Discriminazione fondata sulla disabilità – Atto discriminatorio – Risarcimento del danno – Reazione spontanea ed adeguata della società civile – Esclusione del danno – Sussiste (Trib. Catanzaro, 15/1/2013) (inviata dal Dott. G. Buffone)

Redazione 15/01/13
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L’azione a tutela delle persone con disabilità ha principalmente lo scopo di porre rimedio ad un’obiettiva situazione discriminatoria in cui l’intervento del giudice sia necessario a rimuovere non soltanto gli effetti pregiudizievoli di una condotta ma la condotta stessa, laddove il ravvedimento dell’agente o altri fenomeni non siano sufficienti a realizzare questo risultato. L’ampia nozione di discriminazione disegnata dal legislatore consente di comprendere al suo interno anche l’attività di colui il quale istighi taluno a discriminare una persona, tenendo un contegno di fatto adeguato a privare il discriminato dalla possibilità di esercitare una determinata facoltà. Tuttavia, la previsione del risarcimento alla domanda di parte (se richiesto) esclude in subiecta materia ogni automatismo, legando invariabilmente la domanda risarcitoria all’accertamento di un’effettiva discriminazione. Ebbene, dove, immediatamente dopo l’atto discriminatorio, si registrino reazioni adeguate e spontanee messe in atto dalla società civile per opporsi e rimediare con i propri strumenti ad una condotta innanzitutto riprovevole dal punto di vista morale, prima che giuridico, non può ritenersi perpetrato il danno su indicato (Nel caso di specie, il comportamento discriminatorio portato all’esame giudicante aveva ad oggetto le dichiarazioni rese  dalla dirigente scolastica alla presenza dei compagni di classe di un minore con sindrome di Down, ai quali il dirigente aveva intimato di non avvertire in futuro il ragazzo circa le iniziative didattiche da tenersi fuori dalla scuola poiché lo stesso non avrebbe tratto alcun beneficio. I compagni di classe aveva scritto una lettera di protesta e la Dirigente era stata sospesa dal Servizio). (****************)

 

 

Fatto e diritto

F. e S., in qualità di esercenti la potestà genitoriale sul minore M, proponevano, con atto depositato in Cancelleria il 11 agosto 2011, ricorso ex art. 3 della legge n. 67 del 2006 e art. 44 Dlgs 286/1998 per ottenere l’accertamento della condotta discriminatoria asseritamente tenuta da A, dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “..” di Catanzaro, nei confronti del minore M., scolaro affetto da sindrome di Down, portatore di handicap ai sensi dell’art. 3 della legge 104/1992.

I ricorrenti, in particolare, censuravano il comportamento della dirigente in parola la quale nel mese di gennaio 2011 avrebbe tentato di non far partecipare M alle uscite didattiche programmate dalla scuola di frequenza attraverso un odioso escamotage: si sarebbe in sostanza rivolta alle insegnanti e ai compagni di classe di M, approfittando di un momento (protratto con la complicità di un collaboratore scolastico) di cui il ragazzo non era in classe, annunciando prima di non aver intenzione di autorizzare M a partecipare a dette uscite e subito dopo intimando agli ascoltatori di non avvertire più in futuro M delle attività esterne programmate, pena l’annullamento o la mancata previsione di altre future iniziative. Le motivazioni addotte dalla convenuta in quella sede sarebbero state motivate dall’incapacità di M di trarre beneficio, intellettuale e fisico, da dette ‘uscite’, a causa della condizione di disabilità di quest’ultimo.

Tuttavia i propositi della convenuta non si erano attuati poiché i compagni di classe di M, indignati per la richiesta e solidali con il loro amico, avevano manifestato pubblicamente, con una lettera indirizzata a quest’ultimo, il loro pieno dissenso nei confronti della proposta della dirigente rinunciando a fare futuri viaggi d’istruzione pur di non lasciare ‘solo’ M.

Il fatto aveva avuto in poco tempo una notevolissima risonanza mediatica, sull’onda della pubblicazione della lettera su importanti quotidiani nazionali e approfondimenti televisivi, ed era stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, fino a che, a seguito di una visita ispettiva disposta presso l’Istituto Didattico che aveva accertato la realizzazione da parte di A di una condotta non uniformata a principi di correttezza e di un comportamento lesivo della dignità della persona, nocivo all’immagine della scuola e dell’amministrazione, anche in virtù dell’impatto mediatico del caso, il Ministero dell’Istruzione, con la sua articolazione territoriale, nella persona del Direttore Generale dell’****** Calabria, disponeva la sospensione disciplinare della dirigente scolatica dal servizio per tre mesi, e consequenziale interruzione del trattamento economico.

Ricostruite le origini della tutela giurisdizionale italiana in materia di discriminazione nonché del diritto all’istruzione degli studenti disabili, i ricorrenti, sul presupposto dell’univoco accertamento dell’effettività della condotta lesiva, proseguivano col richiedere la condanna della dirigente al risarcimento del danno non patrimoniale in una misura tale da aver funzione affittiva e dissuasiva di futuri comportamenti discriminatori, richiamando l’orientamento costituzionale, esplicativo di disposizioni comunitarie di inequivoco tenore, e qualificando la fattispecie in esame sotto la categoria del danno da ‘ritorsione’ di cui all’art. 4 del d.lgs. 215/03, attuativo della direttiva europea n. 2000/43/CE, poiché la dirigente avrebbe deciso di cercare la complicità dei docenti e dei compagni di classe di M dopo che la madre di questi era riuscita, sollecitando l’intervento della forza pubblica, a far partecipare M ad altra uscita d’istruzione. Rilevavano, quindi, la sussistenza dei presupposti per l’emanazione di un provvedimento cautelare, il cui fumus era da ricercarsi negli stessi motivi di ricorso, e individuata la ricorrenza di un pregiudizio grave e irreparabile, identificato nella lesione del diritto all’istruzione dello studente disabile. In particolare, il fatto stesso che M fosse ancora alunno della scuola, teatro delle denunciate vicende, diretta da A, la cui sola presenza avrebbe sottoposto il ragazzo al rischio concreto di non ottenere risultati scolatici nonché educativi soddisfacenti.

Fissata l’udienza di comparizione delle parti e concessi i temini per la notificazione ai convenuti, il processo proseguiva attraverso la costituzione di questi ultimi e la chiamata in causa dell’Assicurazione Unipol, che avrebbe dovuto garantire la dirigente dagli eventuali pregiudizi derivanti da una condanna per responsabilità civile.

Rigettata preliminarmente la domanda di garanzia nei confronti del terzo chiamato con decisione non definitiva in ragione della operatività della polizza limitatamente ai danni involontariamente cagionati a terzi, il processo proseguiva attraverso il libero interrogatorio di uno dei ricorrenti e della convenuta e l’acquisizione della documentazione relativa al procedimento disciplinare svoltosi nei confronti di A. Al termine dell’istruttoria documentale il Giudice, ritenuta la causa matura per la decisione, invitava le parti a discutere e tratteneva la causa in decisione.

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La tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni è prevista negli artt. 2 [1] e 3 [2] della legge n° 67 del 2006 e il procedimento giurisdizionale è ratione temporis quello previsto dall’art. 44 [3], commi da 1 a 6 e 8 del di cui al  decreto  legislativo  25 luglio 1998, n. 2, testo unico in materia di immigrazione, poiché il presente procedimento è stato introdotto prima dell’entrata in vigore del Decreto legislativo 150/2011 che ha assoggettato il procedimento de quo al rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c..

Occorre rilevare che, alla stregua delle norme citate, al Tribunale è richiesta una valutazione della sussistenza dei presupposti della condotta discriminatoria e la ricerca delle soluzioni tese a eliminare gli effetti lesivi del comportamento attraverso un provvedimento di natura eminentemente cautelare.

La regolamentazione sopra descritta è volta, fondamentalmente, all’eliminazione di ogni atteggiamento discriminatorio del quale i disabili possono essere vittime proprio in conseguenza del loro status.

Per “discriminazione sulla base della disabilità” deve intendersi qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità dell’individuo, che abbia lo scopo, oppure l’effetto, di pregiudicare o annullare il riconoscimento, godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile, sulla base dell’uguaglianza con le altre persone.

Essa include anche il rifiuto di quelle modifiche ed adattamenti che si ritengono necessari in virtù della condizione di disabilità che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo, affinché si possano assicurare al disabile il godimento e l’esercizio dei propri diritti.

Ai disabili secondo lo spirito della legge, dunque, deve essere garantito un trattamento paritario nell’interrelazione con gli altri soggetti della società civile e per questo motivo il legislazione si è spinto sino al punto di dettare con precisione ed elasticità i criteri per la individuazione delle condotte discriminatorie.

Il principio di parità di trattamento dei disabili si applica indistintamente a tutte le persone, sia nel settore privato che pubblico, con specifico riferimento ai criteri di accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; all’occupazione e condizioni lavorative, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento; all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento, formazione e tirocini professionali; alla protezione e sicurezza sociale; assistenza sanitaria e prestazioni sociali; istruzione e accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.

Non v’è dubbio, pertanto, che sussista la legittimazione attiva dei ricorrenti in qualità di rappresentanti legali del minore M, affetto da sindrome di Down, a ricorrere al tribunale per garantire al figlio disabile l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito all’istruzione laddove lo stesso sia impedito o minacciato dalla condotta discriminatoria posta eventualmente in essere dal dirigente scolastico di un istituto di istruzione al quale il minore sia iscritto.

Nel caso di specie, il comportamento discriminatorio portato all’esame di questo giudicante sarebbe da ricercare nelle dichiarazioni rese da A in data 20 gennaio 2011 alla presenza dei compagni di classe di M, ai quali il dirigente avrebbe intimato di non avvertire in futuro il ragazzo circa le iniziative didattiche da tenersi fuori dalla scuola poiché lo stesso non avrebbe tratto alcun beneficio.

Ritiene innanzitutto questo giudicante, che prima ancora di spingersi ad accertare l’effettività della condotta, è necessario vagliare i profili di ammissibilità dell’azione, sulla base della mera prospettazione dei fatti offerta dai ricorrenti.

Deve allora dirsi che la dichiarazione in sé, in quanto rivolta a terzi per condizionarne il futuro comportamento, avrebbe potuto rivelarsi astrattamente idonea a costituire un atto discriminatorio.

Infatti, l’ampia nozione di discriminazione disegnata dal legislatore consente di comprendere al suo interno anche l’attività di colui il quale istighi taluno a discriminare una persona, tenendo un contegno di fatto adeguato a privare il discriminato dalla possibilità di esercitare una determinata facoltà.

Nel caso che ci occupa, qualora i compagni di classe di M, discenti soggetti al potere disciplinare del dirigente, avessero attuato il ‘suggerimento’ della convenuta, tacendo al compagno la programmazione di gite didattiche, avrebbero, se non impedito, reso quantomeno più difficile, alla vittima della discriminazione, la partecipazione a detti eventi.

Avrebbe potuto, in particolare, verificarsi una forma di discriminazione diretta consistente nel predisporre per il disabile un trattamento differenziato proprio in ragione della disabilità giacchè il ragazzo sarebbe stato di fatto escluso dalla partecipazione alle gite in quanto non in grado di apprezzarne gli effetti educativi e posto in una condizione di isolamento rispetto agli altri compagni, non toccati da una simile previsione.

Non può tuttavia sfuggire al lettore del presente provvedimento, nelle frasi precedenti il doveroso utilizzo da parte della scrivente del modo condizionale futuro per quanto attiene la descrizione degli effetti della condotta tenuta dal dirigente scolastico.

E’, infatti, opportuno notare come le parole della convenuta, senz’altro gravi e astrattamente lesive della dignità dello scolaro, sono tuttavia rimaste, quanto agli effetti, ad uno stadio meramente embrionale non trovando nella realtà alcuna concretizzazione. Mutuando un’espressione di matrice penalistica potrebbe dirsi che il comportamento della dirigente scolastica ha realizzato un mero ‘tentativo’ di discriminazione, non estrinsecatosi in un’effettiva lesione della sfera giuridica del disabile, con riferimento all’esercizio del diritto a essere istruito, leso tutt’al più nella propria dignità, risarcibile di per sé con il ricorso agli ordinari strumenti di cognizione.

L’azione a tutela delle persone con disabilità, qui azionata, ha, infatti, principalmente lo scopo di porre rimedio ad un’obiettiva situazione discriminatoria in cui l’intervento del giudice sia necessario a rimuovere non soltanto gli effetti pregiudizievoli di una condotta ma la condotta stessa, laddove il ravvedimento dell’agente o altri fenomeni non siano sufficienti a realizzare questo risultato.

Dalla lettura dell’art. 3 della legge 67 del 2006 può, infatti, evincersi come l’oggetto centrale dei provvedimenti richiedibili al giudice consista, infatti, nell’ordine rivolto al soggetto agente di cessare la condotta pregiudizievole o rimuovere l’atto discriminatorio ove questi siano sussistenti e disporre il risarcimento del danno verificatosi in conseguenza della condotta lesiva.

Lo stesso utilizzo da parte del legislatore del rito cautelare uniforme, con l’eliminazione di formalità non essenziali al giudizio, induce a ritenere che l’accertamento giudiziale debba possedere i connotati della contingibilità e dell’urgenza, ponendosi come rimedio necessario ed utile a eliminare la situazione pregiudizievole.

Facendo un esempio a contrario, laddove effettivamente discenti e corpo docente avessero omertosamente recepito le indicazioni del dirigente scolastico, nascondendo a ****** (e per completezza anche ai genitori di costui) le successive programmazioni extrascolastiche, il provvedimento giurisdizionale sarebbe stato utilmente emesso sancendo eventualmente l’obbligo, sanzionabile penalmente, del soggetto preposto di comunicare formalmente la programmazione di viaggi d’istruzione, condannando l’istigatore della condotta discriminatoria a risarcire il danno subito dalla vittima per la mancata partecipazione alla gita scolastica.

Non è un caso, infatti, che il legislatore nella formulazione dell’art. 3 della legge 67 del 2006 utilizzando l’avverbio oltre abbia escluso la possibilità per il giudice di condannare l’autore della condotta al risarcimento in mancanza di un ordine di cessare il comportamento, la condotta o l’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e senza l’adozione di ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, poiché se avesse voluto un effetto simile si sarebbe limitato a disporre il potere giudice di condannare in ogni caso al risarcimento.

Inoltre, la previsione del risarcimento alla domanda di parte (se richiesto) esclude in subiecta materia ogni automatismo, legando invariabilmente la domanda risarcitoria all’accertamento di un’effettiva discriminazione.

E’ il caso a questo punto di notare, come sia confermato in questa occasione il principio della residualità della giurisdizione, il cui intervento non appare necessario quando le situazioni controverse trovino una spontanea soluzione prima di approdare in tribunale.

Come sopra ricordato, infatti, il caso qui esaminato è stato caratterizzato dall’idonea reazione della società e delle istituzioni prima ancora di evocare un intervento giurisdizionale giacchè le dichiarazioni della dirigente non solo non sono state recepite, né tantomeno seguite, dai compagni di classe di M ma la coscienza sociale di alcuni fra i soggetti coinvolti nella vicenda ha consentito, sfruttando l’effetto amplificato dei mass media, di consegnare al fatto un rilievo molto più ampio di quello originariamente immaginabile.

La redazione prima e la pubblicazione poi della lettera dei compagni di classe di M su quotidiani a tiratura nazionale e l’iniziativa disciplinare assunta dagli organi amministrativi hanno rappresentato, infatti, reazioni adeguate e spontanee messe in atto dalla società civile per opporsi e rimediare con i propri strumenti ad una condotta innanzitutto riprovevole dal punto di vista morale, prima che giuridico.

Ciò significa che al momento in cui questo procedimento fu incardinato la condotta potenzialmente discriminatoria non aveva trovato alcuno spazio di attuazione: non soltanto poteva dirsi non più sussistente ma non potevano rinvenirsi effetti sfavorevoli da rimuovere.

Prova ulteriore di quanto asserito ne sia l’esito dell’interrogatorio libero condotto nei confronti delle parti in causa, per cui nelle parole della genitrice del minore si è palesata una situazione di disagio della stessa nei confronti della direttrice dell’istituto ma evidentemente generata dalla proposizione del ricorso introduttivo (cfr. il riferimento all’avere una coscienza) finalizzato ad ottenere principalmente un risarcimento e non la rimozione della condotta pregiudizievole.

Di nessun pregio le considerazioni conclusive dei ricorrenti circa l’efficacia dissuasiva del risarcimento nei confronti della A, la cui presenza in istituto, tenuto conto del ruolo istituzionale nonostante tutto mantenuto, avrebbe potuto di per sé essere di ostacolo alle aspettative educative e d’istruzione del minore: la risonanza mediatica del caso e la sanzione disciplinare irrogata avevano già rappresentato, in via retributiva, adeguate forme di compensazione della condotta contraria ai doveri d’ufficio e sociali tenuta dal dirigente scolatico.

Pertanto, l’insussistenza delle condizioni dell’azione al momento della proposizione della domanda giudiziale impongono una declaratoria di inammissibilità della stessa e, quindi, una pronuncia di rigetto del ricorso.

La natura della causa, le ragioni della decisione e la complessità delle argomentazioni trattate giustificano la compensazione delle spese di lte.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Catanzaro, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta:

–         Dichiara inammissibile in ricorso;

–         Compensa le spese.

Catanzaro, li 15 gennaio 2012

Il Giudice

dott.ssa ************ lorenzo 

 


[1] Il  principio  di  parita’  di  trattamento comporta che non può essere  praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità. 2. Si ha  discriminazione  diretta quando, per motivi connessi alla disabilità,  una  persona  è trattata meno favorevolmente di quanto sia,  sia  stata  o  sarebbe  trattata  una  persona  non disabile in situazione analoga. 3. Si ha discriminazione indiretta quando una  disposizione, un criterio,   una   prassi,  un  atto,  un  patto  o  un  comportamento apparentemente  neutri  mettono  una  persona  con disabilita’ in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone. 4. Sono, altresì, considerati come  discriminazioni  le molestie ovvero  quei  comportamenti  indesiderati, posti in essere per motivi connessi  alla  disabilità, che violano la dignita’ e la liberta’ di una persona con disabilita’, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti.

[2] La tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti di cui all’articolo 2 della presente  legge  e’  attuata  nelle  forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico  delle disposizioni concernenti  la  disciplina  dell’immigrazione  e  norme sulla condizione dello straniero, di cui al  decreto  legislativo  25 luglio 1998, n. 286. 2. Il ricorrente, al fine di dimostrare  la  sussistenza  di  un comportamento  discriminatorio  a  proprio  danno,  può  dedurre  in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e  concordanti, che il giudice valuta nei limiti  di  cui  all’articolo  2729,  primo comma, del codice civile. 3. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento  del  danno,  anche  non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della  condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente,  e  adotta  ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a  rimuovere  gli effetti della discriminazione, compresa l’adozione, entro il  termine fissato nel provvedimento stesso, di  un  piano  di  rimozione  delle discriminazioni accertate. 4. Il giudice puo’ ordinare la pubblicazione del provvedimento di cui al comma 3, a  spese  del  convenuto,  per  una  sola  volta,  su  un quotidiano a tiratura nazionale,  ovvero  su  uno  dei  quotidiani  a maggiore diffusione nel territorio interessato.

[3] Quando il comportamento   di   un    privato   o   della   pubblica amministrazione produce  una discriminazione  per  motivi razziali,  etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su   istanza   di   parte,   ordinare   la  cessazione  del comportamento   pregiudizievole   e   adottare  ogni  altro provvedimento  idoneo,  secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla  parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell’istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale  al  contraddittorio,  procede nel modo che ritiene più opportuno agli   atti di istruzione indispensabili  in  relazione  ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto  della domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte,  ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa,  con  lo  stesso  decreto,  l’udienza  di comparizione delle parti davanti a se’ entro un termine non superiore  a  quindici  giorni,  assegnando  all’istante un termine  non  superiore  a otto giorni per la notificazione del  ricorso e del decreto. A tale udienza, il pretore, con ordinanza, conferma, modifica  o  revoca  i provvedimenti emanati nel decreto.  6.  Contro  i  provvedimenti  del  pretore  é  ammesso reclamo  al  tribunale  nei  termini  di  cui all’art. 739,  secondo   comma,   del   codice  di  procedura  civile.  Si applicano, in  quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. (Omissis). 8. Chiunque elude  l’esecuzione  di provvedimenti del     pretore  di  cui  ai  commi  4  e 5 e dei provvedimenti del tribunale  di  cui  al comma 6 e’ punito ai sensi dell’art. 388, primo comma, del codice penale.

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