Sulla richiesta di risarcimento del danno da mobbing (riconosciuto in 40.000 euro) subito da un dipendente pubblico (“disturbo da stress post-traumatico da mobbing”) e sul giudice competente a decidere in materia: trattandosi di responsabilità contrattua

Lazzini Sonia 22/05/08
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La risarcibilità del danno derivante da mobbing, può essere rivendicata dal dipendente interessato in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro_ la giurisdizione del giudice amministrativo sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste  nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente_ la lesione, subita dal diretto interessato, è pacificamente riconducibile alla condizione di estremo disagio logistico e organizzativo, in cui il medesimo ha dovuto espletare oltre due anni di attività, senza dubbio in corrispondenza dell’ingiustificato ritardo, con cui è intervenuta la definitiva individuazione – peraltro presso altra facoltà – della struttura di riferimento per l’attività didattica del medesimo; l’assenza di colpa dell’amministrazione al riguardo – trattandosi di responsabilità contrattuale – avrebbe dovuto essere provata dall’Amministrazione stessa, che non ha viceversa fornito alcun elemento, atto ad escludere che l’inadempienza agli obblighi, sopra specificati, del datore di lavoro, fosse nella fattispecie riconducibile a cause, non imputabili all’Amministrazione stessa, nei termini esplicitati dall’art. 1218 cod. civ.
 
 
Merita di essere segnalata un’interessantissima decisione (numero del 15 aprile 2008) emessa dal Consiglio di Stato in tema di mobbing all’intero delle amministrazioni pubbliche e di quale sia il giudice competente a decidere in merito al riconoscimento dell’eventuale danno
 
Prima di tutto una panoramica giurisprudenziale:
 
 
<Un primo orientamento della giurisprudenza, in effetti (cfr. Cons. St., sez. V, 9.10.2002, n. 5414; TAR Lazio, Roma, sez. III, 25.6.2004, n. 6254; TAR Veneto, 8.1.2004, n. 2), tendeva a ricondurre alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie patrimoniali inerenti al rapporto di impiego, senza distinguere fra responsabilità contrattuale e aquiliana, essendo ritenuto sufficiente – per radicare la cognizione del giudice amministrativo sui rapporti di lavoro, rientranti nella giurisdizione esclusiva del medesimo – un comportamento illegittimo del datore di lavoro, e quindi un collegamento non occasionale fra la causa pretendi e il rapporto di impiego.
 
Non risulta conforme al predetto indirizzo, tuttavia, il più recente orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che pone a base del riparto non la prospettazione delle parti, ma il cosiddetto petitum sostanziale, da individuare anche in funzione della causa pretendi, ovvero dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio, come individuata dal Giudice in relazione ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui tali fatti sono manifestazione; tenuto conto di quanto sopra, risulta necessario accertare la natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto solo l’azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice Amministrativo, mentre dovrebbe ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extra-contrattuale>
 
Qual è il giudice competente quindi?
 
 
<Quest’ultimo indirizzo, in effetti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto la responsabilità extra-contrattuale per mobbing è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, escludendo da tali parametri la categoria generalizzata dei “comportamenti” (al di fuori, deve ritenersi, della valutazione in via incidentale dei medesimi, ove riconducibili ad una lesione di interessi legittimi, o di diritti soggettivi sussistenti in una materia, che sia oggetto di giurisdizione esclusiva).
 
La predetta giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste, dunque, nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente>
 
 
Nella particolare fattispecie, secondo il Supremo Giudice Amministrativo, non ci sono dubbi…
 
< Nella situazione in esame, il docente interessato ha fornito ampi riscontri in ordine all’obbligo disatteso dall’Ateneo perugino, con particolare riguardo all’articolo 77 del relativo Statuto, in base al quale “ogni professore e ricercatore deve afferire ad una struttura di ricerca e può aderire a centri di ricerca, secondo le modalità stabilite dal regolamento generale…e dai regolamenti interni delle singole strutture; l’art. 7 del regolamento generale del medesimo Ateneo, a sua volta, dispone che – caso di dissoluzione di preesistenti Istituti – vi sia richiesta contenente “indicazione sulla collocazione di tutti i Professori e Ricercatori afferenti ai preesistenti Istituti…anche ai fini logistici”, mentre il successivo art. 9 prevede che “in caso di mancato accoglimento della domanda di afferenza ad uno o più Dipartimenti, presentata da un Professore o Ricercatore, il Senato Accademico, sentito l’interessato e tenuto conto del settore scientifico-disciplinare di appartenenza, lo assegna d’ufficio ad un Dipartimento”.
 
Non può non ascriversi a grave disservizio, dunque, l’assenza di qualsiasi assegnazione dell’attuale appellante – per oltre due anni – a qualsiasi struttura di supporto, con conseguente lesione del diritto dell’interessato all’espletamento di funzioni non inferiori a quelle proprie della qualifica e del connesso interesse, anche pubblico, all’ottimale svolgimento dell’attività didattica e di ricerca: nessuna controdeduzione, nel caso di specie, viene fornita alle affermazioni dell’appellante, che dichiara di essere stato costretto a svolgere anche mansioni proprie del personale ausiliario, (“pulizia dei locali, preparazione delle aule e dei materiali per lo svolgimento dell’attività didattica, custodia dei materiali inventariati e della biblioteca, mansioni di segreteria, apertura della porta di ingresso….”)>
 
 
A quanto ammonta allora il riconosciuto risarcimento del danno?
 
<Ulteriori fattori riduttivi della richiesta dell’interessato (£. 250.0000.000 oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, da convertire in euro, “salvo il maggiore o minore importo ritenuto di giustizia”), appaiono riconducibili alla già intervenuta soluzione del problema organizzativo di cui si è discusso, alla ininfluenza della situazione contestata ai fini retributivi, nonchè alla mancata dimostrazione sia di un “danno biologico permanente”, sia della perfetta integrità dello stato psico-fisico del docente in questione, in data antecedente alla vicenda di cui trattasi. In base ai criteri enunciati, il Collegio ritiene equa, a norma dell’art. 1226 cod. civ., una quantificazione del danno, corrispondente alla situazione di grave disagio organizzativo subita dall’interessato, pari a 40.000 Euro (€. quarantamila/00), con interessi e rivalutazione decorrenti, nei termini di legge, solo dalla data di quantificazione del danno stesso, attraverso la presente pronuncia>
 
Da ultimo, si legga anche:
 
 
Rapporto di pubblico impiego_ Presunto Mobbing_ Richiesta a titolo extracontrattuale del risarcimento di danni psicofisici subiti derivanti da illegittimi provvedimenti di deferimento disciplinare: qual è il giudice competente? Quali sono i criteri per indicare come “persecutorio” il comportamento della propria amministrazione? Ci può essere un concorso di colpa del presunto danneggiato?per riconoscere in danno da mobbing deve essere dimostrata una violazione dell’ obbligo di protezione gravante sul datore di lavoro?.
 
E’ principio consolidato in giurisprudenza che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario solo qualora il dipendente faccia valere il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa; mentre va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondandosi l’azione proposta su uno specifico inadempimento da parte dell’amministrazione: è invero possibile la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Quest’ultima sussiste, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi la commette, ed un conseguente danno: è peraltro possibile che l’azione ingiusta sia realizzata in un contesto contrattuale, cioè un rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale :l’inadempimento contrattuale determina , infatti, il diritto al risarcimento del danno (art. 1453 c.c. ed art. 1218 c.c.) _ nel caso di cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo _ Il cumulo è possibile quando la lesione lamentata, attinente all’integrità psico-fisica, derivi dalla situazione di disagio e dal comportamento di superiori e quando si chieda il risarcimento del danno biologico, che, secondo la Corte Costituzionale (sent. 14.7.1986, n.184) trova la sua disciplina nell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 32 cost., sicché la richiesta risarcitoria di tale tipo di danno qualifica la domanda come extracontrattuale.
 
 
.merita di essere segnalata la sentenza numero 405 del 25 gennaio 2008 emessa dal Tar Campania, Napoli in tema di “mobbing”
 
 
Intanto in tema di giurisdizione del giudice amministrativo:
 
< Ove peraltro si sostenga contestualmente la violazione di doveri legali che regolano il rapporto, deducendo l’inadempimento da parte dell’Amministrazione dei principi di buona fede e correttezza, nonché la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posta in essere con il proprio comportamento omissivo o commissivo, venendo meno all’obbligo specifico, di cui all’art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e morale del lavoratore, si è in presenza della responsabilità contrattuale.
 
Le due figure di responsabilità , pertanto, in tema di mobbing, possono, in situazioni peculiari, coesistere e concorrere, ove il rapporto di lavoro non ha costituito la mera occasione per la condotta vessatoria ed ostile di colleghi o superiori gerarchici, ma ha visto anche la configurazione di una culpa in vigilando da parte dell’amministrazione, che, consapevole di tale condotta, nulla ha posto in essere perché cessasse il lamentato atteggiamento di ostilità.
 
Ne discende che rimane fermo il potere del giudice amministrativo adito di verificare se le modalità in cui si è concretizzata tale organizzazione siano state tali da arrecare danno ad un singolo prestatore , per effetto dell’uso distorto o improprio delle stesse.
 
Giova al riguardo richiamare anche le più recenti pronunce delle SS.UU. della Corte di Cassazione ( ordinanza n. 15660 del 27.7.2005; 5078/2005 e 6745/2005), ove si afferma che il risarcimento del danno può essere disposto dal giudice amministrativo ( purchè ricorra la giurisdizione esclusiva o anche quella di sola legittimità) anche nel caso in cui la parte interessata si limiti ad invocare la sola tutela risarcitoria.>
 
Detto questo, vediamo qual è il parere dell’adito giudice in merito al riconoscimento del danno da mobbing
 
I fatti
 
Gli elementi di fatto dai quali il ricorrente deduce potersi rilevare gli estremi del mobbing posto in essere ai suoi danni si riconducono sostanzialmente a due ordini di tipologie:
 
–i deferimenti alla commissione di disciplina presso il CUN
 
–i comportamenti vessatori e denigratori posti in essere nei suoi confronti dal dirigente dalla divisione di nefrologia.
 
Il parere del giudice
 
Quanto al primo aspetto, va rilevato che i deferimenti stessi sono scaturiti dall’esercizio di un legittimo potere disciplinare del datore di lavoro, a fronte di rifiuto del ricorrente a effettuare i turni di servizio nei quali era stato inserito ( legittimamente o meno non rileva in questa sede).
 
Pertanto, la declaratoria di estinzione per alcuni e di infondatezza nel merito per altri, degli addebiti contestati, pronunciata dal CUN, non costituisce indice del comportamento persecutorio dell’amministrazione la quale, a seguito della pronuncia stessa, ha lasciato cadere il terzo procedimento disciplinare , che si concludeva con dichiarazione di non luogo procedere del Rettore in data 20.12.2005.
 
Di conseguenza:
 
<Appare quindi evidente come l’attivazione di tali procedimenti sia stata determinata non da un intento persecutorio, ma dalla rilevata sussistenza di inconvenienti determinati dal peculiare svolgimento del servizio di dialisi, in relazione alle esigenze della collettività degli utenti>
 
Ma non solo
 
< Quanto al secondo ordine di considerazioni, su cui parte ricorrente incentra la pretesa di illecito da mobbing, ossia il delineato quadro vessatorio posto in essere da superiori e colleghi nell’ambiente di lavoro, deve rilevarsi che:
 
–i comportamenti denigratori sono stati individuati da parte ricorrente nelle lettere con le quali il dirigente della divisione di nefrologia sottolineava la indisponibilità del ricorrente allo svolgimento dei turni pomeridiani di dialisi in regime ordinario; non appare , ad una attenta valutazione del tenore letterale e finalistico degli stessi, che questi possano integrare un atteggiamento denigratorio, limitandosi il Dirigente a chiedere, a fronte di tali obiettive difficoltà, il trasferimento del ricorrente presso una struttura più congeniale alle sue caratteristiche.>
 
Ci può essere un concorso di colpa del presunto danneggiato?
 
<Anche le modalità con cui il ricorrente si è assentato contribuiscono a rappresentare uno stato di contrasto con le ragioni organizzative del servizio:invero, sembra che il ricorrente giustificasse sempre le sue assenze dal turno pomeridiano nel quale era inserito con la richiesta di permessi per malattia che faceva pervenire il giorno stesso del turno>
 
 
Di conseguenza:
 
< Il quadro complessivo esclude l’elemento oggettivo del mobbing; ma in ogni caso non potrebbe dirsi sussistente un elemento soggettivo, in ragione delle apprezzabili esigenze superiori di svolgimento del servizio di emodialisi in favore di pazienti affetti da gravi patologie, che hanno indotto il dirigente della struttura a far fronte con mezzi di emergenza alla persistente indisponibilità di uno dei medici del servizio.>
 
L’amministrazione va quindi assolta, in quanto:
 
< Non può pertanto ravvisarsi un uso distorto o improprio delle misure organizzative da parte del datore di lavoro, né una condotta vessatoria ed ostile di colleghi o superiori gerarchici, e comunque non sussiste la lamentata violazione del cd. obbligo di protezione gravante sul datore di lavoro.>
 
 
 
A cura di Sonia Lazzini
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.1739/08
Reg.Dec.
N. 7336 Reg.Ric.
ANNO   2003
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 7336/03 proposto dal Prof. ALFA ANTONIO, rappresentato e difeso  dall’avv. Mario Rampini ed elettivamente domiciliato presso l’Avv. Paolo Giuseppe Fiorilli in Roma, via Cola di Rienzo, 180;     
contro
l’UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA, in persona del Rettore p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso gli uffici della medesima domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;      
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Umbria n. 192/03 del 21.3.2003;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;        
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 29 gennaio 2008 relatore il Consigliere Gabriella De Michele;        
Uditi l’avv. Rampini e l’avv. dello Stato De Felice; 
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O
 Attraverso l’atto di appello in esame, notificato il 21.7.2003, il Prof. Antonio ALFA – nella qualità di professore associato di “costruzioni rurali e topografia”, presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Perugia – contestava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Umbria n. 192/03 del 21.3.2003 (che non risulta notificata), con la quale veniva respinto il ricorso dal medesimo proposto, per il risarcimento del danno derivante da mancata assegnazione ad una struttura dipartimentale, con decorrenza 1.1.1999.
Fino al 30.12.1998, infatti, il citato prof. ALFA aveva diretto l’Istituto di Genio Rurale presso la Facoltà sopra indicata e già in data 11.6.1998 – in vista di un procedimento di riorganizzazione in Dipartimenti dell’ateneo perugino – aveva richiesto, senza ottenere positivo riscontro, l’afferenza del proprio Istituto al costituendo Dipartimento dell’area Economica estimativa della Facoltà di Agraria o, in subordine, a quella dell’area Zootecnica.
 Quando poi, con D.R. n. 435 del 30.12.1998, il predetto Istituto di Genio Rurale era stato disattivato, il docente interessato era venuto a trovarsi senza alcun supporto strutturale per la prosecuzione della propria attività didattica e scientifica e, in tale situazione, con nota del 13.2.1999, aveva richiesto al Garante dell’Ateneo un immediato intervento, essendo stato trasferito altrove il personale, in precedenza assegnato all’Istituto anzidetto e non risultando più fruibili anche i relativi fondi in dotazione per la ricerca, rimasti senza un apparato organizzativo di imputazione.
Nel corso del 1999, si susseguivano diversi tentativi di sistemazione della vicenda: una prima indicazione del Preside della Facoltà di Agraria, secondo cui l’attuale appellante avrebbe potuto trovare sistemazione presso il Dipartimento “Uomo e Territorio”, vedeva infatti contrario il Direttore del Dipartimento stesso, per presunta “sussistenza di gravi incompatibilità tra il Prof. ALFA ed il personale operante nella struttura”; successivamente, venivano respinte ulteriori richieste di afferenza ai Dipartimenti di “Ingegneria Industriale” e di “Biologia Vegetale”, fino a che con D.R. in data 2.10.2000, in via solo apparentemente risolutiva, l’appellante stesso veniva assegnato d’ufficio al “Dipartimento Uomo e Territorio”, senza però vedere modificata una situazione di sostanziale isolamento, nonché con persistente mancanza di una struttura di sostegno per la didattica e la ricerca. Quanto sopra, essendo stata detta assegnazione disposta in via provvisoria, a meri fini di “supporto per la gestione dell’attività amministrativa-contabile”, senza che il docente in questione venisse inserito in una delle sezioni del Dipartimento stesso e, quindi, con assenza per il medesimo di qualsiasi disponibilità di personale tecnico e ausiliario. A conferma di tale situazione, ancora in data 3.4.2002 il Direttore del citato Dipartimento “Uomo e Territorio” comunicava al Direttore Amministrativo dell’Università e a tutti gli uffici che le comunicazioni indirizzate al prof. ALFA avrebbero dovuto essere inviate genericamente presso l’Università, anzichè al Dipartimento di assegnazione, non facendo parte il medesimo Professore di alcuna sezione di quest’ultimo. La complessa vicenda sopra sintetizzata, infine, avrebbe avuto termine solo a seguito dell’accoglimento, in data 28.5.2002, dell’istanza di afferenza dell’odierno appellante al Dipartimento di “Ingegneria Industriale” della Facoltà di Ingegneria, per svolgere attività di ricerca nel campo delle risorse energetiche in agricoltura.
La richiesta risarcitoria, respinta in primo grado di giudizio, traeva dunque titolo dal lungo periodo (quasi due anni e mezzo) di isolamento professionale, nonché di sostanziale blocco dell’attività scientifica e didattica del diretto interessato.
Nella sentenza appellata, il Tribunale riteneva l’azione ritualmente proposta, perché “volta al risarcimento del danno causato ad una posizione giuridica soggettiva, rientrante nell’ambito della giurisdizione esclusiva” del Giudice Amministrativo: una giurisdizione, nell’ambito della quale non avrebbe più rilievo – a norma dell’art. 7, comma 3 della legge n. 1034/1971, nel testo introdotto dall’art. 7 della legge n. 205/2000 – la natura di diritto soggettivo o di interesse legittimo della situazione soggettiva lesa. Il risarcimento richiesto, tuttavia, non potrebbe essere accordato, per avvenuta consolidazione – e conseguente presunzione di legittimità – del provvedimento di disattivazione dell’Istituto già diretto dal ricorrente, poiché da quest’ultimo non tempestivamente impugnato, con conseguente non ravvisabilità di danno “ingiusto”.
Ugualmente infondata, sempre in base alla sentenza in questione, sarebbe stata, inoltre, l’istanza risarcitoria riferita ad inerzia dell’Amministrazione, non risultando evidenziata l’illegittimità del comportamento omissivo, attraverso la procedura tipizzata del silenzio-rifiuto. La stessa entità del danno, peraltro, sarebbe rimasta non provata e non avrebbe potuto, comunque, corrispondere a danno di natura morale, essendo quest’ultimo risarcibile solo se conseguente ad un reato, in base al combinato disposto degli articoli 2059 cod. civ. 185 cod. pen.
Tutte le argomentazioni, in precedenza sintetizzate, venivano analiticamente confutate in sede di appello, con sostanziale riferimento ad una non corretta impostazione della situazione dedotta in giudizio, concernendo quest’ultima la “violazione di precisi obblighi posti a carico dell’Ateneo, quale datore di lavoro”, con corrispondente “lesione di diritti soggettivi” del dipendente interessato, in violazione di precise norme dello Statuto e del Regolamento generale dell’Università in questione. Quanto sopra, attraverso modalità di condotta dei responsabili organizzativi dell’Ateneo stesso, tali da configurare una fattispecie di “mobbing”, indubbiamente produttiva di danno: tale danno (di cui si chiedeva la quantificazione in via equitativa, ex art. 1226 cod. civ.), oltre ad essere attestato da perizia medica in data 30.6.2001, prodotta in giudizio, emergerebbe “per tabulas” dal prolungato declassamento del docente in questione, passato dalla posizione di Direttore di un Istituto, cui afferivano quattro cattedre, alla posizione di Professore universitario non più in grado di garantire la didattica e la ricerca, in quanto privato di ogni supporto organizzativo e posto “in uno stato di assoluto isolamento fisico e morale”.
L’Amministrazione appellata, costituitasi in giudizio, resisteva formalmente all’accoglimento del giudizio.
D I R I T T O
Il Collegio è chiamato a valutare un’azione risarcitoria, che nella sentenza appellata viene giudicata, in via preliminare, ammissibile e rientrante nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, ma nel merito infondata, non risultando impugnato l’atto amministrativo da cui deriverebbe il danno (disattivazione dell’Istituto di Genio Rurale” presso la facoltà di Agraria dell’Università di Perugia, in data 31.12.1998) e non essendo stati esperiti rimedi sollecitatori, atti ad escludere la successiva inerzia dell’Amministrazione, in ordine all’individuazione di altro idoneo supporto organizzativo per l’insegnamento, in precedenza svolto presso l’Istituto anzidetto.
Il Collegio condivide solo in parte l’impostazione sopra sintetizzata.
Appare corretta, infatti, la riconosciuta cognizione del Giudice Amministrativo sulla controversia in esame, rientrando in tale cognizione esclusiva le questioni attinenti al rapporto di impiego dei professori universitari, a norma degli articoli 3 e 63, comma 4 del D.Lgs. 30.3.2001, n. 165 (cfr. anche, in tal senso, Cass.SS.UU., 5.4.2005, n. 7000, 30.3.2005, n. 6635 e 11.3.2004, n. 5054; Cons. St., sez. VI, 9.3.2005, n. 977); l’estensione di tale giurisdizione al risarcimento del danno, inoltre, è codificata dall’art. 7, comma 3 della legge n. 1034/71, come modificato con legge n. 205/2000.
Non condivisibile, tuttavia, appare l’affermata irrilevanza della distinzione fra situazioni soggettive protette, che si assumano lese, nonché l’indifferenziata applicazione alle medesime della cosiddetta “pregiudiziale amministrativa” (ovvero del necessario previo annullamento dell’atto amministrativo, cui sia riconducibile la lesione), con ulteriore, inedita estensione di tale pregiudiziale a fattispecie di mera inerzia dell’Amministrazione.
Sotto il primo profilo è attualmente dibattuto in giurisprudenza il principio, secondo cui la risarcibilità del danno sarebbe inscindibile dalla caducazione del provvedimento produttivo della lesione: (circostanza, quella appena indicata, che richiede di norma sia l’impugnazione del provvedimento stesso entro brevi termini decadenziali, sia il relativo annullamento): al riguardo tuttavia, secondo un recente indirizzo della Corte di Corte di Cassazione a Sezioni Unite, confermato da alcune pronunce del Giudice Amministrativo ( nn. 13659 e 13660 del 13.6.2006, n. 13 del 5.1.2007, n. 1139 del 19.1.2007; Cons. St., sez. V, 31.5.2007, n. 2822), detto Giudice non potrebbe esimersi dall’accertare la lesione di un interesse protetto a fini risarcitori, entro il previsto termine di prescrizione, anche indipendentemente dall’intervenuto annullamento dell’atto lesivo, previa valutazione in via incidentale della prospettata illegittimità di tale atto. Un opposto indirizzo (Cons. St., Ad. Plen. 22.10.2007, n. 12) viceversa – premesso che le Sezioni Unite della Cassazione possono vincolare, a norma dell’art. 111, comma 8 della Costituzione, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti a decidere una controversia, senza però vincolarli anche ad un determinato contenuto della medesima (Corte Cost., 12.3.2007, n. 77) – ritiene tuttora valide molte considerazioni poste a base della pregiudiziale in questione, con particolare riguardo alla presunzione di legittimità, che assiste gli atti amministrativi consolidati per omessa impugnazione nei termini, nonché alla difficile configurabilità, in tale situazione, di un danno ingiusto.
La linea interpretativa da ultimo indicata viene, appunto, recepita dalla sentenza appellata, ma in rapporto ad una fattispecie non pertinente.
Deve in primo luogo rilevarsi, infatti, che il danno risarcibile appare connesso non alla disattivazione, in data 31.12.1998, dell’Istituto di Genio Rurale diretto dall’appellante, ma alla successiva omessa assegnazione di quest’ultimo ad altra area dipartimentale, in violazione di precisi obblighi dell’Ateneo, in rapporto ai quali il medesimo appellante intende far valere un vero e proprio diritto soggettivo. L’assenza di interesse all’impugnazione dell’atto sopra citato – di natura organizzatoria e rispondente a previsioni legislative in materia – è evidenziata dalla preventiva richiesta del prof. ALFA, in data 11.6.1998, di provvedere a nuova aggregazione dipartimentale dell’Istituto di appartenenza, con successive contestazioni sollevate dal medesimo, in via esclusiva, in rapporto all’assenza di misure risolutive al riguardo, tenuto conto delle pesanti conseguenze professionali e personali, subite per la persistente mancanza di una qualsiasi struttura organizzativa di riferimento.
Se da una parte, poi, non può considerarsi ostativa al risarcimento di cui trattasi l’omessa impugnazione dell’atto sopra indicato, del quale l’attuale appellante non ha mai inteso contestare la legittimità, senz’altro non condivisibile appare l’ulteriore argomentazione, secondo cui la cosiddetta pregiudiziale amministrativa dovrebbe essere individuata nella “impugnazione vittoriosa del silenzio rifiuto”. Ancora una volta, a tale riguardo, si confonde una situazione di danno, ricondotta dall’interessato a lesione di diritti soggettivi, inerenti al rapporto di pubblico impiego, con quella riconducibile ad istituti – prima di creazione giurisprudenziale, poi diversamente codificati dal legislatore (Cons. St., Ad.Plen., 10.3.1978, n. 10 e successiva giurisprudenza pacifica; art. 21 bis L. n. 1034/1971, nel testo introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000; artt. 2, comma 5 e 20 L. n. 241/90, come successivamente modificati ed integrati) – volti al soddisfacimento dell’interesse legittimo, finalizzato alla conclusione espressa e motivata di un procedimento. Non solo, viceversa, tali istituti non attengono a diritti, della cui lesione l’interessato può direttamente chiedere l’accertamento, entro l’ordinario termine di prescrizione (senza necessità di procedere a formalizzazione dell’eventuale silenzio, in senso positivo o negativo), ma la mera inerzia, intesa come comportamento omissivo non significativo dell’Amministrazione, in violazione di un obbligo di provvedere, resta qualificabile come condotta antigiuridica, non suscettibile di consolidazione e per la cui declaratoria, pertanto, non sono ravvisabili termini decadenziali.
L’omesso avvio di una procedura, formalizzata a norma del ricordato art. 21 bis L. n. 1034/71, avrebbe potuto rilevare ai fini risarcitori, pertanto, non come fattore pregiudiziale ostativo, ma come presupposto per una diminuzione di entità del danno risarcibile, a norma dell’art. 1227 cod. civ., solo peraltro ove l’interesse dell’attuale appellante fosse stato coincidente con l’interesse legittimo ad un determinato esercizio della potestà auto-organizzatoria dell’Amministrazione, ovvero qualora fosse stato contestato non l’”an” – come nella fattispecie avvenuto – ma il “quomodo” della riorganizzazione degli Istituti universitari, con assegnazione dell’appellante ad un determinato Dipartimento piuttosto che ad un altro. La domanda giudiziale nella fattispecie proposta, invece, appare riconducibile ad una fattispecie più complessa, ovvero a quella del cosiddetto “mobbing”, in rapporto al quale la problematica sollevata appare relativamente nuova e pone, innanzi tutto, un’ulteriore questione di giurisdizione.
            La risarcibilità del danno derivante da mobbing, infatti, può essere rivendicata dal dipendente interessato in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. in tal senso, fra le tante, Cass. SS.UU. 28.7.1998, n. 7394).
            Un primo orientamento della giurisprudenza, in effetti (cfr. Cons. St., sez. V, 9.10.2002, n. 5414; TAR Lazio, Roma, sez. III, 25.6.2004, n. 6254; TAR Veneto, 8.1.2004, n. 2), tendeva a ricondurre alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie patrimoniali inerenti al rapporto di impiego, senza distinguere fra responsabilità contrattuale e aquiliana, essendo ritenuto sufficiente – per radicare la cognizione del giudice amministrativo sui rapporti di lavoro, rientranti nella giurisdizione esclusiva del medesimo – un comportamento illegittimo del datore di lavoro, e quindi un collegamento non occasionale fra la causa pretendi e il rapporto di impiego.
Non risulta conforme al predetto indirizzo, tuttavia, il più recente orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che pone a base del riparto non la prospettazione delle parti, ma il cosiddetto petitum sostanziale, da individuare anche in funzione della causa pretendi, ovvero dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio, come individuata dal Giudice in relazione ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui tali fatti sono manifestazione; tenuto conto di quanto sopra, risulta necessario accertare la natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto solo l’azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice Amministrativo, mentre dovrebbe ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extra-contrattuale (Cass. SS.UU. 4.5.2004, n. 8438).
Quest’ultimo indirizzo, in effetti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto la responsabilità extra-contrattuale per mobbing è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, escludendo da tali parametri la categoria generalizzata dei “comportamenti” (al di fuori, deve ritenersi, della valutazione in via incidentale dei medesimi, ove riconducibili ad una lesione di interessi legittimi, o di diritti soggettivi sussistenti in una materia, che sia oggetto di giurisdizione esclusiva). La predetta giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste, dunque, nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente.
Nella situazione in esame, il docente interessato ha fornito ampi riscontri in ordine all’obbligo disatteso dall’Ateneo perugino, con particolare riguardo all’articolo 77 del relativo Statuto, in base al quale “ogni professore e ricercatore deve afferire ad una struttura di ricerca e può aderire a centri di ricerca, secondo le modalità stabilite dal regolamento generale…e dai regolamenti interni delle singole strutture; l’art. 7 del regolamento generale del medesimo Ateneo, a sua volta, dispone che – caso di dissoluzione di preesistenti Istituti – vi sia richiesta contenente “indicazione sulla collocazione di tutti i Professori e Ricercatori afferenti ai preesistenti Istituti…anche ai fini logistici”, mentre il successivo art. 9 prevede che “in caso di mancato accoglimento della domanda di afferenza ad uno o più Dipartimenti, presentata da un Professore o Ricercatore, il Senato Accademico, sentito l’interessato e tenuto conto del settore scientifico-disciplinare di appartenenza, lo assegna d’ufficio ad un Dipartimento”. Non può non ascriversi a grave disservizio, dunque, l’assenza di qualsiasi assegnazione dell’attuale appellante – per oltre due anni – a qualsiasi struttura di supporto, con conseguente lesione del diritto dell’interessato all’espletamento di funzioni non inferiori a quelle proprie della qualifica e del connesso interesse, anche pubblico, all’ottimale svolgimento dell’attività didattica e di ricerca: nessuna controdeduzione, nel caso di specie, viene fornita alle affermazioni dell’appellante, che dichiara di essere stato costretto a svolgere anche mansioni proprie del personale ausiliario, (“pulizia dei locali, preparazione delle aule e dei materiali per lo svolgimento dell’attività didattica, custodia dei materiali inventariati e della biblioteca, mansioni di segreteria, apertura della porta di ingresso….”). In ordine alla situazione sopra descritta non mancano indizi di sviamento – stando al carteggio prodotto dal medesimo appellante, carteggio da cui emergono atteggiamenti omissivi, ma anche talvolta ostruzionistici o di rifiuto, da parte di alcuni responsabili delle strutture in questione. L’amministrazione appellata, viceversa, non ha fornito alcun supporto documentale, o anche solo argomentativo, per giustificare i tempi della contestata procedura di riorganizzazione dell’Università di cui trattasi: una circostanza, questa, da cui non possono non trarsi le conseguenze, di cui all’art. 116, comma 2 cod. proc. civ, posto che – in base a nozioni di comune esperienza (apprezzabili dal Giudice ex art. 115, comma 2 c.p.c.) – nel caso di specie l’Amministrazione era chiamata ad una scelta relativamente semplice (individuazione di quello, tra i Dipartimenti già istituiti, a cui sembrasse più opportuno aggregare le funzioni dell’ex Istituto di Genio Rurale), con successiva adozione di tutte le misure che si rivelassero necessarie, per tutelare le condizioni di lavoro nelle nuove strutture, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 cod. civ..
Il Collegio ritiene ravvisabile, pertanto,una fattispecie di danno risarcibile, la cui quantificazione viene dall’appellante rimessa a criteri equitativi, ex art. 1226 cod. civ..
A tale riguardo, il Collegio stesso ritiene che la lesione, subita dal diretto interessato, sia pacificamente riconducibile alla condizione di estremo disagio logistico e organizzativo, in cui il medesimo ha dovuto espletare oltre due anni di attività, senza dubbio in corrispondenza dell’ingiustificato ritardo, con cui è intervenuta la definitiva individuazione – peraltro presso altra facoltà – della struttura di riferimento per l’attività didattica del medesimo; l’assenza di colpa dell’amministrazione al riguardo – trattandosi di responsabilità contrattuale – avrebbe dovuto essere provata dall’Amministrazione stessa, che non ha viceversa fornito alcun elemento, atto ad escludere che l’inadempienza agli obblighi, sopra specificati, del datore di lavoro, fosse nella fattispecie riconducibile a cause, non imputabili all’Amministrazione stessa, nei termini esplicitati dall’art. 1218 cod. civ..
Circa la quantificazione del danno, infine, il Collegio non può non tenere conto – oltre che di elementi presuntivi, connessi all’indubbia situazione di disagio, in cui l’interessato è venuto a trovarsi – della consulenza medica in data 30.6.2001, attestante un “disturbo da stress post-traumatico da mobbing”.
Sotto altro profilo, tuttavia, deve anche essere sottolineata – ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 cod, civ. – l’omessa attivazione di qualsiasi strumento giurisdizionale sollecitatorio, con richiesta di tutela interinale d’urgenza, in ordine alla motivata conclusione della attività di auto-organizzazione dell’amministrazione, in termini che l’interessato poteva connettere alla richiesta declaratoria del proprio diritto.
Ulteriori fattori riduttivi della richiesta dell’interessato (£. 250.0000.000 oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, da convertire in euro, “salvo il maggiore o minore importo ritenuto di giustizia”), appaiono riconducibili alla già intervenuta soluzione del problema organizzativo di cui si è discusso, alla ininfluenza della situazione contestata ai fini retributivi, nonchè alla mancata dimostrazione sia di un “danno biologico permanente”, sia della perfetta integrità dello stato psico-fisico del docente in questione, in data antecedente alla vicenda di cui trattasi. In base ai criteri enunciati, il Collegio ritiene equa, a norma dell’art. 1226 cod. civ., una quantificazione del danno, corrispondente alla situazione di grave disagio organizzativo subita dall’interessato, pari a 40.000 Euro (€. quarantamila/00), con interessi e rivalutazione decorrenti, nei termini di legge, solo dalla data di quantificazione del danno stesso, attraverso la presente pronuncia.
Tenuto conto dei diversi profili di valutazione, in precedenza enunciati, il Collegio ritiene di dover accogliere l’appello, con conseguente annullamento della sentenza appellata ed accoglimento, in via di riforma della sentenza stessa, dell’istanza risarcitoria, con conseguente condanna dell’Amministrazione universitaria a corrispondere al Prof. ALFA il risarcimento dei danni, nella misura ritenuta equa di €. 40.000,00 (euro quarantamila/00); le spese giudiziali – da porre a carico della parte soccombente – vengono infine liquidate nella misura di €. 5.000,00 (euro cinquemila/00).
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, ACCOGLIE il ricorso in appello indicato in epigrafe, ANNULLA la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Umbria n. 192/03 del 21.3.2003 e, in riforma della medesima, CONDANNA l’Università degli Studi di Perugia al risarcimento del danno, nella misura ritenuta equa di €. 40.000,00 (Euro quarantamila/00); CONDANNA altresì la medesima Università al pagamento delle spese giudiziali, nella misura di €. 5000,00 (Euro cinquemila/00).
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:
Claudio Varrone                                Presidente
Luciano Barra Caracciolo                  Consigliere
Domenico Cafini                               Consigliere
Aldo Scola                                         Consigliere
Gabriella De Michele                         Consigliere est.
 
Presidente
CLAUDIO VARRONE
Consigliere                                                                           Segretario
GABRIELLA DE MICHELE                               VITTORIO ZOFFOLI
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
 
Il 15 aprile 2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA
 
 
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
 
Addì……………………………..copia conforme alla presente è stata trasmessa
 
al Ministero………………………………………………………………………………….
 
a norma dell’art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
 
                                                                                              Il Direttore della Segreteria
 

Lazzini Sonia

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