Giudizio di ottemperanza (Cons. Stato n. 848/2013)

Redazione 12/02/13
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FATTO

Con ricorso proposto dinanzi a questo Consesso l’avv. *************, rappresentata da se stessa, appellava la sentenza 13 settembre 2000 n.1925 del Tar Toscana, sezione terza, con cui era stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il suo ricorso diretto all’annullamento dell’ordinanza 10 maggio 1991 n.131 con cui il Sindaco di Orbetello aveva ordinato la demolizione di opere edilizie realizzate in assenza di concessione e degli atti connessi, nonché era stato respinto altro ricorso, al primo riunito, avente ad oggetto il diniego di sanatoria 1 giugno 1999 n.1 per omesso versamento in termini delle somme dovute, ingiunzione di demolizione del fabbricato ad uso abitativo e ingiunzione di rimessa in pristino dello stato dei luoghi.

Il giudice di appello lo accoglieva motivando in base alla considerazione che il Comune di Orbetello, con nota raccomandata del 12 febbraio 1998, aveva segnalato all’interessato di dover effettuare i dovuti versamenti, con l’avvertenza però che avrebbe agito in esecuzione, in caso di inadempienza e cioè mancato integrale pagamento con interessi, senza indicare che ciò avrebbe comportato non già o non solo la riscossione coattiva, ma la preclusione del rilascio della concessione in sanatoria e che la effettuazione del pagamento sarebbe stata utile solo ai fini della estinzione del reato. Cioè, secondo la Sezione, “la lettera ingenerava la convinzione che non fosse in pericolo lo stesso condono”. D’altronde, il pagamento è stato effettuato nei termini assegnati nel caso concreto e ciò è ammesso dallo stesso Comune.

Pertanto, concludeva la sentenza su menzionata nel senso dell’annullamento del diniego impugnato (ricorso di primo grado n. 2624 del 1999) e delle successive ordinanze di demolizione.

La sentenza (n. 4584/2009) veniva notificata al Comune di Orbetello in data 8 agosto 2009 e una seconda volta in data 22 ottobre 2010.

In data 8 novembre 2010 il Comune notificava una revoca-annullamento del diniego di sanatoria, ma non provvedeva alla concessione del condono e anzi, con sollecito del 5 ottobre 2010 (cioè precedente) il Comune di Orbetello sosteneva che la sentenza (il dispositivo) non ingiungeva allo stesso ente in assoluto il rilascio della concessione in sanatoria inerente la pratica di condono n.1877 del 1994, ma la pratica edilizia ritornava in corso di definizione dall’inizio del suo iter.

In data 17 giugno 2011 il Comune, restando inottemperante, inviava nuova richiesta di documentazione pretendendo circa 35 mila euro, avvisando che in mancanza non avrebbe concesso il condono e ignorando sia i pagamenti fatti prima (per circa venti milioni) sia che il condono era stato completato già nell’anno 1998.

La ricorrente con nota del 27 giugno 2011 scriveva al Comune ricordando che la sua pratica era da ritenersi perfezionata; con nota n.27006 il Comune rispondeva che la domanda sarebbe stata dichiarata improcedibile in caso di inadempimento nei termini di quanto richiesto, presentando ulteriori conteggi, da cui non si evincevano i pagamenti effettuati.

Avverso tale ultimo atto veniva quindi proposto ricorso innanzi al Tar.

Veniva quindi notificato al Comune ulteriore atto di diffida e messa in mora per l’adempimento della sentenza di questo Consesso.

Con il ricorso per ottemperanza, si chiede: condanna al pagamento della somma forfettaria di euro 150.000,00 a titolo di rivalutazione e interessi, nonché si chiedono i danni e gli interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza; si chiedono chiarimenti sulla esecuzione; si propone azione di risarcimento; si chiede il pagamento degli interessi maturati sui versamenti effettuati negli anni dal 1993 al 1998; si chiede il risarcimento del danno subito dalla ricorrente per il mancato utile di cui non ha ottenuto il condono dal 1998 ad oggi, come per la mancata locazione, la mancata alienazione, il mancato godimento; si chiedono danni professionali, danni alla salute (avendo tale vertenza contribuito alla patologia manifestatasi nel giugno 2006); chiede eventualmente nomina di commissario ad acta.

Si è costituito il Comune deducendo l’inammissibilità poiché, alla luce della sentenza n.4585 del 2009 di questo Consesso, ogni atto adottato dal Comune non può che essere impugnato in sede di legittimità, tanto che la ricorrente ha proposto ricorso al Tar Toscana (in data 18 luglio 2011).

Nel merito, deduce che, a suo avviso, la riattivazione della pratica richiede la espressione di nuovi pareri paesaggistico ambientali, perché i precedenti sono anteriori di oltre cinque anni; fa presente che, poiché per la pratica edilizia n.1877 del 1994 risultavano mancanti le ricevute dei versamenti (almeno due versamenti del 1994 e del 1995), l’Ufficio aveva quantificato le somme con riferimento ai parametri vigenti, chiedendo i conguagli.

Il Comune, a seguito dei chiarimenti forniti dall’avv. ******* e dal suo tecnico architetto *******, avendo ricevuto copia delle ricevute dei pagamenti, ha chiesto con nota del 5 agosto 2011 n.32026, prendendo atto dei versamenti effettuati a titolo di oblazione e oneri concessori, solo i diritti di bollo e di segreteria; con nota del 30 agosto 2011 pervenuta in data 5 settembre 2011 la signora ******* ha dato seguito alla richiesta.

Il Comune, in data 15 settembre 2011, n.3 del 2011, ribadendo che nella pratica di condono edilizio, fino alla data del 1 agosto 2011 non risultavano presenti in alcun modo le attestazioni dei versamenti degli oneri concessori e del conguaglio dell’oblazione, prodotti solo in data 22 luglio 2011, rilasciava finalmente la concessione in sanatoria.

Alla camera di consiglio del 22 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione; in tale sede l’avvocato di parte ricorrente ha fatto presente che è venuta meno la materia del contendere; è intervenuto anche il difensore del Comune, fatto facendo anch’egli presente la cessazione della materia del contendere e depositando l’intervenuta sentenza in tal senso del Tar Toscana n.1123 del 2012, depositata in data 12 giugno 2012.

DIRITTO

1.In primo luogo va rigettata l’eccezione preliminare di inammissibilità.

E’ vero che avverso l’atto ritenuto elusivo o violativo del giudicato, come tale affetto da nullità, la ricorrente ha proposto ricorso per l’annullamento o la declaratoria di nullità dinanzi al giudice amministrativo di primo grado; è vero però che il sistema consente di perseguire la c.d. doppia tutela, agendo anche innanzi al giudice della ottemperanza, laddove si agisca non già per verificare la legittimità o meno dell’attività amministrativa di riemanazione susseguente al giudicato ottemperando – tutela, questa, accordata solo nell’ordinaria sede di cognizione -, bensì per accertare se la p.a. soccombente abbia o no esattamente eseguito il giudicato stesso e, in particolare, se emani atti elusivi di quest’ultimo e, come tali, non satisfattivi dell’interesse in concreto azionato (così Consiglio Stato sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2669).

2.Il ricorso per la esecuzione si pone (rectius, si poneva) come fondato.

In materia di ottemperanza, come dimostra il caso di specie, non è sufficiente rivalersi al dispositivo, ma anzi il decisum da eseguire, cui l’autorità ha obbligo di conformarsi, si evince soltanto dal combinato disposto del dispositivo e della parte motiva della sentenza.

Si è per esempio affermato che in tema di ottemperanza l’obbligo conformativo non può essere desunto immediatamente e direttamente dal dispositivo della decisione, soprattutto se la formula adoperata non consente di desumere effetti ulteriori rispetto all’autoesecutività derivante dalla pronuncia costitutiva di annullamento; pertanto, va ritenuta l’intempestività ed improduttività di effetti della diffida notificata sulla sola base del dispositivo e l’inammissibilità del giudizio di ottemperanza promosso su tale presupposto, non suscettibile di sanatoria per effetto della successiva pubblicazione della motivazione della decisione, non potendo negarsi, al soggetto tenuto a conformarsi ad essa, gli spazi deliberativi di titolarità, che costituiscono l’elemento diversificante del giudizio di ottemperanza rispetto all’azione esecutiva di diritto comune di titolarità dell’a.g.o. (Consiglio Stato sez. V, 28 novembre 2005, n. 6626).

Nella specie, il giudice di appello ha chiaramente affermato che: 1) non era messo in discussione il condono (“la lettera ingenerava la convinzione che non fosse in pericolo lo stesso condono”); 2) non vi era stato avviso che il mancato pagamento avrebbe comportato (anche) la preclusione del rilascio della concessione in sanatoria; 3) nel caso concreto il pagamento è stato effettuato nei termini assegnati.

Dalla motivazione, pertanto, si deve evincere non solo che l’avvenuto pagamento imponeva al Comune il rilascio della sanatoria, ma anche che – anche per l’ipotesi di inadempimento o ritardo – il Comune aveva in sostanza già implicitamente (omettendo di avvisare degli effetti negativi) acconsentito alla valutazione positiva del condono chiesto. Conseguentemente, l’annullamento del diniego impugnato non poteva che comportare, in ottemperanza, il successivo rilascio formale, sulla base della pratica già in sostanza definita a livello procedimentale. Né poteva avere senso la richiesta della prova di ulteriori dimostrazioni degli avvenuti pagamenti, nei limiti in cui l’avvenuto integrale pagamento nei termini prescritti sia stato acclarato da una pronuncia giurisdizionale.

La parte motiva della sentenza in sostanza acclara che deve ritenersi definito procedimento di condono in senso favorevole anche perché i pagamenti sono stati completati da parte dell’istante.

In tal senso il rilascio della concessione era la via obbligata da parte del Comune, che non doveva reiniziare il procedimento, né chiedere prova dei precedenti versamenti, né tantomeno pretendere ulteriori versamenti, dimenticando i precedenti.

Se pertanto, in generale, la mancata produzione dei documenti in tema di richiesta di sanatoria può giustificare, nell’ambito dei rapporti tra cittadino e amministrazione, come prevedono le leggi in materia, una comminatoria di declaratoria di improcedibilità della pratica, per i motivi evidenziati ciò non poteva avvenire nella specie, poichè la sentenza si basava proprio sulla effettuazione completa e non contestata dei pagamenti di quanto dovuto.

3. Fermo quanto sopra in via di principio, in fatto, in ogni caso, il Collegio rileva e dichiara l’improcedibilità del ricorso per ottemperanza, su cui in realtà convergono entrambe le parti e ciò è stato altresì acclarato dalla sentenza del Tar sopra menzionata (in realtà sull’atto del Comune del 5 agosto 2011, che comunica all’avv. ******* che non doveva più produrre la attestazioni prima richieste), in quanto il rilascio della concessione in sanatoria è stato effettuato in data 15 settembre 2011 (n.3 del 2011) del Comune, come deduce l’amministrazione resistente, facendo presente che la prova documentale era stata depositata in ritardo (in data 22 luglio 2011) dalla ricorrente.

Pertanto, in ordine al primo capo di domanda deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere e quindi la parziale improcedibilità.

4.Con il ricorso per ottemperanza la ricorrente agisce anche, sia pure in modo estremamente generico, per i danni e accessori (rivalutazione e interessi) sofferti a causa della vicenda.

Il Collegio osserva che, in sede di ottemperanza, in generale, non può essere azionato e riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato, non potendo essere neppure proposte domande che non siano contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire, con eccezione per l’azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché per l’azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione (così Consiglio di Stato sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2830).

Inoltre, è vero che nel giudizio di ottemperanza sono proponibili (rectius, erano proponibili) due diverse domande risarcitorie, rispettivamente ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 112 c.p.a..

Possono essere, infatti, chiesti i danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato (art. 112 comma 3, c.p.a.) e può (poteva, prima della soppressione ad opera del d.lgs.195 del 2011) essere proposta la domanda risarcitoria di cui all’art. 30 comma 5, c.p.a., ossia la domanda di risarcimento del danno derivante dal provvedimento illegittimo (art. 112 comma 4, c.p.a.), vigente all’epoca della proposizione del ricorso in ottemperanza.

Questa seconda domanda, tuttavia, deve rispettare il doppio grado di giudizio, e non può pertanto essere proposta per la prima volta nel giudizio di ottemperanza che si svolge dinanzi al Consiglio di Stato (così già Consiglio di Stato sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501).

Il Collegio osserva però, che al di là dei profili di ammissibilità delle voci di danno come prospettate, ogni pretesa risarcitoria attivata è da rigettarsi in quanto infondata e ai limiti della genericità.

In tema di responsabilità della Pubblica amministrazione da ritardo o da attività provvedimentale lesiva di interessi legittimi pretensivi il ricorrente ha l’onere di provare, secondo i principi generali, la sussistenza e l’ammontare dei danni dedotti in giudizio.

La limitazione dell’onere della prova gravante sulla parte che agisce in giudizio, che caratterizza il processo amministrativo, si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti di consueto connotante il rapporto amministrativo di natura pubblicistica intercorrente tra la parte privata e la p.a., mentre l’esigenza di un’attenuazione dell’onere probatorio a carico della parte ricorrente viene meno con riguardo alla prova dell’an e del quantum dei danni azionati in via risarcitoria, inerendo in siffatte ipotesi i fatti oggetto di prova alla sfera soggettiva della parte che si assume lesa (soprattutto qualora questa agisca per il risarcimento dei danni non patrimoniali), e trovandosi le relative fonti di prova normalmente nella sfera di disponibilità dello stesso soggetto leso.

Di conseguenza, in applicazione del c.d. criterio della vicinanza della prova e del principio pienamente dispositivo, costituente principio regolatore della disciplina della distribuzione dell’onere della prova tra le parti processuali, grava dunque sulla parte ricorrente l’onere di dimostrare la sussistenza e l’ammontare dei danni non patrimoniali azionati in giudizio.

Va respinta quindi la domanda di risarcimento del danno presentata in modo del tutto generico senza il minimo principio di prova (così Consiglio Stato sez. VI, 29 settembre 2009, n. 5864).

È inammissibile e comunque infondata la domanda risarcitoria formulata in maniera del tutto generica senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi. Quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito.

Nella specie, tra l’altro, non solo le voci di danno sono generiche e asserite senza alcuna prova, ma anche il nesso di causalità come indicato pecca di eccessiva genericità in relazione alla considerazione che il giudice deve avere del normale accadimento dei fatti, quel che si definisce l’id quod plerumque accidit, essendo evidente la possibilità che siano state sostenute spese per la vicenda amministrativa e giudiziale, compensate però dalla liquidazione di spese legali e dovendo ritenersi non provata e non dimostrata, oltre che difficilmente dimostrabile, la caduta in grave malattia a causa della su descritta vicenda di diniego di rilascio del condono in sanatoria.

5.Per le considerazioni sopra svolte, il ricorso va dichiarato in parte improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere e in parte va rigettato in quanto infondato.

In virtù del principio della soccombenza, avendo il Comune ottemperato soltanto successivamente alla introduzione dell’azione di ottemperanza, andrebbe condannato il Comune resistente al pagamento delle spese della presente fase di giudizio; tuttavia, la infondatezza della domanda risarcitoria induce a compensare integralmente le spese di tale fase di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso in ottemperanza indicato in epigrafe, così provvede:

dichiara il ricorso in parte improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere; in parte lo rigetta perché infondato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 gennaio 2013

Redazione