Spostamento patrimoniale in favore della banca: il correntista deve effettuare sia prelevamenti che versamenti

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Particolarmente interessante è la sentenza  n. 228 della Corte di Appello di Campobasso, Consigliere relatore dott.ssa Rita Carosella,  depositata in data 30 agosto 2016 che si sofferma sull’onere della prova in caso di azione di ripetizione indebito.

In primo grado il Tribunale di Campobasso aveva condannato la Banca, odierna appellante,  a pagare alla società attrice una somma pari ad oltre 700mila euro avendo respinto l’eccezione di prescrizione proposta dall’istituto di credito e riconosciuto la nullità della clausola anatocistica, di quella che prevedeva la commissione di massimo scoperto e di quella relativa all’applicazione di tassi di interesse mediante rinvio agli usi su piazza.

Si deve sottolineare che durante  il lungo periodo di tempo, di circa dieci anni,  in cui il giudizio si è svolto, la società correntista  non ha mai provveduto alla chiusura del conto oggetto di contestazione.

Ebbene, la Corte d’Appello di Campobasso,  con un’ampia  ed articolata motivazione, mostrando di recepire le argomentazioni formulate dalla Banca, ha rigettato la domanda restitutoria proposta dalla società debitrice sul presupposto che, nel caso de quo,  la società  stessa non aveva provato in giudizio l’effettuazione di  pagamenti, nell’accezione di cui alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione  n. 24418/2010, in favore della banca, venendo così a mancare i presupposti dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c..

Sottolinea la Corte che “il pagamento che può dare vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale nei confronti dell’”accipiens””.

Partendo da questo presupposto,  la Corte d’Appello di Campobasso, nella motivazione della sentenza, affronta tale problematica con riferimento a quanto stabilito dagli Ermellini nella su citata sentenza n. 24418 del 2010,  evidenziando come, se pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, è indubbio che non vi sia stato alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato.

Se, invece, durante lo svolgimento del rapporto, il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione, in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà nel caso in cui i versamenti vengano eseguiti su un conto “scoperto” e non, al contrario, in tutti quei casi in cui i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista, della quale il correntista può ancora continuare a godere.

Secondo la Corte, nel caso in esame, difetta la prova della corresponsione degli interessi, di rimesse solutorie, effettuate in pendenza o a conclusione del rapporto, le sole, ove indebite, ripetibili.

E tale prova, prima ancora che alla banca convenuta, ai fini della eccezione di prescrizione, spettava primariamente alla società correntista, attrice in ripetizione, di fornire, per dimostrare la fondatezza dell’azionata domanda ex art. 2033 c.c., con ciò mostrando la Corte di aderire ancora una volta a quanto statuito nella pronuncia della Suprema Corte a sezioni unite n. 24418/2010 in base alla quale “… perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito, tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile”.

Quindi, secondo la Corte d’Appello, alla luce degli strumenti probatori disponibili, non è possibile stabilire se gli importi, individuati dal CTU quali interessi passivi e commissioni di massimo scoperto, o quelli rinvenienti dai conteggi di parte, depositati dall’attrice, corrispondano a somme effettivamente riscosse dalla banca, oppure rappresentino mere poste contabili, destinate ad incidere sulla complessiva posizione debitoria della società correntista. 

Per tali motivi la domanda giudiziale proposta in primo grado è stata ritenuta dalla Corte d’Appello di Campobasso  inammissibile ed infondata e quindi rigettata con conseguente riforma totale della sentenza impugnata e con declaratoria di condanna della società appellata alla restituzione delle somme pagate dalla banca in esecuzione della sentenza di primo grado.

Sentenza collegata

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Avv. De Luca Maria Teresa

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