Rilascio e revoca del certificato di titolo esecutivo europeo ed esecuzione forzata in Italia delle decisioni secondo il Regolamento n. 805/2004 – Terza parte

Redazione 20/11/19
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di Marco Farina*

* Professore a contratto di Diritto Processuale Civile presso l’Università LUISS di Roma

Sommario

1. Le conseguenze sull’esecuzione in corso della revoca del certificato di titolo esecutivo europeo

2. Il rifiuto dell’esecuzione per conflitto di decisioni ai sensi dell’art. 21 del reg. n. 805/2004

3. La contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata per motivi “interni”

1. Le conseguenze sull’esecuzione in corso della revoca del certificato di titolo esecutivo europeo

Quanto fino ad ora osservato vale, certamente, per le ipotesi in cui la richiesta dei provvedimenti di cui all’art. 23 sia giustificata dalla pendenza nello Stato membro di origine di una impugnazione della decisione o di una sua richiesta di riesame; qualora, invece, una tale richiesta venga a giustificarsi in ragione della pendenza di una istanza di revoca del certificato le cose sembrerebbero stare diversamente allorché la decisione sia stata emessa all’esito di un giudizio iniziato dopo l’entrata in vigore del Reg. 1215/2012.

Questo perché, nel cessato regime di Bruxelles I, la decisione, se non certificata come titolo esecutivo europeo, poteva legittimare l’inizio dell’esecuzione forzata in uno Stato membro diverso da quello ove era stata emessa solo se dichiarata esecutiva all’esito di un apposito procedimento di exequatur. L’accoglimento della istanza di revoca del certificato nello Stato membro di origine determinava, quindi, il venir meno del titolo esecutivo, senza possibilità di “salvare” l’esecuzione nel frattempo intrapresa per effetto di una successiva dichiarazione di esecutività ai sensi delle disposizioni di cui al Reg. n. 44/2001[1].

A seguito della generalizzata abolizione dell’exequatur per tutte le decisioni in materia civile e commerciale, la revoca del certificato di titolo esecutivo europeo[2], l’accoglimento di una (mera) istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo non è più in grado di far venire meno tout court l’efficacia esecutiva della decisione straniera. La decisione, anche se non certificata, è comunque automaticamente riconosciuta nella sua efficacia di accertamento ed esecutiva secondo quanto previsto dal Reg. 1215/2012 – fatta salva, dunque, solo la deduzione circa l’esistenza di uno o più dei motivi ostativi di cui all’art. 45 Reg. 1215/2012 – e ciò comporta il sorgere di una serie di questioni non facilmente risolvibili.

Ed infatti ci si può chiedere, innanzi tutto, cosa accada qualora l’esecuzione sia iniziata in virtù di una decisione certificata come titolo esecutivo europeo e, sospesa l’esecuzione ai sensi dell’art. 23 in ragione della pendenza del giudizio di revoca del certificato, l’istanza di revoca venga infine accolta perché, ad es., la decisione certificata era relativa ad un credito contestato. Nel sistema precedente l’esecuzione si sarebbe dovuta senz’altro arrestare per sopravvenuta carenza di titolo esecutivo riscontrabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione.

Nel sistema attuale, l’accoglimento della istanza di revoca del certificato non implica più che al fondo della esecuzione intrapresa sulla base della decisione certificata non possa dirsi esistente, sin dall’inizio, un titolo esecutivo atteso che, come visto, la medesima decisione, ancorché non certificata, gode comunque del regime di automatica circolazione (anche) della efficacia esecutiva garantitagli ex lege dal Reg. 1215/2012 in dipendenza dell’abolizione dell’exequatur.

Ciò che la revoca del certificato comporta è, quindi, solo la (riacquisita) possibilità per il debitore di opporsi al riconoscimento della decisione deducendo la sussistenza di uno più dei motivi ostativi di cui al Reg. 1215/2012.

A noi sembra che in una tale ipotesi, a seguito dell’accoglimento dell’istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo, l’esecuzione non possa, dunque, più definitivamente arrestarsi in quanto la decisione, pur non certificata, è comunque una decisione in materia civile e commerciale cui il Reg. 1215/2012 riconosce comunque automatica efficacia esecutiva in ciascuno degli Stati membri a prescindere dalla certificazione nello stato membro di origine o della dichiarazione di esecutività nello stato membro di esecuzione. Spetterà, dunque, al debitore l’onere di proporre opposizione all’esecuzione per far valere, rispetto alla decisione già fatta valere come titolo esecutivo europeo, la presenza di uno o più dei motivi ostativi di cui all’art. 45 Reg. 1215/2012. In questo caso, peraltro, dovrà anche ammettersi che il debitore possa proporre l’opposizione all’esecuzione pur dopo che sia stata autorizzata la vendita[3] in quanto la possibilità di dedurre tale contestazione può ragionevolmente dirsi sopravvenuta per effetto dell’accoglimento dell’istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo o, comunque, può sempre altrettanto ragionevolmente sostenersi che prima di allora il debitore non poteva proporla per causa ad egli non imputabile.

Potrebbe, poi, accadere che l’istanza di revoca del certificato venga accolta quando l’esecuzione iniziata sulla base del titolo esecutivo europeo si sia già interamente svolta con la soddisfazione del creditore e, dunque, allorché la decisione abbia già concretamente dispiegato i suoi effetti (esecutivi) nello Stato membro di esecuzione. Ciò che può notarsi rispetto a tale evenienza è che un successivo giudizio di ripetizione dell’indebito non pare potersi escludere anche se esso non potrà venire a fondarsi solo ed esclusivamente sul vizio di “rito”, diciamo così, costituito dal fatto che l’esecuzione si è svolta sulla base di una decisione ex post privata dell’efficacia esecutiva.

Il debitore, a nostro avviso, potrà in tale ipotesi agire al fine di ottenere il diniego di riconoscimento in Italia della decisione ai sensi dell’art. 45 Reg. 1215/2012, così da ottenere un provvedimento che, accertata la non riconoscibilità della decisione, potrà poi giustificare la condanna del creditore alla restituzione di ciò che è stato ottenuto all’esito dell’esecuzione forzata in quanto attribuzione patrimoniale da ritenere difforme rispetto alla lex specialis di quel rapporto promanante dalla decisione estera di condanna di cui è stata accertata la non vigenza in Italia[4].

[1] Atteso che, come noto, al fine di giustificare la legittimità di una esecuzione il titolo esecutivo deve esistere sin dall’inizio della esecuzione e non deve venir meno per tutta la durata del processo esecutivo. Di modo che, venuto meno il titolo esecutivo per la revoca del certificato, il fatto che la decisione possa diventare, di nuovo, titolo esecutivo (dopo il pignoramento) per effetto della dichiarazione di esecutività non consente di ritenere soddisfatta, appunto, la condizione per cui il titolo esecutivo deve esistere sin dall’inizio della esecuzione.

[2] Deve ulteriormente specificarsi che quanto si va dicendo nel testo vale, sicuramente, per il caso in cui, ad es., la revoca del certificato di titolo esecutivo europeo sia dovuta al fatto che la decisione certificata era relativa ad un credito contestato. In tale ipotesi la possibilità, nel vigore del reg. Reg. n. 44/2001, di ottenere una dichiarazione di esecutività o, nel vigore del Reg. 1215/2012, di considerare la decisione comunque esecutiva pur a dispetto della revoca del certificato è certa perché la non contestazione è requisito di certificazione e non, invece, requisito per la dichiarazione di esecutività o per la circolazione automatica dell’efficacia esecutiva. Diversamente, altri requisiti della certificazione potrebbero costituire (anche) circostanze che concretano altrettanti motivi ostativi al riconoscimento tanto nel Reg. n. 44/2001, quanto nel Reg. 1215/2012 (ad es., revoca del certificato perché la decisione era stata emessa in violazione di una competenza esclusiva). In tali casi la questione problematica attiene al se la decisione sulla istanza di revoca resa dai giudici dello Stato membro di origine possa o meno circolare negli altri Stati così da vincolare e conformare il giudizio dei giudici dello Stato membro di esecuzione circa l’esistenza o meno di uno o più dei motivi ostativi al riconoscimento nel Reg. 1215/2012.

