attribuisce la funzione nomofilattica alla Corte di Cassazione ed essa appartiene ad ogni sezione della stessa Corte.
Ma quando, essendovi decisioni in contrasto, intervengono le Sezioni unite per mettere fine ad un’incertezza interpretativa la decisione delle Sezioni unite costituisce una sorta di annuncio implicito di giurisprudenza futura determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale e per il cittadino in particolare.
In tale ipotesi la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori e la giurisprudenza deve prenderne atto.
[116] V. oltre la bottiglia di “profumo”
[117] Possesso o procacciamento di falsi documenti.
[118] V. Cass., sez. VI, sent. 10781, 13 dicembre 2000/16 marzo 2001, imp. Coco G. ed altri, in CED RV. 218731.
[119] V. ad esempio Cass., sez. V, 5 novembre/18 dicembre 1997, ric. Saletta.
[120] Cioè, quella di cui all’art. 416 c.p. come qualunque altra.
[121] Indeterminatezza significa un accordo criminoso “aperto” per cui non è definito né il numero né la specie di delitti. V. Cass., sez. I, sent. 4819, 27 gennaio/5 luglio 1972, imp. Musolini, in CED RV. 121560 oppure sez. I, sent. 434, 13 marzo/6 agosto 1968, imp. Semilia, in CED RV. 109009).
[122] Giurisprudenza univoca. Cfr., tra le tante, Cass., sez. V, sent. 884, 14 settembre/5 novembre 1991, imp. Monaco ed altri, in CED RV. 188985 in genere; oppure sez. VI, sent. 7187, 27 novembre 2003/19 febbraio 2004, imp. Marchiani e altri, in CED RV. sez. VI, sent. 9898, 21 giugno/27 settembre 1995, imp. Tolone ed altri, in CED RV. 202646 a proposito di associazione finalizzata a commettere reati in materia fiscale nonchè sez. VI, sent. 8046, 8 maggio/19 luglio 1995, VALENTE ed altri in tema di stupefacenti (art. 74 D.P.R. 309/1990).
[123] V., ad esempio, Cass., sez. V, 10 dicembre 1995, SIBILLA in Cass. Pen. 1996, p. 2515.
[124] Un lontano precedente di questa problematica si è realizzato proprio in tema associazioni terroristiche:“Commette il delitto di concorso in banda armata e non quello di favoreggiamento, il difensore che svolga un ruolo di tramite tra i terroristi detenuti e quelli liberi, al fine di comunicare notizie utili all’esistenza della banda in quanto tale. Nell’ipotesi di assistenza, in qualsiasi forma consapevolmente prestata non ai singoli componenti ma ad una banda armata nel suo complesso, si ha concorso nel delitto di banda armata, in quanto, trattandosi di un reato permanente, tale assistenza si risolve in un consapevole contributo all’esistenza stessa della banda; mentre si ha l’ipotesi delittuosa del favoreggiamento soltanto nel caso in cui l’aiuto sia prestato dopo che sia cessata la permanenza del reato, elemento distintivo dal delitto di assistenza prestata ai singoli quando ancora non è cessata la partecipazione alla banda (Cass., sez.I, 25 ottobre 1983, in Cassazione penale, 1985, p. 318).
[125] Cass., sez. V, sent. 12591, 10 novembre/28 dicembre 1995, ric. Sibilla ed altri.
[126]  Sentenza 30, 27 settembre/14 dicembre 1995, imp. Mannino, in CED RV. 202904.
[127] Ad esempio, Relazione sull’omicidio D’Antona del Presidente della Commissione Parlamentare sul terrorismo Pellegrino:”Circa la possibilità di utilizzare la categoria del “concorso esterno” anche nel contrasto con associazioni terroristiche, favorevolmente valutata da alcuni commissari, è stato segnalato da parte della maggioranza dei commissari il pericolo che in tal modo vengano criminalizzate ingiustamente attività rientranti nella libera manifestazione del pensiero o nella espressione di opinioni politiche, con la creazione di un clima emergenziale, che è invece opportuno evitare”.
