La protezione umanitaria nella giurisprudenza più recente

Scarica PDF Stampa
Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia.

Indice:

  1. Alcune considerazioni sulla Cassazione prima sezione civile, ordinanza n. 41692 del 27 dicembre 2021 
  2. Genesi della protezione umanitaria
  3. Cosa dice la giurisprudenza
  4. Conclusioni

 1.Alcune considerazioni sulla Cassazione prima sezione civile, ordinanza n. 41692 del 27 dicembre 2021

Con ordinanza n. 41692 del 27 dicembre 2021, la prima sezione civile della Cassazione è tornata a occuparsi delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza n.1761/2019, depositata in data 31/10/2019, ha respinto il gravame di D. A., cittadino del Gambia, avverso la decisione di primo grado che, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, aveva respinto la richiesta dello straniero di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria o umanitaria.

In particolare, i giudici d’appello, ritenuti non sussistenti i presupposti per disporre l’audizione dell’appellante in ragione della genericità dell’istanza, non avendo il ricorrente indicato fatti specifici su cui essere sentito, hanno sostenuto che la vicenda narrata dal richiedente (aver abbandonato il suo Paese a causa del suo orientamento sessuale considerato reato in Gambia) era non credibile, come già ritenuto in primo grado, e non integrava le condizioni per il riconoscimento delle invocate forme di protezione, non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, anche ex articolo 14 lettera c) decreto legislativo 251/2007, non sussistendo in Gambia una situazione di violenza generalizzata, secondo le fonti consultate (Refworld.org e Viaggiare.Sicuri), o di quella umanitaria, condividendosi sul punto la valutazione espressa dal Tribunale, non potendo l’integrazione sociale costituire l’unico motivo per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (con richiamo alla motivazione del Tribunale che aveva rilevato l’insufficienza di forme di integrazione «blande», quali quelle svolte dal richiedente con attività di volontariato, corsi di lingua, tirocini formativi, presso una carrozzeria), dovendo essere necessaria una violazione o il pericolo di violazione di diritti umani in caso di rimpatrio nel Paese d’origine, nella specie non rinvenibile.

Avverso la suddetta pronuncia, D.A. proponeva ricorso per cassazione, notificato il 26/6/2020, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno; con ordinanza interlocutoria n. 25172/21, la causa era stata rinviata a Nuovo Ruolo in attesa della decisione di questa Corte a Sezioni Unite sulla protezione per ragioni umanitarie. Il PG aveva depositato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del terzo motivo di ricorso.

In argomento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recentemente affermato il principio in base alla normativa del testo unico sull’immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal Decreto Legge 4 ottobre 2018, n. 113, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia.

Le Sezioni Unite (Cassazione SU 24413/2021) si sono nuovamente pronunciate sul tema della protezione umanitaria, alla stregua del testo del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, articolo 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal decreto Legge 4 ottobre 2018, n. 113, e del contenuto della valutazione comparativa affidata al giudice, tra la situazione che, in caso di rimpatrio, il richiedente lascerebbe in Italia e quella che il medesimo troverebbe nel Paese di origine, già condiviso dalle Sezioni Unite, con la precedente sentenza n. 29459/2019.

Si era affermato il seguente principio di diritto: in base alla normativa del Testo Unico Immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legge n. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia.

Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano.

Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia.

Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’articolo 5 Testo Unico cit., per riconoscere il permesso di soggiorno».

Tuttavia, nel presente giudizio, la Corte d’appello, al pari del giudice di primo grado, ha escluso una situazione personale di vulnerabilità soggettiva ed oggettiva, meritevole di protezione per ragioni umanitarie, rilevando, essenzialmente, che, a fronte della non credibilità di quanto narrato dal richiedente e della situazione generale del Paese d’origine, non sussistevano diritti che potessero essere pregiudicati dal suo rientro in Patria.

La Corte perciò, dichiara inammissibile il ricorso.

2. Genesi della protezione umanitaria

La protezione umanitaria rappresenta uno degli argomenti di maggiore attualità, strumento giuridico flessibile e modulabile, oggi destinato alla risoluzione di problemi dal

più ampio respiro politico.

Dalla genesi di siffatta tutela alla legge del 1° dicembre 2018, fino all’ultimo decreto-legge del 21 ottobre 2020 n. 130, che ne ridisegna nuovamente i lineamenti, è evidente che ci si trova di fronte alla necessità di una riflessione profonda sull’istituto, sulla sua genesi e la sua evoluzione nel tempo, normativa ed ermeneutica.

La protezione umanitaria nasce nel 1998, all’interno del testo unico immigrazione (decreto

legislativo 286/98) ex articolo 5, comma 6, quale tutela per tutti quei cittadini stranieri, richiedenti asilo, ai quali non può essere riconosciuto lo status di rifugiato politico ovvero, in subordine, non può essere concessa la protezione sussidiaria, contribuendo insieme a siffatti istituti giuridici a dare attuazione, nel nostro ordinamento, all’asilo politico, sancito dall’articolo 10, comma 3, Costituzione.

Il decreto 113/2018, ad ogni modo, a prescindere dai risvolti applicativi ai quali ha condotto, rappresenta un discrimine temporale importante, che ha imposto, a diversi livelli (politico, giuridico, amministrativo e sociale) una riflessione profonda sulla protezione umanitaria. Uno strumento concepito quale momento residuale di tutela e oggi divenuto, invece, presidio essenziale delle esigenze umanitarie, costituzionalmente e internazionalmente sancite.

La giurisprudenza si fa norma nella protezione speciale del decreto legge 21 ottobre 2020 n.130.

Le prospettazioni applicative del decreto Salvini hanno dimostrato come le esigenze umanitarie dei cittadini stranieri risultino ancora catafratte, laddove ancorate ad obblighi costituzionali e internazionali.

Ancora una volta la protezione umanitaria è oggetto di riflessione politica e l’intenzione del Governo appare quella di voler superare definitivamente le obiezioni di incostituzionalità e contrasto con i principi di diritto internazionale, che sono state sollevate l’indomani della abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

L’attuale formulazione dell’articolo 5 comma 6, Testo Unico Immigrazione, prevede che “il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano“.

A questo si aggiunge un ampiamento dei casi di “non refoulement”, principio che fa sistema con la tutela di carattere umanitario. La protezione internazionale comprende lo status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria. Il primo sussiste quando un cittadino di un paese terzo, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno (Convenzione di Ginevra del 1951).

Tuttavia, vi sono altre ipotesi di rilascio del permesso per motivi umanitari, ovvero quando il cittadino straniero che si trovi in “oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale”, potrà chiedere il rilascio del permesso in esame ai sensi dell’articolo 11, lettera c c-ter) del Regolamento attuativo del Testo Unico sull’immigrazione (D.P.R. 394/1999).

Inoltre, l’articolo 28, lettera d) dello stesso D.P.R. contiene una esplicita previsione di rilascio del permesso “nei casi in cui non possa disporsi l’allontanamento di uno straniero verso uno Stato che possa accordare protezione contro il rischio di persecuzioni di cui all’articolo 19 comma 1 Decreto Legislativo 286/98”.

Inoltre, non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.

3. Cosa dice la giurisprudenza

L’integrazione sociale e il contributo fornito dalla  sentenza n. 4455/2018 della Prima Sezione Civile è stata di notevole importanza in quanto hanno indicato, in primo luogo, che il parametro dell’inserimento sociale dello straniero non possa essere valorizzato come fattore esclusivo ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria: tale elemento può soltanto “concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso, nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello del paese di origine, idoneo a costituire significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili”.

La sentenza precisa poi che la valutazione rispetto alla compromissione dei diritti non può essere condotta genericamente con riferimento alle carenze del paese di origine, ma che occorre operare tanto un accertamento della situazione oggettiva nel paese di provenienza, quanto una indagine circa la condizione personale del richiedente asilo,

“non potendosi eludere la rappresentazione di una condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che giustifichi l’allontanamento”.

La valutazione che deve operare il giudice è cioè quella individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale a cui si troverebbe esposto nel paese di origine; occorre indagare se la vulnerabilità possa discendere da una “effettiva e incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali” (articolo 8 CEDU e Articolo 2 Costituzione).

La Prima Sezione Civile ritiene che la condizione di vulnerabilità possa “avere ad oggetto anche la mancanza di condizioni minime per condurre un’esistenza della quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa”.

4. Conclusioni

In conclusione, l’allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità, può, non essere

derivante soltanto da una situazione d’instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale, in quanto la vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti di impoverimento radicale riguardante la carenza di beni di prima necessità, od anche discendere da una situazione che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese originario (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili), ma non è sufficiente semplicemente dimostrare l’esistenza di condizioni di vita migliori nel paese di accoglienza.

Deve esserci pertanto un bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la

situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ne ha determinato la partenza, così da accertare la condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento.

Sentenza collegata

116124-1.pdf 139kB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Dott. Pietro D’Urso

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento