Si intensificano i ricorsi giudiziari per rimediare ai danni del Jobs act

Meucci Mario 04/03/20
Sommario:

  1. L’accoglimento da parte del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) del reclamo sindacale avverso le disarmonie del Jobs act
  2. La marginalizzazione del rimedio della reintegrazione – per l’ipotesi del licenziamento ingiustificato – a partire dalla cd. riforma Fornero al Jobs act del governo Renzi

2 a) Il nuovo assetto peggiorativo delle tutele ex art. 18 Statuto dei lavoratori, ad opera della cd. riforma Fornero

2 b) … e, quello ancor più degradante, ad opera del Governo Renzi

2 c) L’iniziale orientamento giurisprudenziale e il successivo, fino ad oggi

  1. Successivi interventi giurisprudenziali sul Jobs act

4 a) La rimessione alla Corte costituzionale da parte di Trib. Roma 26/7/2017

4 b) Il rinvio alla Corte europea di Giustizia da parte di Trib. Milano 5/8/2019

4 c) Il rinvio sia alla Corte costituzionale sia alla Corte europea di giustizia da parte della Corte d’appello di Napoli 27/11/2019

1. L’accoglimento del reclamo sindacale sulle disarmonie del Jobs act, da parte del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS)

Nella prima decade del mese di febbraio 2020, il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo, si è autorevolmente espresso per l’accoglimento del reclamo (avanzato dalla CGIL nel 2017, con il sostegno della Confederazione europea dei sindacati), tramite cui la suddetta Confederazione aveva prospettato all’organismo europeo il contrasto, con l’art. 24  della Carta sociale europea, del noto provvedimento legislativo (denominato “Jobs act” dal governo Renzi), a causa della riduzione delle tutele nei confronti dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ad opera del d.lgs. n. 23/2015, attuativo del  “Jobs act” stesso.

Per necessaria comprensione va detto che l’art. 24 della Carta sociale europea sancisce il diritto, in caso di licenziamento ingiustificato, alla reintegra del lavoratore, oppure, nel caso in cui quest’ultimo rimedio non sia concretamente praticabile, il diritto ad un risarcimento monetario commisurato al danno subito, senza “tetti” legislativamente predeterminati (com’era stato fatto dal governo italiano per consentire ai datori di lavoro la previa conoscenza e sostenibilità del costo economico di un qualsiasi licenziamento che risultasse, dopo la valutazione di un giudice, non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, cioè a dire arbitrario).

Sebbene la determinazione del CEDS non sia giuridicamente vincolante, pur tuttavia ad essa viene riconosciuto – dai Sindacati promotori del reclamo – la natura di severo “monito”, di fonte europea, nei confronti del nostro Governo, teso a promuovere il ripensamento su quella legge sul lavoro del governo Renzi-Poletti che i sindacati qualificano espressamente come “sbagliata”, anche dopo le modifiche apportate nel 2018 (dal cd. “decreto dignità”) che ha elevato a 36 mesi di retribuzione l’importo massimo di indennizzo per i licenziati ingiustificatamente dalle imprese medio-grandi e a 6 mesi per quelli delle piccole aziende. “Sbagliata” giacché esclude in toto la reintegra (quantunque la successiva sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale abbia giudicato non illegittima la differenziazione di trattamento fra le due generazioni di lavoratori, senza reintegra quelli neo assunti dopo l’entrata in vigore del decreto n. 23/2015  – attuativo del Jobs act – e con la reintegra per  i già in servizio, cioè gli assunti antecedentemente); ed abbia esclusivamente riconferito al Giudice – come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio – quel naturale potere discrezionale, di natura equitativa, di determinare la misura del risarcimento monetario del danno, in relazione ai singoli casi  di ingiustificata espulsione dal lavoro, sottopostigli a valutazione, in tal modo sbaragliando i predeterminati “tetti”, eretti a garanzia della conoscibilità del costo di un licenziamento arbitrario da parte dei datori di lavoro ed, al tempo stesso, per realizzata estraniazione del cd. “terzo incomodo” (il Giudice) in omaggio al manifestato convincimento dell’allora premier, secondo cui “il datore instaura il rapporto di lavoro, il datore licenzia, se sbaglia paga”, senza che un terzo estraneo possa quantificarne la misura.