[128] Sezioni Unite, sent. 22327, 30 ottobre 2002/21 maggio 2003, imp. Carnevale, in <www.italgiure.giustizia.it>.
[129] Cass., Sezioni Unite, sent. 45276, 30 ottobre/24 novembre 2003, imp. Andreotti ed altro, in CED RV. 226101.
[130] Ordinanza di cattura a carico di Nasr Osama Mostafa Hassan.
[131] L’organizzazione ANSAR AL ISLAM è stata inserita tra i gruppi terroristici aventi legami con AL QAEDA, ad opera del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., in data 24 febbraio 2003, in base alla risoluzione n.1267/99.
[132] V. anche il ritrovamento di documenti italiani falsi in Gran Bretagna a fl. 13-14.
[133] Si stabilisce una connivenza e, quindi, un particolare legame.
[134] V. informativa conclusiva dei CC, decreto di fermo del P.M. di Napoli. V., altresì, ordinanza applicativa di misura cautelare del 18 novembre 2005 in cui il G.I.P. di Napoli, dopo aver ampiamente riferito dell’attività del B. in ordine al procacciamento di documenti falsi tanto che ne ha disposto la cattura per il reato di cui all’art. 482 c.p. ha, poi, disatteso la richiesta del P.m. in ordine al reato di cui all’art. 416 c.p. solo con questa testuale motivazione:”La molteplicità e la variabilità dei contatti e delle “mediazioni”, impedisce tuttavia di ravvisare una struttura di falsificazione stabile ed unitaria”.
[135] Così Cass., sez. VI, sent. 10725, 25 settembre/12 ottobre 1998, imp. Villani J. ed altri, in CED RV. 211743.
[136] V. Cass., sez. V, sent. 11899, 5 novembre/18 dicembre 1997, imp. Saletta M., in CED RV. 209646 e da ultimo sez. Feriale, sent. 36244, 3/13 settembre 2004, ric Bosone in Guida al Diritto (edizione telematica).
[137] Cass., sez. I, sent. 3214, 21 febbraio/18 marzo 1992, imp. Schiavone ed altri, in CED RV. 189581.
[138] Tanto per fare un esempio, spesso avviene che un giorno un associato vada a rifornirsi di droga ed un altro spacci consegnandola ai clienti ed il giorno dopo, per i motivi più vari, le parti si invertano.
[139] Sulla necessità che il “fatto” sia compiutamente descritto, nelle sue componenti oggettive e soggettive, anche se sia stata omessa la specifica indicazione della disposizione che prevede e punisce il reato fine v. Cass., sez. Unite, sent. 00017, 21 giugno/21 settembre 2000, imp. Primavera e altri, in CED RV. 216661. 
[140] Ed eventualmente anche quello p. e p. dall’art. 468 c.p. Né si dimentichi il reato di possesso e fabbricazione di documenti falsi validi per l’espatrio introdotto recentemente dall’art. 497 bis c.p. (introdotto, guarda caso, proprio per contrastare il terrorismo internazionale!)
Nella prospettiva del falso documentale possono ravvisarsi una serie di delitti per cui apparrirebbe veramente fuor di luogo sostenere che non si sappia proprio a cosa si riferisce il P.M.!
[141] Cass., sez. I, sent. 17973, 7/16 aprile 2004, imp. Grotto, in CED RV. 228540.
[142] Conversione in legge,con modificazioni,del decreto-legge 15 dicembre 1979, n.625 concernente misure urgenti per la tutela dell”ordine democratico e della sicurezza pubblica.
[143] V. Cass., sez. II, sent. 14612, 30 ottobre/3 novembre 1988, imp. Addis, in CED RV. 182381.
[144] Cass., sez. I, sent. 6952, 4 novembre 1987/15 giugno 1988, imp. Adinolfi, in CED RV. 178583.
[145] Il B. è indagato ed è stato tratto in arresto anche dall’A.G. di Salerno.
[146] Per di più in quella sede sono stati contestati anche altri reati.
