Tecniche e strategie di assunzione delle prove orali

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Nell’immaginario collettivo la cross examination e, in particolare, il controesame, rappresentano la quintessenza del processo accusatorio, in piena adesione ai principi chiovendiani di oralità, immediatezza e concentrazione posti a fondamento del giusto processo.
Tuttavia, anche fra molti addetti ai lavori, non sempre sono pienamente conosciute, da un lato, la complessità e la delicatezza di un simile strumento e, dall’altro, le effettive potenzialità, favorevoli e soprattutto sfavorevoli, delle quali può essere portatore.
E’ un dato di fatto tristemente verificabile nelle aule di giustizia la diffusa inadeguatezza di molti operatori del diritto nel gestire opportunamente il potente strumento dell’assunzione orale della prova, troppo spesso degradato (per eccessiva fretta, disattenzione, o semplice sottovalutazione del rischio) ad un mero scambio dialettico tra esaminatore ed escusso.
Il presente articolo, senza alcuna pretesa di esaustività, ha il solo obiettivo di fornire al lettore uno spunto di riflessione, evidenziando la complessità e la molteplicità delle tecniche di esame e controesame, che coinvolgono profili epistemologici, tecnico-giuridici, retorico-argomentativi, psicologici e deontologici.
Sarebbe tuttavia fuorviante e controproducente ritenere l’assunzione delle prove orali una mera equazione algebrica: le variabili in gioco sono così tali e tante da vanificare spesso il risultato atteso o, quantomeno, auspicato dall’esaminatore.
Si pensi allo stato d’animo che un testimone non avvezzo alle aule di tribunale può provare nel momento in cui viene chiamato a rendere la propria deposizione in dibattimento; al suo impellente desiderio di alzarsi da quella scomoda sedia con un minaccioso microfono puntato contro di lui; alla difficoltà di ricordare dettagliatamente episodi spesso avvenuti anni prima; alla sensazione di sottomissione all’autorità; al disagio provato nel rievocare ricordi spesso particolarmente traumatici, e così di seguito.
Sono solo alcune delle possibili variabili idonee ad influire, positivamente o negativamente, sulla deposizione resa in aula dal testimone e, conseguentemente, sulla ricostruzione dei fatti storici.
Sono autentiche “insidie” che connotano l’istituto in esame, soprattutto per chi si illuda di farne un uso estemporaneo. Esso è tuttora affidato all’estro, al buon senso, all’intuito, all’arguzia, all’esperienza di magistrati ed avvocati [1].
E’ un compito difficile quello dell’esaminatore, chiamato a cogliere ed interpretare ogni parola, gesto, movimento da parte dell’escusso; un’analisi semantica ad ampio raggio che, se adeguatamente svolta, non di rado imporrà all’esaminatore di modificare “in itinere” l’ordine, la formulazione, o il contenuto stesso delle successive domande.
Così facendo, la prova testimoniale, da semplice sequela di domande rivolte all’esaminato, diventa qualcosa di più complesso ed articolato: una vero e proprio percorso comunicativo e persuasivo,  governato da regole e strategie non codificate, il cui destinatario non è il testimone escusso, ma il giudice.
Come acutamente evidenziato dal Magistrato dott. Gianrico Carofiglio, infatti, “le domande costituiscono in realtà uno strumento retorico per parlare ai giudici e per trarre le conclusioni di uno sforzo narrativo e argomentativo complesso e brillante. Il fondamento strategico di ogni efficace cross-examination risiede nell’impostazione della sequenza delle domande sulla falsariga di una argomentazione, dovendo in particolare ogni domanda costituire un passaggio nello sviluppo progressivo della argomentazione stessa[2].
Per quanto possa apparire pleonastico, appare dunque opportuno sottolineare come lo scopo mediato della cross-examination sia quello di far emergere la verità processuale, mentre lo scopo immediato è quello di persuadere il giudice.
L’escusso diviene così lo “strumento” attraverso il quale l’esaminatore dovrà riuscire a convincere il giudice sulla esatta dinamica dei fatti, contribuendo alla formazione del materiale conoscitivo su cui si baserà la sua decisione.
Un’attività di convincimento e persuasione da parte del difensore tutt’altro che semplice, ove si consideri che, soprattutto al di fuori dei casi di citazione diretta a giudizio, il giudice è consapevole che il materiale originario è già stato vagliato da un magistrato che ha esercitato l’azione penale in quanto ha ritenuto sussistenti elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e, soprattutto, che quel materiale è già stato sottoposto al filtro di un suo collega che ben avrebbe potuto bloccare l’azione penale, disponendo l’archiviazione o il non luogo a procedere, qualora non avesse ritenuto convincenti gli elementi forniti dall’organo inquirente.
Non può dunque sottacersi né trascurarsi quel naturale, umano, comprensibile ed al tempo stesso ineluttabile condizionamento da parte del giudice dibattimentale, inevitabilmente, e spesso persino inconsapevolmente, indotto a ritenere fondata l’accusa mossa nei confronti dell’imputato.
Ed è proprio contro questo pre-giudizio che il difensore dovrà lottare, cercando di far emergere, attraverso l’istruttoria dibattimentale ed in particolare attraverso il controesame del teste sfavorevole, elementi idonei a convincere il giudice della infondatezza dell’accusa.
Emerge a questo punto la fondamentale funzione del controesame, ovvero quella di screditare le risposte rese nell’esame diretto, minando la credibilità del teste e dimostrando che i fatti asseriti non sono veri oppure sono inesatti o incompleti, coltivando quella che il Dott. Carofiglio efficacemente definisce “l’arte del dubbio” [3].
Prima di passare ad esaminare le tecniche più efficaci da adottare in sede di controesame, occorre preliminarmente sgombrare il campo da possibili equivoci. La regola primaria ed indefettibile del controesame è la seguente: “si procede al controesame se si ha un obiettivo significante sotto il profilo probatorio e se tale obiettivo appare praticamente raggiungibile[4].
A seguito di una deposizione avversa che abbia conseguito un risultato sfavorevole, prima ancora di decidere come, occorre dunque chiedersi se sia il caso di procedere al controesame. In altri termini, occorre valutare se ci sia la concreta e prevedibile possibilità di segnare qualche punto a proprio favore, elidendo la deposizione appena resa dal teste sfavorevole o, quantomeno, limitando il più possibile gli effetti negativi dell’esame diretto.
Una scelta tutt’altro che semplice, quella rimessa al difensore, sebbene resa più agevole dal fatto che essa va compiuta solo a seguito dell’esame diretto, nel corso del quale il difensore dovrà cercare di cogliere ogni piccolo segnale che il testimone avverso fornirà, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente.
Le esitazioni del teste, le sue incertezze, le sue debolezze, le possibili contraddizioni, la gestualità, il tono della voce, le eccessive pause, ed il linguaggio non verbale, sono tutti elementi che potranno consentire al difensore di effettuare una scelta più prudente e ponderata sull’opportunità di avventurarsi sull’impervio ed imprevedibile terreno del controesame.
In ogni caso, prima di procedere al controesame occorre avere ben chiaro l’effetto probatorio che si intende conseguire.
Non è raro assistere a controesami condotti dal difensore in modo corrivo ed approssimativo, riformulando domande sulle quali il teste ha già deposto in sede di esame diretto, nella speranza che possa prima o poi cadere in contraddizione.
E’ chiaro come questo tipo di strategia sia caratterizzata da un altissimo rischio di insuccesso, consentendo al teste di ribadire le risposte già precedentemente rese, spesso arricchendole di ulteriori dettagli sfavorevoli, con l’unico risultato di rafforzare l’attendibilità del teste avverso e della sua deposizione.
Si rende dunque necessario procedere con estrema cautela, decidendo preliminarmente il tipo di obiettivo che si intende conseguire:
1)     Attenuazione della rilevanza della deposizione;
2)     Attacco all’attendibilità del teste;
3)     Attacco all’attendibilità della deposizione.
Il primo metodo è consigliabile quando non sia possibile procedere ad un controesame di tipo distruttivo. Esso consiste nel tentativo di attenuare gli effetti sfavorevoli della deposizione, dimostrando come gli elementi emersi non siano così importanti o, perlomeno, non siano così rilevanti ai fini della decisione.
Il messaggio che si intende fornire ai giudici è il seguente: “il teste ha detto effettivamente qualcosa di non favorevole alla mia posizione, ma si tratta di qualcosa meno importante o, comunque, meno coerente di quanto potesse apparire all’inizio. La deposizione di questo teste ha un rilievo marginale e non è in grado di incidere in modo determinante sulla decisione[5].
Il secondo metodo mira invece a rendere poco credibile la deposizione, screditando il teste che l’abbia resa. E’ dunque un metodo indiretto, rivolto esclusivamente alla distruzione della credibilità del teste, insinuando il dubbio sulla falsità o inesattezza di quanto asserito, essendo il teste proclive a dichiarare il falso.
Si pensi al caso in cui la deposizione venga resa da un teste già condannato per falsa testimonianza, calunnia o simulazione di reato: la scarsa attendibilità del teste si ripercuoterà necessariamente sulle dichiarazioni rese dallo stesso, inducendo a ritenere che possa aver con tutta probabilità dichiarato il falso anche in tale occasione.
Il terzo metodo è quello classificabile come distruttivo per eccellenza, idoneo ad elidere l’intera deposizione resa (o parte di essa), dimostrando l’assoluta falsità o inesattezza di quanto asserito in sede di esame diretto.
E’ senza dubbio il metodo da preferire quando ci siano concrete possibilità di successo, potendo annullare l’intero effetto probatorio sfavorevole già conseguito a seguito dell’esame diretto.
Una volta decisa la strategia da adottare e l’obiettivo da perseguire, occorre passare ad un altro, fondamentale, problema: quale tecnica utilizzare ed in che modo rivolgere le domande al teste.
Anche il questo caso si rende necessaria una breve chiosa: la categoria dei testimoni è particolarmente eterogenea e variegata, e di questo occorrerà tener conto nella scelta della tecnica da utilizzare.
E’ impensabile esaminare o controesaminare allo stesso modo un testimone oculare, un testimone indiretto, un collaboratore di giustizia, un minorenne, la persona offesa e l’imputato. Si tratta di figure processuali così eterogenee da imporre per ciascuna di esse l’utilizzo di una specifica tecnica, che tenga conto delle relative peculiarità della persona da esaminare.
Non essendo questa la sede più opportuna per esaminare tutte le possibili tecniche utilizzabili per ciascun tipo di teste, ci si limiterà a brevi considerazioni di ordine generale.
La fondamentale alternativa che si pone nell’impostazione e nella conduzione del controesame è rappresentata dalla scelta dualistica fra domande a struttura aperta e domande a struttura chiusa.
Per domande a struttura aperta, o a carattere generale, si intendono quegli interrogativi formulati in modo così generico da consentire al teste un ampio margine di discrezionalità in ordine ai fatti da narrare.
Non è infrequente che l’esame diretto venga introdotto con domande quali “Ci può riferire cosa è accaduto quel giorno?” oppure “Ci può riferire in merito alle indagini svolte?”, favorendo il più delle volte vaniloqui e risposte confuse, spesso connotate da divagazioni prive di alcun valore probatorio.
E’ evidente come questa tecnica presenti un altissimo rischio di ottenere risposte sfavorevoli, con effetti spesso catastrofici per la parte che ha condotto l’esame.
Le domande a struttura chiusa sono caratterizzate da un maggior grado di specificità, consentendo all’esaminatore di circoscrivere l’ambito della risposta, evitando di lasciare all’esaminato un eccessivo margine di discrezionalità in ordine ai fatti da narrare.
In questa tipologia di domande rientrano le c.d. “domande suggestive”, vietate nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto l’esame del teste e da quella che ha un interesse comune, ed ammesse nel solo controesame al fine di saggiare la credibilità del teste e l’attendibilità della sua deposizione.
Tendenzialmente, vanno considerate domande suggestive tutte quelle idonee a suggerire la risposta al teste o, più in generale, influire sulla spontaneità dei suoi meccanismi mnemonici e rievocativi.
Sebbene tale distinzione possa apparire agevole sul piano teorico, gli studiosi di psicologia giuridica conoscono perfettamente le molteplici possibilità di influenzare le risposte del teste, anche solo utilizzando un tono particolarmente rassicurante o formulando i quesiti in modo assertivo, rendendo in concreto assai arduo individuare il carattere potenzialmente suggestivo di una domanda.
Dalle domande suggestive in senso stretto, vanno poi distinte le c.d. “leading questions”, ovvero le domande guidanti, capaci di porre il testimone nell’alternativa secca di rispondere sì o no alla domanda rivoltagli.
Appare superfluo evidenziare come, quando le circostanze lo consentano, in sede di controesame, alle domande suggestive sia senz’altro da preferire l’uso di domande guidanti, per il più alto grado di controllo da parte dell’esaminatore sulle risposte che potranno essere fornite dall’esaminato.
L’uso delle domande guidanti rende tuttavia necessario il ricorso ad una struttura sintattica elementare ed una semplificazione narrativa. In altre parole, ogni domanda guidante dovrà contenere un solo fatto o un solo concetto, rendendo così necessario scomporre un fatto complesso in tanti segmenti interrogativi, ciascuno corrispondente ad una frazione elementare dello stesso.
E’ necessario, infatti, evitare la trasformazione della leading question in una narrazione articolata di una sequenza di fatti, seguita da una locuzione interrogativa. Solo in questo modo potrà avere senso narrativo e funzione conoscitiva una sequenza di risposte circoscritte al sì o al no.[6]
Particolare attenzione dovrà essere rivolta al modo in cui le domande stesse andranno formulate: anche a questo proposito, è evidente come non esista un solo modo di porre i quesiti al teste, così come non ne esiste uno migliore in assoluto, dovendo anche il tono delle domande essere rapportato e finalizzato all’obiettivo che si intende conseguire.
Il controesame di tipo prevalentemente distruttivo è spesso connotato dall’uso di un tono particolarmente aggressivo da parte dell’esaminatore, volto a screditare il teste o la deposizione dallo stesso resa. Viceversa, ogni qualvolta l’esaminatore avrà come obiettivo primario quello di ottenere risposte favorevoli dal teste, andrà privilegiato un tono moderato, sereno ed il più possibile rassicurante.
In linea generale, è dunque da privilegiare, almeno nelle fasi iniziali, il controinterrogatorio “morbido” a mezzo del quale si cercherà di acquisire maggiori notizie sugli argomenti che hanno già formato oggetto delle domande e delle risposte nel corso dell’esame diretto.
Solo una volta ottenute tutte le informazioni necessarie per poter procedere ad un controesame distruttivo, screditando il teste o confutando la deposizione già resa, sarà possibile ricorrere a domande dirette poste in modo più deciso ed aggressivo, seppur dosando saggiamente l’enfasi ed evitando toni offensivi o denigratori, che esporrebbero lo stesso esaminatore ad una perdita di credibilità, con conseguente riduzione o elisione della propria capacità di persuasione nei confronti del giudice.
In conclusione, è necessario rimarcare l’importanza fondamentale delle strategie e delle tecniche di esame e controesame. Lungi dal costituire inutili orpelli, esse costituiscono invero un indefettibile strumento di persuasione e convincimento, necessarie per sfruttare al meglio le effettive potenzialità dell’esame incrociato.
 
Giugno 2008 – Riproduzione riservata.
 
Dott. Francesco Morelli – Foro di Trani


[1] Così l’Avv. Ettore Randazzo, “Insidie e strategie dell’esame incrociato”, 2008, Guffrè Editore
[2] Così il Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 49.
[3]L’atto del domandare dubitando, che sintetizza l’essenza e la ragione del controesame, costituisce espressione di libertà dai vincoli di verità convenzionali e, soprattutto, dai pericoli di decisioni precostituite. Esso è dunque momento fondamentale, e quasi metafora, di una ricerca laica e tollerante della verità praticata attraverso i modi dell’argomentazione e della persuasione”. Così il Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pagg. 221-222.
[4] Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pagg. 18-19.
[5] Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 33.
[6] Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 123.

Morelli Francesco

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