Un’adeguata trattazione della tematica relativa al depotenziamento delle tutele dei lavoratori, introdotte 50 anni fa, con la l. n. 300/70 (cd. Statuto dei diritti dei lavoratori), non può prescindere da una prospettazione ai lettori delle varie fasi temporali o steps, tramite cui i governi, tale depotenziamento, l’hanno attualizzato.

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2. La marginalizzazione del rimedio della reintegrazione – per l’ipotesi del licenziamento ingiustificato – a partire dalla cd. riforma Fornero al Jobs act del governo Renzi

2 a) Il nuovo assetto peggiorativo delle tutele ex art. 18 Statuto dei lavoratori, ad opera della cd. riforma Fornero

La determinazione di depotenziare il rimedio di carattere reale della reintegrazione nel posto di lavoro, per sostituirla con un rimedio di natura cd. obbligatorio/indennitaria – costituita dalla monetizzazione del danno da licenziamento ingiustificato – parte da lontano (sostenuta dalle Confederazioni dei datori di lavoro e sponsorizzata da governanti e politici nelle aule parlamentari).

L’obbiettivo demolitivo risulta, naturalmente, da conseguire tramite una modifica strutturale dell’art. 18 della l. n. 300/1970 (cd. Statuto dei lavoratori) – che introdusse la reintegrazione come rimedio e sanzione del licenziamento infondato – disposizione che, originariamente, così recitava: «… il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

Il primo passo in tale direzione demolitiva, fu effettuato dal Governo Monti – tramite la legge n. 92 del 2012, cd. riforma Fornero – che mantenne il rimedio della reintegrazione, nel riformulato art. 18 della l. n. 300/1970, in via esclusivamente residuale, al riscontro giudiziale che il provvedimento espulsivo datoriale riposava sulla discriminazione (sindacale, politica, di sesso o genere, per maternità,  per fede religiosa, per opinione, per motivi ideologici e simili) ovvero sulla ritorsione. Reintegrazione, in tali casi, accompagnata dal risarcimento del danno  in misura pari alle retribuzioni mancate dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione (con un minimo di 5 mensilità).

Tanto mantenuto per le ipotesi discriminatorie sopra specificate, tutto il rimanente testo originario dell’art. 18 venne,  pertanto, modificato  dall’art. 1, comma 42 punto b), della l. n. 92/2012, che – per i licenziamenti disciplinari – lo sostituì con la seguente formula: «Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (…)».

Salve le precitate e circoscritte ipotesi (discriminazione/ritorsione nonché insussistenza del fatto contestato al lavoratore) – al riscontro delle quali viene mantenuta (con onere della prova, naturalmente, a carico del lavoratore) la reintegrazione –, viene introdotta  nel novellato art. 18   (tramite il terzo periodo dell’art. 1, comma 42 punto b, della precitata legge), la cd. “monetizzazione”, come regola risarcitoria.

La formulazione che la recepisce è la seguente: «Il giudice, nelle altre ipotesi (diverse dalla discriminazione o dalla ritorsione, ovvero dalla “insussistenza del fatto contestato”, ndr) in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».

Va detto, peraltro, che relativamente ai licenziamenti collettivi, la legge n. 92/2012, dispose – tramite l’art. 1, comma 46 – che. : «(…)  In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18 (…)», ove il rinvio al quarto comma implicava la reintegrazione e il risarcimento del danno in misura  di 12 mensilità.  

Si legga anche:”Il jobs act e l’insussistenza del fatto contestato”

2 b) … e, quello ancor più degradante, ad opera del Governo Renzi

Con il Governo Renzi viene effettuato il tentativo di  generalizzare la monetizzazione in totale sostituzione della residuale reintegrazione ma – in ragione delle resistenze incontrate a livello politico e sindacale – si ripiega su una soluzione di mediazione: quella di “privare” (sostanzialmente) della reintegrazione i soli nuovi assunti (operai, impiegati e quadri, dirigenti esclusi) dalla data successiva alla pubblicazione del d.lgs. n. 23/2015 – cioè dal 7 marzo 2015 – mantenendo le tutele di cui all’art. 18 Statuto dei lavoratori (nella versione risultante dalle modifiche ex riforma Fornero del 2012) ai lavoratori assunti precedentemente, tuttora in servizio.

Rinuncia invero di poco conto, attesa la piena consapevolezza della generalizzazione futura della monetizzazione del licenziamento all’intera categoria dei prestatori d’opera, una volta che la compagine dei vecchi sia venuta ad estinzione, per naturale decorso del tempo.

Pertanto, tramite l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015, viene riscritto il nuovo testo dell’art. 18 l. n. 300/70, riservandone l’applicazione ai soli nuovi assunti dal 7 marzo 2015 ai quali verrà applicato dalle aziende il cd. contratto a tempo indeterminato indebitamente qualificato a “tutele crescenti” – ove, per i licenziamenti cd. disciplinari (per giustificato motivo e giusta causa) – le possibilità di avvalersi della reintegrazione al riscontro di un licenziamento illegittimo sono marginalizzate alla stregua della seguente formulazione: «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione (…). In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (…).  

Va sottolineato come, nell’ottica di vanificare pressoché totalmente le marginalissime possibilità della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, l’astuto legislatore del governo Renzi abbia rafforzato gli ostacoli già  presenti nella formulazione dell’art. 18 (quale risultante dalla modifica ex riforma Fornero), tramite l’avverbio “esclusivamente”, ostativo, più che riduttivo, delle chances di conseguimento della reintegrazione, tramite l’accollo al lavoratore dell’onere di “dimostrare direttamente in giudizio” non già “l’infondatezza del fatto contestato” ma del “fatto materiale contestato”.  Ove, tramite l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” si era inteso indirizzare al giudicante il messaggio di limitarsi, per legittimare il licenziamento, al solo accertamento dell’avvenuto compimento del fatto in se e per se, a prescindere da qualsiasi valutazione di gravità o irrilevanza disciplinare; aggiungendo infine, sempre per il giudicante, l’incredibile  avvertimento/precisazione  di non tenere in alcun conto se il provvedimento sanzionatorio/espulsivo dal posto di lavoro, fosse stato irrispettoso del principio giuridico di “proporzionalità” della sanzione all’infrazione commessa, espressamente previsto nell’art. 2106 c.c.

Per i licenziamenti collettivi viziati per violazione dei criteri di scelta, l’art. 10 del d. lgs. n. 23/2015 dispose la “monetizzazione” tramite l’applicazione del rimedio indennitario di cui all’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, che così stabiliva: «Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

Risulta evidente come i licenziamenti collettivi siano stati  sottoposti ad un regime sanzionatorio meramente indennitario, oggettivamente differente in senso peggiorativo rispetto a quello previsto dall’art. 5, 3° co. della legge 23 luglio 1991 n. 223, novellato dalla legge 92/12, che contemplava, in particolare per la ipotesi di violazione dei criteri di scelta, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno sino ad un massimo di dodici mensilità, oltre il versamento dei contributi previdenziali, talché il Giudice estensore di Trib. Milano 5/8/2019 (di cui diremo in prosieguo al punto 3.b) nel suo rinvio, investe la Corte di giustizia europea di valutarne l’eventuale contrasto con il diritto comunitario.  

3. L’iniziale orientamento giurisprudenziale e il successivo, fino ad oggi

In adesione pedissequa (e non meditata) al tenore letterale del nuovo art. 18, (nella modifica di cui alla riforma Fornero del 2012), la prima giurisprudenza di Cassazione ebbe a stabilire che: «La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» (Cass. 6 novembre 2014 n. 23669, ispiratrice dell’aggettivo “materiale” introdotto nella riscrittura dell’art. 18 da parte del decreto, attuativo del Jobs act,  n. 23/2015).

Quindi, secondo quest’iniziale orientamento giurisprudenziale, il licenziamento sarebbe stato legittimato  anche per motivi di insussistente o scarsa rilevanza disciplinare  (entrata in ritardo di pochi minuti al lavoro, replica al Capo costituente al limite lieve insubordinazione, ecc.) giacché il fatto materiale sussisteva anche se irrilevante.   Altra sentenza contemporanea di Cassazione (13 ottobre 2015, n. 20540)  eccepì: «Quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva (…). In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 4 cit.».

La sopracitata sentenza documenta come, ben presto, sia apparsa l’illogicità dell’interpretazione rigoristica, talché la successiva giurisprudenza operò una correzione (oramai accolta in forma prevalente, direi consolidata), giungendosi a stabilire – da ultimo, con Cass. 12174 dell’8 maggio 2019, confermativa di altre precedenti di segno conforme –  il seguente principio di diritto: «Ai fini della pronuncia di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. nr. 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».

Va evidenziato, altresì, come la sentenza in questione – nella sua articolata motivazione – fornisca, altresì, conferma del fatto che il rimedio della reintegra ha subito un processo di marginalizzazione tale da divenire una forma di tutela residuale, così dicendo: «L’articolazione delle tutele nel nuovo art. 18, nel suo impianto generale, richiama quella già intrapresa dalla legge nr. 92 del 2012 di modifica dell’art. 18 della legge nr. 300 del1970, anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione come residuale rispetto alla tutela indennitaria (Cass. nr. 19732 del 2018; Cass. nr. 30323 del 2017; Cass. nr. 14021 del 2016), già letta dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. nr . 30985 del 2017) quale “espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”».

Aggiungendo che: «La diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 – che ha implementato la formula che limita i casi di reintegrazione con l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” in stretta connessione con l’esplicita estraneità di “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”- si spiega agevolmente con l’esigenza di dissipare per la nuova disciplina dubbi interpretativi che all’epoca erano ancora ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell’art. 18 novellato». Tuttavia, sottolineando che, per il nuovo orientamento giurisprudenziale, la diversità lessicale del nuovo testo non appare idonea a consentire di discostarsi da quella prevalente opinione (di cui a Cass. 13.10.2015 n. 20540, Cass. 20.9.2016 n. 18418 e Cass. 12.5.2016 n. 10019), secondo cui: «l’insussistenza del fatto contestato comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore, talché – come ha chiarito Cass. 13.10.2015 nr. 20545 – ogniqualvolta il fatto contestato presupponga anche un elemento non materiale (come la gravità del danno) allora tale elemento diventa anch’esso parte integrante del “fatto materiale”, come tale soggetto ad accertamento, sicché anche in tale ipotesi l’eventuale carenza determina la tutela reintegratoria» (…).

4. Successivi interventi giurisprudenziali sul Jobs act

Peraltro, oltre alla marginalizzazione  del rimedio di carattere reale della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato ingiustificatamente – sostituito da una insufficiente e standardizzata monetizzazione[1]  del danno da indotta disoccupazione – ai promotori del Jobs act (e decreto attuativo n. 23/2015), va ascritto il demerito (come già detto) di aver istituzionalizzato fra i lavoratori due forme di trattamento differenti, fra loro coesistenti: a) il mantenimento delle tutele dell’art. 18 Stat. lav. (nel testo scaturito dalla l. n. 92/2012, con il rimedio della reintegra) per i vecchi assunti tuttora in servizio, e, b) l’applicazione della deteriore normativa del novellato art. 18 (soprariprodotto al punto 2) ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato cd a “tutele crescenti” (con qualifica di operai, impiegati e quadri, dirigenti esclusi) assunti dopo il 7 marzo 2015 (entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015), ivi compresi gli assunti a termine in momenti precedenti ma stabilizzati dopo la suddetta data.

4 a) La rimessione alla Corte costituzionale da parte di Trib. Roma 26/7/2017

La prima sottoposizione al vaglio giudiziario della riscrizione peggiorativa del nuovo art. 18 avvenne ad opera di una ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale da parte del Tribunale di Roma (del 26/7/2017, rel. Cosentino), che sfociò nella sentenza n. 194/2018 della Consulta.

Da parte dell’ordinanza di rimessione si evidenziò come il cd. Jobs act avesse, irrazionalmente, introdotto nel mercato del lavoro, per lo stesso evento del licenziamento illegittimo, uno sdoppiamento di tutele tra vecchi assunti ante 7 marzo 2015, con tutela reintegratoria (seppur resa difficoltosa nel suo conseguimento in giudizio) e nuovi assunti dal 7 marzo 2015 in poi, con monetizzazione. L’ordinanza del tribunale romano portò all’attenzione della Corte costituzionale sia le irrazionalità sopra riferite sia il fatto che la monetizzazione – in se e per se nonché per l’esiguità degli importi rigidamente predeterminati in maniera uniforme e parametrati alla sola anzianità di servizio – risultava irrispettosa del bilanciamento degli interessi delle parti nel rapporto e nient’affatto dissuasiva dell’interesse del datore a licenziare.

La Corte costituzionale, dopo aver affermato – in coerenza con precedenti statuizioni – che la tutela del lavoro richiamata negli artt. 4 e 41 Cost. non riposa sul solo meccanismo della tutela reale assistito dalla reintegra, nel caso del licenziamento ingiustificato, ma ben può essere assicurata anche da un sistema di tutela obbligatoria implicante un risarcimento monetario – purché rispettoso del bilanciamento degli interessi delle parti nel rapporto, riposante su un obbiettivo criterio di ragionevolezza che garantisca la congruità risarcitoria per la cd. parte debole – dichiarò non rispondente a tali requisiti l’ancoraggio della monetizzazione al solo parametro della “anzianità di servizio”. Concludendo, pertanto, per l’incostituzionalità del decreto legislativo n. 23 del 2015, nella parte in cui (al comma 1 dell’art. 3) determina l’indennizzo in forma rigida (e del tutto modesta, specie per i lavoratori con scarsa anzianità di servizio), in quanto «non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro». Affermò testualmente la Corte che: «In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima». Talché il Giudice, nel condannare il datore di lavoro all’indennizzo, deve tener conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri criteri individuati dalla «disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti) nel rispetto dei limiti, minimo e massimo», disciplina attualizzata nelle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970.

Pertanto la Consulta statuì che: «L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – con un minimo non inferiore a 4 (ora 6) e non superiore a 24 (ora 36) n.d.r. – contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente».

La sentenza, in buona sostanza, più che segnare una conquista di rilievo per gli interessi concreti e monetari dei lavoratori licenziati ingiustificatamente – giacché le mensilità risarcitorie attualizzanti la monetizzazione, anche se riassegnate alla più attenta calibrazione, caso per caso, del giudice, dovranno pur sempre essere ricomprese nell’arco legislativamente segnato dal minimo di 6 e 36 (così elevate dal cd. decreto dignità n. 87/2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 96/2018) – riveste, tuttavia, una indubbia significatività per la riaffermazione del ruolo del Giudice nelle controversie di lavoro, cui viene riassegnata la negata (dal cd. Jobs act) discrezionalità di determinare la «personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza».

Quanto all’eccezione di incostituzionalità  del trattamento differenziale tra vecchi assunti e nuovi assunti dal 7 marzo 2015, con il cd “contratto a tutele crescenti”, la Corte non la considerò meritevole di accoglimento in quanto ritenne che non contrastasse con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il «principio di eguaglianza», atteso che la   ragione giustificatrice risultò costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).

Affermò, pertanto, la Corte che: «Il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore (7 marzo 2015, ndr), quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita. Pertanto, l’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza. Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito».

4 b) Il rinvio alla Corte europea di Giustizia da parte di Trib. Milano 5/8/2019 Una successiva remissione – stavolta alla Corte europea di giustizia – viene fatta dal Tribunale di Milano (ordinanza del 5 agosto 2019, rel. Pazienza).

La remissione alla Corte di Giustizia europea è occasionata dall’esame di una controversia tra una dipendente e la società (poi dichiarata fallita). Tutti i colleghi della donna che avevano impugnato il licenziamento collettivo deciso nel gennaio 2017 dall’azienda ottennero la reintegrazione nel posto di lavoro, per riscontro giudiziario di un vizio afferente i criteri di scelta dei licenziandi. Alla donna, invece, la reintegrazione venne  negata perché era stata stabilizzata il 31 marzo 2015, 24 giorni dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, giustappunto perché il suo licenziamento era disciplinato da «un regime sanzionatorio meramente indennitario e oggettivamente differente in senso peggiorativo rispetto a quello precedente», che prevedeva la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno fino ad un massimo di dodici mensilità, oltre il versamento dei contributi previdenziali.

Secondo l’ordinanza «i numerosi profili di contrasto, sia sotto il profilo della adeguatezza ed effettività della tutela avverso il danno subito dalla perdita del posto di lavoro sia di ragionevolezza della coesistenza di due regime sanzionatori, incidono sul giudizio di aderenza ai parametri costituzionali e del diritto comunitario necessario ai fini della selezione del sistema di tutela applicabile al licenziamento intimato». L’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – ricorda il giudice – dispone che «Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali». E l’articolo 24 della Carta sociale europea sancisce «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Il Comitato europeo dei diritti sociali (che però non è un organismo che può esprimere un’opinione giuridicamente vincolante, secondo Corte cost. n. 194/2018), ha fornito un’interpretazione di tale disposto, ritenendo che costituisce “adeguata compensazione” quella che include il rimborso delle perdite economiche subite tra il licenziamento e la decisione del ricorso, nonché la possibilità di reintegrazione e una compensazione economica «di livello sufficientemente elevato da assicurare la reintegra del danno e dissuadere il datore di lavoro dal reiterare l’illecito». Il diritto dell’Unione, ancora ad avviso del Giudice, «non può, inoltre, ritenersi compatibile con un sistema di tutela dei licenziamenti che, in presenza di situazioni non differenziate, determini una difformità di trattamento, dato che un duplice modello sanzionatorio confliggerebbe con il principio di parità di trattamento. L’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione statuisce che “tutte le persone sono uguali davanti alla legge”» intendendosi per “legge” il complesso di norme che caratterizzano il sistema normativo dell’Unione.

Il principio in questione deve, quindi – secondo il Giudice – trovare piena applicazione con riferimento ai licenziamenti collettivi: «i lavoratori che prestano attività in forza di identiche tipologie contrattuali vengono sottoposti allo stesso tempo ad una procedura selettiva nella quale rilevano professionalità omogenee e criteri oggettivi selettivi che trovano applicazione nella medesima azienda in una stessa frazione temporale. La diversa data di assunzione non può avere alcuna rilevanza ai fini di giustificare una tutela difforme ma concorrente». Concludendo che: «una differenziazione normativa del regime di tutela basata sul solo fattore “tempo”, rappresentato dalla data di assunzione, in realtà costituisce un elemento oggettivamente discriminatorio indiretto».

Tutto ciò considerato, il Giudice ha ritenuto di chiedere alla Corte di Giustizia europea di pronunciarsi per valutare tre aspetti: a) se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella legislazione europea «ostino alle previsioni normative» del Jobs Act, che «con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela» a seconda della data del contratto o della conversione da tempo determinato a tempo indeterminato; b) e se «le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella del decreto attuativo del cd. Jobs act, secondo cui non è possibile la reintegra per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015 e c’è, invece, per loro un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente che introduce il solo rimedio indennitario».

Argomentazioni non molto dissimili da quelle dell’ordinanza del Tribunale di Roma, con la differenza che, stavolta, sono state rivolte alla Corte europea di giustizia, con il richiamo alla normativa di fonte sovranazionale,  per la cui accettazione (o rigetto) si resta in attesa della sentenza prossima ventura.

4 c) Il rinvio sia alla Corte costituzionale sia alla Corte europea di giustizia da parte della Corte d’appello di Napoli 27/11/2019

Il più recente rinvio – sia alla Corte costituzionale sia alla Corte europea di giustizia – per il vaglio di costituzionalità del d.lgs. n. 23/2015, risulta essere stato effettuato dalla Corte d’appello di Napoli, in data 27 novembre 2019 ([2]).

La fattispecie che ha determinato il rinvio scaturisce dall’esame di un licenziamento collettivo in cui una lavoratrice risultava tutelata in forma minore rispetto ai “colleghi” (anch’essi licenziati), i quali, in ragione della data di assunzione (antecedente al 7 marzo 2015), potevano rivendicare la reintegra nel posto di lavoro, mentre la donna poteva aspirare esclusivamente a una modesta tutela indennitaria, compresa tra 4 e 24 mensilità, in ragione della ridotta anzianità aziendale.

Nella prima ordinanza, destinata alla Corte costituzionale, il giudice ribadisce le critiche al sistema del Jobs Act  evidenziando una diversità della fattispecie rispetto a quella già decisa (in senso negativo) dalla Corte Costituzionale con la sentenza 194/18, che riguardava un licenziamento individuale.

Nella seconda ordinanza, sollevata innanzi alla Corte di giustizia, la Corte d’appello di Napoli sottopone nuovamente a critica il Jobs Act sulla base dei parametri della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (Cdfue), già Carta di Nizza. Le disposizioni rienute violate sarebbero l’articolo 20 (parità di trattamento), l’art. 21 (non discriminazione), l’art. 30 (tutela avverso i licenziamenti), l’art. 34 (tutela all’accesso a sistemi di previdenza) e l’articolo 47 (diritto a un rimedio efficace). La Corte d’appello addebita, altresì, al legislatore del Jobs act l’eccesso di delega. A tal fine la Corte, valorizzando i pareri consultivi negativi sulla estensione ai licenziamenti collettivi della disciplina del Jobs act – manifestati dai due rami del Parlamento in occasione della presentazione dello schema del decreto legislativo – perviene, attraverso un’articolata motivazione, alla conclusione di un eccesso di delega per violazione dell’art. 76 Cost.

La Corte d’appello manifesta, nella motivazione, la piena consapevolezza di porsi in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale 194/18 che – con riferimento al licenziamento individuale – aveva ridotto le decisioni del Comitato Europeo ad una mera “opinione autorevole ma non vincolante” in tal modo svincolando i giudici dal ritenere necessaria una tutela piena. Infine, nell’ordinanza di rimessione, la Corte ricorda più volte la giurisprudenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, anche al fine di evidenziare il principio per il quale – in caso di periodi di crisi economica – le deroghe ai diritti fondamentali devono essere limitate all’essenziale, al fine di evitare che determinino un peggioramento delle condizioni di soggetti deboli che maggiormente subiscono gli effetti della crisi.

Così riassunti sommariamente i termini del ricorso, anche per tale rinvio si resta in attesa delle relative decisioni sia da parte della Consulta sia da parte della Corte europea di giustizia, senza, tuttavia astenerci dall’esprimere l’opinione per cui – a nostro avviso –  il ripristino e l’estensione uniforme e generalizzata dell’art. 18 (vecchio testo) a tutta la compagine dei lavoratori, senza distinzione temporale alcuna – auspicato dai lavoratori e dalle forze sociali che ne rappresentano  e tutelano i loro interessi – non potrà mai discendere in toto per via giudiziaria (nella migliore delle ipotesi solo parzialmente e per taluni profili), ma  solo per effetto di una modifica legislativa ad hoc, di cui nessuna delle odierne forze politiche, allo stato, sembra disponibile a farsi promotrice, con apprezzabili chances di successo.

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Note

[1]  2 mensilità  per ogni anno di anzianità con un minimo di  4 e un massimo di 24, elevate a 6 e 36 dall’art. 3 del D.L. n. 87/2018, cd. “decreto dignità”.

[2] Quale riassunta, in mancanza di una diffusione del testo, dalla rivista “Rassegna sindacale”, al link: https://www.rassegna.it/articoli/licenziamenti-la-corte-di-appello-di-napoli-boccia-il-jobs-act .

 

 

 

Meucci Mario

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