[147] Cioè, fino al momento dell’arresto, avvenuto a fine 2005, come per i due anche in questo procedimento nonostante       il P.M. genericamente abbia contestato per tutti la permanenza dei reati fino al maggio 2006.
[148] Ordinanza n. 39, 25 febbraio-6 marzo 2002.
[149] Cioè, proprio il caso che ci riguarda.
[150] V. Cass., sez. V, sent. 1919, 10 luglio/2 ottobre 1995, imp. Pandolfo, in CED RV. 202653 ovvero sez. VI, sent. 31512, 25 febbraio/20 settembre 2002, ric. P.M. in proc. Sulsenti, in CED RV. 222736.
[151] V., da ultimo, Cass., sez. I, sent. 24017, 30 aprile/30 maggio 2003, imp. Morteo, in CED RV. 225004.
[152] Cass., sez. VI, sent. 03586, 26 novembre1993/7 febbraio 1994, imp. Busterna, in CED RV. 196628.
[153] V., ex plurimis5386, 15 aprile/10 maggio 1994, imp. Matrone ed altri, in CED RV. 198642 ovvero sez. I, sent. 2344, 18 aprile/28 giugno 1995, imp. Lazzarini, in CED RV. 201842., Cass., sez. II, sent.
[154] Sentenza Matrone citata alla nota precedente.
[155] Cass., sez. II, sent.8697, 18 gennaio/4 marzo 2005, imp. Romito, in CED RV. 230791.
[156] V. Cass., sez. I, sent.6410 , 13 gennaio/18 febbraio 2005, imp. Serraino, in CED RV. 230831.
[157] V. già in tal senso Cass., sez. I, sent. 11633, 21 ottobre/4 dicembre 1992, imp. Puca ed altri, in CED RV. 192572.
[158] Pag. 69 e ss.
[159] Cass., sez. I, sent. 6410, 13 gennaio/18 febbraio 2005, imp. Serraino, in CED RV. 230831.
[160] Sul metodo dell’indagine interpretativa in mancanza di un’esplicita disposizione di legge le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato che il silenzio del legislatore, di per sé solo, non ha valore concludente, nel senso che non equivale a certa regola di esclusione, per la semplice, ma evidente, ragione che nella ricostruzione della reale portata di una legge il fatto pretermesso non è affermato né escluso e che, stante il valore non univoco di quel silenzio, compito indeclinabile dell’interprete è quello di attribuire, caso per caso, alla omessa menzione del fatto il significato più coerente con la ratio legis, con il contesto normativo delineato dal sistema e con gli interessi tutelati ed i fini effettivamente perseguiti (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 1998, imp.Gerina ed altro, in CED RV. 210199)
[161] V. motivazione della sentenza n. 34655 della Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, 28 giugno-28 settembre 2005 (Presidente Marvulli; Relatore Silvestri; Pm – conforme – Cesqui; Ricorrente Pg in proc. Donati e altro) in Guida al Diritto del 15 ottobre 2005, pag. 66.
[162] Corte cost., 19 gennaio 1995, n. 27; Cass., Sez. Un., 22 marzo 2000, imp.Finocchiaro, in CED RV. 216004.
[163] Corte cost., sent. n. 27 del 1995, citata alla nota precedente, e 17 giugno 1997, n. 206; Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2000, imp.Romeo, in CED RV. 215411.
[164] Ed in tema di provvedimenti restrittivi il concetto appare ancor più evidente.
[165] Un primo accenno al divieto del bis in idem in relazione ai provvedimenti cautelari si rinviene in Cass., sez. V, sent. 5828, 2 dicembre 1999/4 febbraio 2000, imp. Fornaro, in CED RV. 215242.
[166] V., ad esempio, anche l’art. 20 dello Statuto di Roma. Cfr., inoltre, la vasta giurisprudenza dell’Unione Europea in materia: ex plurimis la sentenza del 5 maggio 1966, Gutmann c/Commissione, cause 18/65 e 35/65, Racc. 1966, pag. 150 ovvero, più recentemente, la sentenza del Tribunale di primo grado del 20 aprile 1999, cause riunite T-305/94 e altre, Limburgse Vinyl Maatschappij NV c/Commissione, Racc. 1999 II-931.
Oltretutto, ai sensi dell’articolo 50, la regola ne bis in idem non si applica solo all’interno della giurisdizione di uno stesso Stato, ma anche tra giurisdizioni di più Stati membri. Ciò corrisponde all’acquis del diritto dell’Unione; cfr. articoli da 54 a 58 della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, sentenza della Corte di giustizia dell’11 febbraio 2003, causa C-187/01 Gözütok, articolo 7 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e articolo 10 della convenzione relativa alla lotta contro la corruzione.
———————————————————————————————————————-
[167] Giurisprudenza pacifica: v., ad esempio, Cass., sez. VI, sent. 3089, 21 maggio 1998/8 marzo 1999, imp. Caruana, in CED RV. 213572.
[168] Di cui, comunque, scaricavano da Internet filmati a fini evidentemente propagandistici mentre nulla si sa in proposito di G.R.
[169] Perché può darsi che in Gran Bretagna si potessero raccogliere altri elementi. In precedenza si sono segnalati i problemi investigativi in relazione alle condotte di tale tipo di reato che si svolgono in vari Stati.
[170] Così, fra le tante, Cass., sez. VI, sent. 467, 6 novembre 1991/20 gennaio 1992, ric. Afelba ed altri, in CED RV. 188929.
[171] Già citata sez. II, 17 gennaio 2005, n. 669.
[172] Cass., Sez. VI, sent. n. 16164 del 1989, ric. Romano
[173] Sezioni Unite, sent  33748, 12 luglio/20 settembre 2005, ric. Mannino, in CED, Rv. 231670.
[174] Intesa come funzionalità.
[175] Cass., sez. I, sent. 1332, 12 novembre 1990/1 febbraio 1992, imp. Giardina ed altri.
[176] Su tale aspetto del concorso nel reato in genere v., ex plurimis, Cass., sez. V, sent. 1389, 22 novembre 1994/4 gennaio 1995, ric. Sbrana ed altro.
[177] Sentenza su ricorso Mannino.
[178] Sez. Unite, 5/10/1994, Demitry, in Foro it. 1995, 2^, 422; Sez. Unite, 27/9/1995, Mannino, in Cass. pen. 1996, 1087; Sez. Unite, 30/10/2002, Carnevale,in Foro it. 2003, 2^, 453.
[179] In tal senso Cass, sez. III, sent. 4005, 24 novembre 1997/20 gennaio 1998, ric. Ibrahimi, in CED RV. 209348.
[180] Sono dei terroristi!
[181] Cass., sez. II, sent. 4689, 5/19 novembre1993, ric. Donato.
[182] Giurisprudenza pacifica: v. già dall’entrata in vigore del codice di rito Cass., sez. I, sent. 1102, 23 aprile/11 maggio 1990, ric. Romeo oppure sez. I, cc. 20 febbraio 1990, sent. n. 421.
[183] Ad esempio, la titolarità del call center.
[184] Intesa come sottoinsieme di un gruppo umano con il significato e le implicazioni di quello di razza.
[185] Come già detto gli attivisti religiosi militanti e i loro sostenitori per descrivere l’operato del loro gruppo non usano il termine terrorista bensì “combattente”.
[186] V. Cass., Sez. Unite, sent. 34537, 11 luglio/24 settembre 2001, imp. Litteri ed altri, in CED RV. 219600.
[187] L’art. 384 c.p.p. è stato modificato con il D.L. 27 luglio 2005 n. 144 convertito nella L. 31 luglio 2005 n. 155.
[188] I musulmani sono incrollabilmente convinti della superiorità della religione islamica su qualunque altro credo religioso, filosofico, morale o politico.
[189] Dalle conversazioni intercettate si evince chiaramente come essi deplorino e disprezzino tutti quei correligionari che hanno assunto posizioni anche solo un po’ più moderate.
[190] Ciò si intreccia chiaramente con l’esigenza cautelare del percolo di fuga.

Giandomenico Gallo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento