Segni significanti nella “manovra-bis” governativa. Ma l’equità socio-fiscale è ancora da cercare nelle future norme.

Redazione 20/07/06
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Breve introduzione sulla c.d. “manovra correttiva”
 
Comincia la ri-strutturazionesocio-economica del nuovo Esecutivo: la ri-sistemazione ammodernante dopo gli anni d’innovazione mono-interessata del duo Berlusconi-Tremonti, scilicet della incarnata dialettica hegeliana Servo-Padrone.
Si è così esordito con il decreto-legge 30 giugno 2006: nuove norme contro l’evasione fiscale e sulla concorrenza e i diritti dei consumatori.
Trattatasi di decreto d’urgenza ex art. 77 Cost., subito efficace dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ma da convertirsi entro sessanta giorni, da parte del Parlamento, in legge dello Stato.  
Si è fatto, si è fatto.
Si è già fatto qualcosa.
Ma, in essenza, si è appena cominciato.
D’altra parte, per raddrizzare una rotta dis-torta non si può dare un colpo nevrotico al timone, pena la spaccatura dell’attrezzo e la deriva della barca – con tanto di uomini a mare come pupazzi disgraziati.
 
 
Professionisti e artigiani “en revolte” all’indomani del provvedimento liberalizzante: prime note critiche
 
Sulla bagarre dei taxisti non mi pronuncio, per personale carenza tecnico-pratica sul tema. Ma la relativa lagnanza di piazza e d’astensione evoca la fiera delle vanità.
Posso comunque dire di avere conversato funditus sull’argomento con taluni tassisti, fra l’altro attivisti in prima persona nella corrente dialettica tra la loro categoria e il Ministero delle Attività Produttive.
Ebbene, da codesti dialoghi sono emersi – netti e compatti – alcuni dati che riassumo come segue: a) una vis contradictoria, la quale da un lato vuole ispirarsi al timore di colpi di mano speculativi – sulle licenze – da parte di tycoons, e dall’altro lato tradisce – non soltanto in quanto vis italica – una nitida ossession de la pecunia tutta egotista; b) la menzione reiterata – quasi ossessiva – del fatto che i contribuenti in questione scontano tutte le imposte dovute, laddove notoriamente vale l’adagio per cui excusatio non poetita accusatio manifesta ; c) in ogni caso poche sono le idee ma ben confuse (una per tutte: i radiotaxi spesso occupati/ indisponibili non costituirebbero affatto un evento eziologicamente collegabile a un numero insufficiente di taxi e tassisti: sic).
Sì che in buona sostanza, se fossi nei panni del Ministro Bersani – e/o di lui colleghi ministri e/o di retrostanti segretari di partiti -, sarei fermo e irremovibile sul decreto-legge anche in fase di conversione, per quel che concerne le nuove disposizioni sui taxi drivers.
Sullo sciopero degli avvocati, poi, il mio giudizio – altrettanto controcorrente – è modestamente (e intellettualmente ex art. 21 Cost.) critico, a fronte di un’astensione defensionale di massa, la quale assume i tratti dell’italico grottesco. Non capisco come si possano indire settimane di sciopero per la eliminazione – fra sei mesi – dei minimi tariffari e del divieto di pubblicità – in una con la riforma delle aggregazioni professionali di cui infra. Noi, se mai, avremmo indetto uno sciopero perché la liberalizzazione specifica non è stata – ancora – sufficientemente radicale.
Così apprendo con piacere che il Garante per la Concorrenza e il Mercato ha salutato con positivo assenso il decreto governativo in punto di liberalizzazioni, invitando l’Esecutivo stesso a non lasciarsi piegare – e, aggiungiamo noi, dividere – dalle affermazioni  (opinabili perché umane, sebbene acute e dotte – e facenti riferimento anche a pendenze giudiziarie comunitarie) del consiglio nazionale forense e del suo presidente..
Che poi Giulio Tremonti ancora, a commento delle norme del decreto afferenti le professioni, abbia divisato – e dichiarato – un possibile “intento punitivo” da parte del Governo, è fatto vacuo in toto e derivante – v’è da ipotizzare – dalla di lui deformazione visuale connessa alla dialettica hegeliana di cui sopra (sulla quale ci si consoli almeno con le sempre scintillanti pagine di Alexandre Kojève).
 
 
In tema d’associazionismo, la nuova norma sulle aggregazioni – anche interdisciplinari – tra professionisti
 
Volendo essere più puntuali – come s’impone quando si discute di norme più o meno nuove -, ci pare metta conto di soffermarsi – in tema di associazionismo professionale – sull’art. 2, 1° comma, lett. c), del decreto-legge “Bersani-Padoa”, laddove testualmente esso dispone l’abrogazione del “divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più professionisti previamente indicati, sotto la propria responsabilità”.
Qui non è chiaro d’emblée il riferimento alle società di persone.
Non esisteva infatti, per vero, un divieto esplicito di legge – degno di una abrogazione – di svolgimento delle professioni “protette”( scil. quelle svolte da soggetti iscritti in apposito albo) in forma di società semplice, né un divieto di tal fatta era divisabile per lo svolgimento di attività pluri-disciplinari – a meno di non ravvisare un siffatto divieto nell’art. 1, legge 23 novembre 1939, n. 1815 (in punto di associazioni tra professionisti). Ma trattasi di assunto nient’affatto scontato, stante l’anteriorità di tale disposizione rispetto al Codice Civile del 1942 – del quale però vanno menzionati gli artt. 2232 e 2233 cpv., inclini proprio nella direzione del divieto implicito -, e stante altresì il fatto che, per combinato disposto con la norma razziale di cui all’art. 25, regio decreto-legge 29 giugno 1939, il su citato art. 1 finiva con il puntare all’obiettivo indegno d’un secco iato tra associazioni professionali tra non-ebrei ed associazioni professionali tra “appartenenti alla razza ebraica”, non essendo consentita alcuna possibilità d’associazione professionale aperta (la qual cosa, evidentemente, è superata dai tempi).
 Per la collettiva el’accomandita semplice lo status juris era in buona parte analogo – nel senso che non si dava divieto esplicito -, in tanto in quanto le società medesime non svolgessero attività commerciale.
Se mai si tendeva a ragionare sul piano sistemico delle norme vigenti, cioè sulla base di un micro-coacervo di norme: in primis l’art. 1, legge n. 1815/1938 cit. sulle associazioni professionali; poi le disposizioni (di gran lunga successive) sulle società di revisione e di engineering; e ancora le regole sulle (di fatto inattuale in prassi) società di capitali tra avvocati; nonché le norme (di origine comunitaria) sul gruppo europeo d’interessee economico transnazionale. E se ne desumeva quel che segue: in capo alle società semplici – e s.n.c e s.a.s -, pure se non svolgenti attività commerciale, era difficile potere configurare lo svolgimento di attività professionali (B. Limonati, Diritto commerciale. Impresa e società, milano, Giuffrè, 2005, p. 192).
Non mancavano però voci contrarie, a riprova del fatto che un divieto esplicito non si manifestava nell’ordinamento (F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna-Roma, Zanichelli, 2005, p. 11; G. Cottino, Diritto commerciale. L’imprenditore, quarta ed., Padova, Cedam, p. 94 ss.).
E allora, per dare un senso alla nuova norma abrogatrice d’un divieto, soccorre l’idea di stringere l’obiettivo di essa – anzitutto e per lo più, sebbene non esclusivamente – sulle società inter-professionali.
Si assiste così – almeno prima facie – a una norma abrogatrice, che in realtà vuole essere dispositivo-interpetativa. Sono consentite le associazioni professionali inter-disciplinari – e questa è una novità ché certo la legge del 1939 non la contemplava affatto -, e sono altresì consentite società di persone inter-professionali, non svolgenti attività commerciali. Ma ognuno vede che, ciò detto, non si può ragionevolmente pensare che siano ora consentite le società di persone inter-profressionali e non siano invece consentite le società di persone uni-professionali, cioè non interdisciplinari. Tratterebbesi di un absurdum insensato, la cui assenza nella mens legislatoris deve essere – direi – scartata a priori; e per l’effetto la recente riforma autorizza la costituzione di società di persone tra iscritti al medesimo albo professionale.
Resta ancora da stabilire se – stante l’assenza certa di quel “divieto” di legge di cui si diceva – la nuova norma autorizzi: a) la costituzione di società semplici tra professionisti – mono- ovvero pluri-disciplinari – con la partecipazione anche di persone fisiche non iscritte ad albo professionale di sorta; b) la costituzione di società in nome collettivo o in accomandita semplice, non svolgenti attività commerciale, aventi le medesime caratteristiche di cui alla lett. a); c) la costituzione di società in nome collettivo o in accomandita semplice, svolgenti attività professionali e commerciali, cui partecipino sia professionisti – mono- o pluri-disciplinari -, sia soggetti non iscritti ad alcun albo professionale.
A questi tre interrogativi, mi sembra si debba rispondere come segue.
Le società semplici con professionisti e non-professionisti non sono introdotte dalla nuova norma, poiché in essa la locuzione “tra professionisti” non può riferirsi soltanto alle “associazioni”; tanto è vero che, subito dopo, il dettato della norma stessa espressamente vieta a ciascun professionista di partecipare a più d’una società. E dunque la nuova disposizione va letta come facente riferimento alla possibilità di rendere servizi all’utenza, da parte di società di persone tra professionisti, oltre che da parte di associazioni professionali – entrambe in forma mono- o pluri-(od inter-)disciplinare.
Il ragionamento appena accenato vale tel quel per le società collettive e in accomandita semplice – non commerciali ovvero “miste” (lettere b] e c] di cui sopra), posto che la norma non distingue all’interno della categoria testuale delle “società di persone tra professionisti” – categoria testuale che abbiamo testé ricostruito.
A nostro parere, dunque, la norma specifica in questione ha una portata precisa, più limitata di quanto una lettura frettolosa potrebbe indurre a ritenere in prassi. Gli iscritti agli albi possono associarsi sia in forma d’associazioni professionali ex lege del 1939 sia in forma di società di persone (tutti i tre tipi), non svolgenti attività commerciale; con l’aggiunta del legittimo assetto interdisciplinare (associati o soci iscritti in diversi tipi di albi) delle predette associazioni o società tra professionisti. Questa è la portata, sul punto specifico, della novella normativa: un chiarimento e un allargamento liberalizzanti  in materia d’associazionismo tra professionisti iscritti in albi.
Il che dimostra, ancora una volta se mai ve ne fosse bisogno, che la novella in parola va salutata col plauso – ché ha divelto talune incertezze ingabbianti sul piano associativo -, ma nient’affatto vista come portatrice di corrive ventate rivoluzionarie.
 
 
Sul coté tributario-sociale, il dibattito dei commentators ante decretum. La prospettiva di una riforma socio-fiscale più larga – e ponderata nel tempo – su cui soccorre l’insegnamento del Mazzini e lo spunto filosofico di Altri
 
Non tediamo, poi, il lettore sulla parte specificamente tributaria della “manovra-bis”.
Ci permettiamo però di dire che, in questa materia più che mai, il decreto nonè stato latore d’innovazioni d’essenza e sostanza.
Eppure esso è stato ampiamente preceduto, tra i commentators, da un dibattito vivace e interessante; al punto che – come suole dirsi – si è poi avuta la sensazione che, dalla montagna, al fine sia partorito un solo topolino.
Già ne Il Sole 24 Ore del 7 Giugno 2006, Raffaele Rizzardi scriveva cose in parte ovvie e in parte inesatte. Che l’IVA debba stare nei binari della legislazione comunitaria è la verità di Lapalisse; ed altrettanto vale per l’assunto – proposto dal Rizzardi stesso – secondo cui, se salgono talune aliquote dell’imposta medesima, ne risentono i prezzi al consumo – settoriali però, aggiungiamo noi.
D’altra parte, sulla lotta alla “evasionefiscale, il fatto che “frode” in altri paesi dell’UE non significhi necessariamente l’escatologia dell’inganno da parte del contribuente – rilievo rizzardiano anche questo – finisce con l’essere un’affermazione priva di senso compatto, vale a dire opaca e confusionaria. Ma procediamo con ordine.
Prima le idee – possibilmente chiare -, poi la prassi.
     Sul coté delle idee, non c’è affatto bisogno di scomodare – che so? – Bakunin, per affermare ragionevolmente che una qualche mirata re-distribuzione della ricchezza sia necessaria. Su questo punto i concetti erano assai nitidi nel pensiero (e nell’agire) di un uomo affatto inviso a Marx, a Engels, e proprio anche a Bakunin; tanto è vero che – come noto – per il filosofo di Treviri e per l’anarchico russo trattavasi di un di un “dittatore” o di un “delegato del maestro divino”.  
Ci riferiamo, ovviamente, a Giuseppe Mazzini, il quale nel 1832 – sul periodico La giovine Italia (ora vedilo in G. Mazzini, Opere politiche, UTET, Torino, 2005, p. 332) – auspicava l’avvento di <<leggi intorno a’ testamenti, alle successioni, e alle donazioni, ordinate a inceppare l’accumulamento eccessivo delle ricchezze in poche mani, nonché il concentramento della proprietà in poche famiglie>>. Di qui – proseguiva il Genovese – l’ulteriore auspicio di un <<sistema delle pubbliche contribuzioni eretto sul principio che – salvo da ogni onere il necessario alla vita  il superfluo deve subirle [le leggi impositive: n.d.r] proporzionalmente e progressivamente>>.
    Ora, che questi netti concetti re-distributivi siano, per il cavalier Berlusconi (lo disse in RAI nell’ultimo face to face con l’attuale Presidente del Consiglio) sinonimo di soi disant dossettiano (o gramsciano) para-stalinismo, è cosa che davvero poco cale (al pari delle scelte politiche lamalfiane, con tanto di ri-pensamenti referendari).
Sta di fatto che le parole mazziniane ci appaiono lucidissime e attuali – se appena messe in confronto al pastiche rizzardiano.
D’altra parte, si sa: noblesse oblige.
Lucido, al contrario di Rizzardi, ci è parso Paolo Andruccioli nel quotidiano che fu fondato (inter alios) da Rossana Rossanda e che oggi lotta per sopra-vivere (il Manifesto, 4 giugno 2006, p. 6).
Due sono i punti, in cui risulta chiaro che si deve espletare il superamento di quel “conflitto sociale”, cui rettamente fa riferimento Giorgio Cremaschi, in Liberazione del 9 giugno 2006, p. 11.
Primo punto: anziché pensare/esternare ovvietà sull’IVA à la Rizzardi, qui si profila la necessità di una calibrata/ponderata riforma della tassazione delle rendite finanziarie. Essa, anziché al “proporzionale secco” del 12,5 vigente dal 1997 (in taluni casi 27%), dovrebbe ragionevolmente passare a dis-tinguere – senza fare pasticci demagogico-intimidatòri – il piccolo/medio risparmiatore dallo speculatore di Borsa e dall’acquirente-ri-venditore di pacchetti azionari – o di quote – significativi, magari ereditati senza Nulla fare in sforzo esistentivo.
Piena è la nostra condivisione di una siffatta prospettazione di politica fiscale re-distributiva – anche perché di speculatività delle operazioni borsistiche già ci occupammo nel lontano 1985, in fase di pubblicazione della nostra tesi di laurea. si dica che è ormai troppo tardi per intervenire sui trasferimenti di patrimoni ereditari, poiché i <<benestanti>> – tosto godendo della berlusconiana abrogazione della imposta sulle successioni e donazioni, si sono già “sistemati”: no, con questo approccio – a nostro avviso – si continua sulle orme dell’insoluto conflitto sociale di Cremaschi. A supporto di quanto appena detto, basti vedere quanto emerge dall’ultimo rapporto Censis, intitolato <<meno mobilità,più ceti, meno classi>> (su cui v. D. Lusi, in il Sole-24 Ore del 19 giugno 2006, p. 19). Non è mai troppo tardi rispetto a quanto si creda,  per rimediare alle sperequazioni sociali – viene da dire pour cause.
 Secondo punto: adesso urge  la lotta alla – evasione sì, ma sopra tutto alla – elusione fiscale. Finalmente vi è chi (ci riferiamo ad Andruccioli, cit.), a differenza di molti politici e rinomati esperti settoriali, non dimentica che la piaga maggiore italica, in materia di diritto tributario “vissuto”, non è per vero la “doppia contabilità” o il “nero” o il “sommerso” – cioè a dire la evasione “secca e diretta”. Quest’ultima infatti, con gli strumenti oggi a disposizione della Pubblica Amministrazione e della Guardia di Finanza/Polizia Giudiziaria, è reperibile/reperita.
 Sì che il “bubbone” tributario ancora imploso – e perfidamente godereccio, con tanto di consultòri all’occorrenza – è l’astuto fare slalom tra le norme di diritto tributario italiano, comparato ed internazionale: con la qual cosa, se un contribuente deve per ragioni oggettive andare da Milano a Torino, lo fa – che so? – via Nizza, solo e soltanto (o quasi) per risparmiare imposte. Su questo Rizzardi non è sufficientemente incisivo. Sarebbe davvero incongruente – come egli sembra profilare/suggerire – l’introduzione di norme che parifichino l’elusione fiscale all’omologa frode, posto che fra l’altro quest’ultima – oltre a rimanere cosa diversa siccome tale dalla elusione – assurge a reati, ai sensi degli artt. 7 ss., d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
     Non si deve affatto (anzi!) sottacere l’elusione – limitandosi all’adusto refrain della <<lotta alla evasione>> -; né si deve affrontare il tema/piaga della elusione in guisa scomposta, affastellando malamente i due concetti – quello della elusione, appunto, e quello della evasione. Sulla elusione – ad essere precisi e presenti – esiste già “diritto vivente” della Suprema Corte di Cassazione, la quale, con due (più uno) grands arrets dichiaratamente controcorrente rispetto al passato, nell’autunno del 2005 ha statuito un principio importante, argomentando sulla scorta del sistema tributario italiano nella sua totalità, nonché sulla base del concetto di “abuso del diritto”, così come elaborato per anni dalla dalla Corte di Giustizia CEE – anche in materia tributaria (cfr. F. M. Giuliani, In Diritto Italiano e Tributario, “ritornare a Mazzini, in Il pensiero mazziniano, n. 1/2006, p. 46 ss.; Id., Sulle orme della Suprema Corte – Sezione Tributaria – in punto d’elusione fiscale e causa negoziale, a URL https://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/22451.html/).
 A detta della nostra Corte di Cassazione, ormai, se un contratto è posto in essere col fine esclusivo o prevalente del risparmio fiscale, quello stesso contratto è privo di una sua essenza consustanziale – tecnicamente, cioè, esso non ha “causa”-, e pertanto è affetto da vizio di nullità. Codesto vizio – che ovviamente rende il contratto stesso privo di ogni rilevanza/opponibilità verso l’Amministrazione finanziaria – può, secondo le regole di procedura vigenti, essere rilevato incidentalmente, anche d’ufficio, in ogni stato del processo tributario – finanche dinnanzi alla, e da parte del, stesso Supremo Collegio (come infatti è accaduto nei due casi di cui sopra).
   Ebbene, se mai un supporto nella <<lotta alla elusione>> si può pensare, esso risiede proprio nelle ampie motivazioni delle due menzionate sentenze della Sezione Tributaria della Cassazione. E ciò – si badi bene – è a nostro avviso cosa assai diversa e ben più ampia della già vigente norma antielusiva di cui all’art. 37-bis del decreto sull’accertamento, ché quest’ultimo è a sua volta spesso by-passato dai contribuenti – segnatamente i più possidenti – col supporto ingegnoso dei super-tecnici consulenti.
       Si attende ora il pronunciamento, sul tema, delle Sezioni Unite della Suprema Corte, cui gli atti di un nuovo processo – tutto focalizzato sulla elusione estrema – sono stati trasmessi – in prospettiva nomofilattica – dalla Sezione V Tributaria del Supremo Collegio stesso.
     E allora, se de jure condendo si deve voltare pagina in tema di “riforma fiscale” – come noi, insieme ad altri, riteniamo -, lo si faccia cum judicio.  
L’era post-tremontiana è giunta in tutta la sua urgenza. Sylos Labini, nel suo libro-testamento (Ahi, serva Italia, Laterza, 2005) scrive che Tremonti ha agito radicalmente in mala fede quale Ministro (op. ult. cit., p. 56). Ora, pur nella consapevolezza delle capacità giuridico-tributarie del Vicepresidente di Forza Italia, sul malafideismo (per conflitto servile) è dura dissentire da Labini, posto che esso stava talmente in rebus ipsis, da indurre se mai al solo augurio – a Tremonti stesso rivòlto – di non cadere egli un dì futuro nel nicciano ritorno dell’eguale – dove l’eguale ha qui sapor dottiano, con tanto di nouveax riches -specializzati nello sciacallaggio più impietoso – pronti all’arrembaggio.
    Voltare pagina s’impone sì, ma senza i Rizzardi di turno, e senza dar corda a quella “destra tecnocratica e liberale” menzionata da Cremaschi (cit.), il quale a sua volta cita sul punto Marco Rovelli. Bisogna, se mai, avere sempre in mente quel che Guido Rossi ha enfatizzato nei suoi due ultimi libri –  l’Italia, cioè, non è un Paese capitalistico, bensì proto-capitalistico; in aggravante, l’Italia esprime un capitalismo che non soltanto è infante, ma è per di più pervertito (l’immagine è nostra: n.d.r.), perché corrotto e privo di ogni ethos.
E – aggiungerei – per certi versi la critica al male d’ethos rischia di rimanere un po’ sospesa, se non si enfatizza ciò che – in guisa di causa efficiente – sta alla base della patologia stessa. Intendiamo riferirci alla décadence italica socio-culturale di massa, giunta al climax nell’ultimo decennio (Pier Paolo Pasolini la percepiva già “cavallo” tra gli anni sessanta e settanta!). Un siffatto declino è stato colto assai bene, nei termini di cui sopra, dal Presidente Emerito della Corte Costituzionale – con una sorta di superamento della, per certi versi facile, mera critica sul coté della ragion pratica (A. Baldassarre, Se si <<politicizza>> la Costituzione, in AA.VV., Costituzione. Una riforma sbagliata, a cura di F. Bassanini, Firenze, Passigli, p. 38).
 In una siffatta prospettiva l’astuta elusione fiscale – assetata di verghiana roba -, in una con la libera trasferibilità di pur ingenti patrimoni free of charge – sono due malanni da curare senza fallo, ma altresì senza confusioni né ansie dogmatico-operazionali nella mente del Legislatore. Bisogna essere molto accorti, giacché la confusione dei concetti a priori nel fare le leggi – come il sonno della ragione – genera mostri di norme.
   E attenzione infatti v’è stata. Forse troppa. Ma ci vuole Potenza in senso pascaliano (cfr. B. Nacci, L’immaginazione in Pascal, in AA.VV., Nella dispersione del vero. I filosofi: la ragione, la follia, a cura di Borrelli e Papparo, 1997 – Atti di un Seminario tenutosi, tra il gennaio e il maggio 1997, presso il Dipartimento di Filosofia della Università Federico II di Napoli).
 E che serva Potenza, al Legislatore, si è visto benissimo all’indomani del decreto-legge 30 giugno 2006: basti pensare alla bagarre di taxisti e avvocati. Gli è però che die Macht in prassi, alle volte – anche se in teoria no – è gemella del coraggio manzoniano; sì che Uno (per tale certo intendendosi non una persona fisica) – rebus sic stantibus – non se la/lo può mica dare.
E dunque, forse, si può concettualmente riprendere un acuto studioso il quale – sempre attento allo spinoziano concetto per cui Tantum juris quantum potentiae – ha proposto un ribaltamento del noto aforisma gramsciano, ravvisando – in filosofia del diritto/della politica – un ottimismo della ragione e un pessimismo della volontà (A. Negri, Fabbriche del soggetto. ondine book a URL http://www.generation-online.org/t/fabbrichedel soggetto1.htm/).
Ergo:
– è con questo pessimismo della volontà – ché intervenire sull’essere è in sé un’auto-contraddizione e dunque un plasmarsi sul multiforme del percetto – percetto mutevole siccome tale e non di meno sostrato permanente che continua ad essere, dopo il toglimento dell’apparentemente contraddittorio divenire-altro dell’ente;
 – è con questo ottimismo della ragione – ché fare norme è forza di costruzione continua sul/del residuale -:
– è con queste due leve che si può pensare di legiferare, nel prossimo futuro, in una prospettiva equa e intelligente.
Dal che nasce una domanda non retorica affatto e tutta da ex-perimentare. Che sia questo il degno e possibile diario di bordo – in teoria e prassi segmentata ma ferma – per l’Esecutivo novello?
 
Federico Maria Giuliani
LL.M., Int’l Tax’n, Regent, VA, US
Già Professore a contratto nella Università
del Piemonte Orientale

Redazione

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