[3] Ossia anche dopo che è maturata la preclusione che d’ordinario colpisce la proposizione di una opposizione all’esecuzione ai sensi del secondo comma dell’art. 615 c.p.c. per il quale “nell’esecuzione per espropriazione l’opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli articoli 530, 552 e 569 salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa lui non imputabile

[4] In questo giudizio di (peculiare) ripetizione dell’indebito – rispetto a cui è pregiudiziale l’accertamento della non riconoscibilità in Italia dell’efficacia di accertamento della decisione straniera che legittimava, dal punto di vista sostanziale, l’attribuzione patrimoniale che si è perfezionata all’esito dell’esecuzione forzata – non può escludersi la possibilità per il creditore di proporre una domanda riconvenzionale di condanna per il medesimo credito già soddisfatto il cui accoglimento produrrà l’elisione automatica delle reciproche partite di dare avere. Una tale ipotesi parrebbe doversi escludere solo allorché per il credito sia prevista una competenza giurisdizionale esclusiva dei giudici di uno Stato membro diverso dall’Italia (ed il ragionamento potrebbe valere anche nel caso in cui il creditore, in questo giudizio di ripetizione dell’indebito, si difendesse proponendo non una domanda riconvenzionale di condanna ma opponendo in compensazione il credito oggetto della decisione straniera non riconoscibile perché anche in tal caso si potrebbero porre dei problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione per tale peculiare eccezione). In ogni caso pare ragionevole ritenere che l’eventuale decisione italiana di accertamento della non riconoscibilità e, quindi, di non vigenza in Italia della lex specialis promanante dalla decisione estera può condurre ad una pronuncia di condanna alla restituzione di quanto ottenuto dal creditore che non potrà essere, evidentemente, riconosciuta nello Stato membro di origine per l’evidente conflitto con la originaria decisione ivi ancora pienamente e perfettamente efficace; negli altri Stati membri, al contrario, la decisione italiana di condanna alla restituzione potrà essere eseguita se anche ivi si deduca ed accerti che la originaria decisione straniera non poteva essere riconosciuta per l’esistenza di uno o più dei requisiti ostativi di cui al Reg. 1215/2012.

2. Il rifiuto dell’esecuzione per conflitto di decisioni ai sensi dell’art. 21 del reg. 805/2004

L’articolo 21 del Regolamento n. 805/2004 disciplina una fattispecie che, se perfezionata, impedisce definitivamente il concreto dispiegarsi dell’efficacia esecutiva della decisione. Attraverso detto rimedio del «rifiuto dell’esecuzione», il debitore ha, quindi, la possibilità di contestare la (in)esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata sulla base di un titolo esecutivo europeo che sia, però, incompatibile con una decisione anteriore pronunciata in uno Stato membro (o in un paese terzo) tra le stesse parti e sul medesimo oggetto.

La norma da, quindi, rilievo al contrasto di decisioni che tradizionalmente costituisce un motivo ostativo al riconoscimento ed alla esecuzione delle decisioni straniere ma ciò fa, invero, in modo del tutto peculiare. Per un verso, infatti, essa richiede che la decisione incompatibile comunque vigente nello Stato membro di esecuzione sia stata emessa anteriormente alla decisione certificata come titolo esecutivo europeo; mentre per altro verso, essa, diciamo così, non si accontenta dell’esistenza del contrasto, prevedendo, al contrario, che detta incompatibilità, in sintesi, possa avere rilevanza al fine di impedire l’esecuzione del titolo esecutivo europeo solo allorché non sia stato possibile farla valere nel procedimento svoltosi nello Stato membro di origine.

La rilevanza sistematica di questa disposizione è indubbia e sul suo concreto modo di operare si dovrà indugiare un poco.

Nel contesto comunitario il conflitto tra decisioni incompatibili rese, tra le stesse parti e sullo stesso oggetto, in differenti Stati membri rileva, come noto, non quale ragione di integrale inefficacia di una delle due decisioni ma, al contrario, come motivo ostativo al riconoscimento della decisione straniera e, così, di inefficacia di quest’ultima nel limitato ambito territoriale del singolo Stato membro in cui essa è fatta valere. Segnatamente, la circostanza per cui nello Stato membro in cui è chiesto il riconoscimento e/o l’esecuzione di una decisione resa altrove sia stata pronunciata una altra decisione con essa confliggente farà sì che la decisione straniera, pur continuando a produrre effetti nello Stato membro di origine, non sarà, al contrario, in grado di manifestare alcuna efficacia nel singolo Stato membro in cui si sono create le premesse per l’emersione del conflitto.

Convivono, pertanto, nello spazio giudiziario europeo due diverse e, appunto, incompatibili soluzioni giurisdizionali della medesima controversia sostanziale ciascuna limitata all’ambito territoriale di efficacia che le è proprio, ossia quello nazionale.

Nel contesto del Reg. 805/2004 il contrasto tra decisioni finisce con l’assumere un rilievo diverso e peculiare. Seppure è vero, infatti, che la fondata deduzione di una anteriore decisione incompatibile con il «titolo esecutivo europeo» rende inefficace detto titolo nel solo Stato membro di esecuzione, è anche altrettanto vero che, dandosi rilevanza ostativa alle sole decisioni anteriori che non potevano essere fatte valere nel procedimento svoltosi nello Stato membro di origine, si finisce con l’individuare una regola (tendenzialmente) uniforme volta alla soluzione del conflitto di giudicati.

All’incondizionata prevalenza del giudicato interno (tanto anteriore quanto successivo) che contraddistingue il sistema del riconoscimento e della esecuzione delle decisioni comunitarie viene, in effetti, a sostituirsi un principio in virtù del quale detto (incompatibile) giudicato interno è, beninteso al ricorrere di una specifica e peculiare condizione, posto nel nulla dalla successiva decisione che costituisce titolo esecutivo europeo.

Nel contesto del Reg. 805/2004, insomma, vale la regola per cui il giudicato che si sia successivamente formato in violazione di uno precedente è, per ciò solo, in grado di prevalere in tutto lo spazio giudiziario europeo. Ed una tale soluzione consente, chiaramente, di garantire al meglio il raggiungimento dell’obbiettivo di una automatica ed uniforme vigenza di un’unica decisione (vale a dire, quella pronunciata per seconda) nell’intero territorio dell’Unione.

In realtà, per il perseguimento di questo obbiettivo non è tanto importante il fatto che si dia rilevanza solo ad una decisione incompatibile che sia stata emessa anteriormente al «titolo esecutivo europeo» quanto, piuttosto, la circostanza per cui il contrasto è sterilizzato tutte le volte in cui il debitore, pur potendolo fare, ha deliberatamente e consapevolmente omesso di darvi rilevanza facendo valere detta incompatibilità nello Stato membro di origine.

Ciò che, peraltro, presuppone la concreta idoneità della decisione anteriore ad influire sul contenuto della decisione emessa successivamente in altro Stato membro ed alla quale sia attribuita l’efficacia di titolo esecutivo europeo. Il rifiuto dell’esecuzione sarà, infatti, possibile per tale specifico motivo solo nel caso in cui il debitore «non abbia avuto la possibilità di far valere l’incompatibilità nel procedimento svoltosi nello Stato di origine».

Detta impossibilità di far valere l’anteriore decisione interna nel procedimento svoltosi nello Stato membro di origine non deve tuttavia essere intesa alla stregua di un impedimento cagionato al pieno e libero esercizio delle facoltà difensive del convenuto nell’ambito del procedimento all’esito del quale si è (successivamente) formato il titolo esecutivo europeo[5]. Piuttosto, detta impossibilità potrà dirsi sussistente tutte le volte in cui la anteriore decisione interna non avrebbe potuto esplicare alcuna efficacia pregiudicante sull’esito del giudizio svoltosi all’estero, e ciò, assai verosimilmente, a cagione della sua non riconoscibilità nello Stato membro di origine[6].

Se, quindi, la precedente decisione interna era astrattamente in grado di poter dare valido fondamento ad un’eccezione di precedente giudicato al fine di impedire la pronuncia della decisione estera, il fatto che essa non sia stata utilmente spesa darà luogo ad un contrasto di giudicati per la soluzione del quale si dovrà dare prevalenza a quello successivamente formatosi. Nel caso in cui, al contrario, l’anteriore giudicato interno non avrebbe, comunque, potuto dar luogo ad un’utile ed efficace spendita di una exceptio rei iudicate nello Stato membro di origine in ragione della sua non riconoscibilità, non potrà, allora, evidentemente valere il principio in virtù del quale il secondo giudicato è destinato a prevalere in virtù della preclusione dell’eccezione di cosa giudicata maturata nell’ordinamento dello Stato membro di origine.

Si potrebbe, allora, immaginare il caso di una sentenza italiana che abbia accolto un’azione di accertamento negativo proposta dal conduttore nei confronti del locatore relativamente alla inesistenza di un credito traente titolo da un contratto di locazione avente ad oggetto un bene immobile situato in Germania (e, quindi, in violazione di una regola di competenza esclusiva che ne preclude la circolazione ex art. 45, lett. e)(ii), Reg. n. 1215/2012). Qualora successivamente a detta sentenza italiana, fosse il locatore ad ottenere proprio in Germania un decreto ingiuntivo “tedesco” non opposto e poi certificato come titolo esecutivo europeo, la successiva esecuzione in Italia di detto «titolo esecutivo europeo» parrebbe fondatamente “rifiutabile” ai sensi dell’articolo 21. La decisione italiana contenente l’accertamento negativo del credito successivamente divenuto oggetto del «titolo esecutivo europeo» non avrebbe, in effetti, potuto esplicare in Germania alcuna efficacia in virtù della sua non riconoscibilità.

Quanto appena detto, peraltro, non può tener conto delle numerose variabili che possono venire ad incidere sul corretto funzionamento dell’art. 21 Reg. n. 805/2004. Fino ad ora, infatti, si è fatto riferimento al caso in cui alla decisione che costituisce «titolo esecutivo europeo» e di cui è stata chiesta l’esecuzione in Italia venga “opposta” la sussistenza di un precedente giudicato ivi formatosi. È bene avvertire, però, che non sempre la situazione potrà presentarsi con questa, diciamo così, linearità.

Si immagini il caso in cui ad essere certificata come «titolo esecutivo europeo» sia una sentenza contumaciale tedesca. Si ipotizzi, ancora, che in Italia venga pronunciata, successivamente a detto provvedimento tedesco ed alla scadenza del termine per proporre opposizione, una sentenza che accolga la domanda di accertamento negativo proposta dal debitore che era stato convenuto in Germania. In tali casi non v’è dubbio che l’applicazione dell’art. 21 Reg. n. 805/2004 è messa fuori gioco per difetto del requisito dell’anteriorità della decisione interna. Tuttavia, se la sentenza interna (pur successiva) avesse comunque acquisito forza di giudicato ci si potrebbe, allora, chiedere se detto contrastante giudicato interno successivamente formatosi possa essere, comunque, in grado di porre nel nulla, in Italia, l’anteriore giudicato tedesco, e ciò per effetto delle regole interne che disciplinano il conflitto di giudicati.

Non sempre, insomma, il difetto del requisito dell’anteriorità della decisione interna confliggente è in grado di giustificare la incondizionata prevalenza (sine die) del giudicato “straniero” in virtù dell’operare dell’articolo 21. E questo perché, assai verosimilmente, pur una volta automaticamente riconosciuto detto giudicato, il successivo formarsi di un giudicato nazionale che del primo, pur erroneamente, non abbia tenuto conto comporterà il radicarsi di un conflitto tra giudicati per la soluzione del quale non pare che l’art. 21 Reg. n. 805/2004 sia davvero in grado di individuare una regola uniforme.

Non si tratterà qui, chiaramente, di incidere (ex post) sul riconoscimento della decisione “straniera”, disconoscendole efficacia ai sensi dell’art. 45, lett. c), Reg. n. 1215/2012 (qui, certamente, inapplicabile) ma, più semplicemente, di fare applicazione delle norme interne in virtù delle quali la prevalenza deve essere riconosciuta all’accertamento più recente. Anche in casi come questi, pertanto, sembrerebbe potersi ammettere una deduzione del debitore volta ad impedire lo svolgimento tout court di una esecuzione forzata per l’attuazione di un diritto di credito successivamente accertato siccome inesistente da una prevalente (sotto questo profilo) sentenza interna.

Da un punto di vista schiettamente procedurale si deve osservare che in Italia la deduzione di questo specifico motivo (uniforme) di «rifiuto dell’esecuzione» fondato sul contrasto di decisioni dovrà avvenire attraverso la proposizione di un’opposizione all’esecuzione ex art.615, primo o secondo comma c.p.c. attenendo esso alla (in)sussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata del creditore.

Deve, peraltro, escludersi, a nostro avviso, che un’azione volta ad ottenere il «rifiuto dell’esecuzione» di un titolo esecutivo europeo sotto tale specifico profilo possa essere proposta pur a prescindere dalla già effettuata richiesta di esecuzione in Italia da parte del creditore. A nostro parere, l’ammissibilità di una tale azione (massimamente) anticipata e preventiva del debitore parrebbe dover essere esclusa in quanto si farebbe fatica ad intravedere un attuale e concreto interesse ad agire del debitore la cui iniziativa, invero, sarebbe volta a paralizzare una futura e del tutto eventuale aggressione esecutiva che potrebbe, quindi, anche non trovare mai reale concretizzazione nel nostro Stato. Il tenore letterale della disposizione, peraltro, è sufficiente chiara nel delineare tale rimedio siccome esclusivamente destinato ad impedire lo svolgimento di una esecuzione che sia stata già richiesta dal creditore, così come sembra anche sufficientemente chiaro che la consistenza di siffatto giudizio avrebbe, al fondo, una consistenza meramente processuale. Di talchè varrebbe ad impedire un’azione siffatta del debitore anche la considerazione per cui, ammettendola, si finirebbe, così, per ampliare il novero delle azioni aventi ad oggetto situazioni giuridiche di natura non sostanziale, che al contrario si reputano per solito tendenzialmente eccezionali e dunque d’interpretazione stretta.

[5] Se, infatti, il convenuto ha mancato di far valere l’incompatibilità perché concretamente impedito a svolgere qualsiasi altra difesa in ragione di un vizio verificatosi nella fase della instaurazione del contraddittorio, allora il rimedio concesso a questi non sarà l’istanza di rifiuto della esecuzione quanto, diversamente, l’impugnazione della decisione o, comunque, la richiesta di un suo riesame ai sensi dell’art. 19 Reg. n. 805/2004 (se ammesso secondo la legislazione dello Stato membro di origine, altrimenti la decisione neppure potrebbe essere certificata). Deve anche aggiungersi, peraltro, che i vizi che abbiano inciso sulla corretta instaurazione del contraddittorio potranno anche dar luogo ad una istanza di revoca del certificato sul presupposto della insussistenza di uno dei suoi necessari requisiti (vale a dire, l’osservanza delle norme minime di procedura).

[6] Deve anche rilevarsi come a dare fondamento all’istanza di rifiuto dell’esecuzione per “contrasto di decisioni” non potrà essere il fatto che la decisione interna non abbia alcuna efficacia di accertamento extraprocessuale (come potrebbe accadere, ad es., se in Italia fosse stato pronunciato un provvedimento cautelare anticipatorio di contenuto contrastante con la condanna recata dal titolo esecutivo europeo). Seppure in questi casi la decisione interna, proprio perché non munita di alcuna efficacia di accertamento extraprocessuale (e nemmeno vi tenda), non poteva essere fatta valere nel procedimento svoltosi nello Stato membro di origine per pregiudicarne, diciamo così, gli esiti, andrà tuttavia osservato che in casi come questi (ossia, quando le due decisioni in potenziale conflitto non posseggano un’intensità di effetti quantomeno equivalenti) non sembrerebbe potersi parlare di vera e propria incompatibilità tra decisioni rilevante ai fini del «rifiuto dell’esecuzione». Si avrebbe qui, al contrario, un semplice superamento dei risultati della cognizione piena su quelli della cognizione sommaria.

3. La contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata per motivi “interni”

Il «rifiuto dell’esecuzione» di un titolo esecutivo europeo potrà darsi in Italia (come altrove) anche indipendentemente dalla deduzione dello specifico motivo uniformemente previsto dall’articolo 21.

La contestazione da parte del debitore del diritto di procedere ad esecuzione forzata astrattamente spettante al creditore in virtù del possesso di una decisione avente efficacia di «titolo esecutivo europeo» potrà, dunque, essere, da noi, veicolata nelle consuete forme della opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. per la quale varranno le, del pari, consuete ed ordinarie “regole” in punto di ampiezza di discussione e di indagine che in tale giudizio sono consentite.

Va solo precisato, con riguardo a quest’ultima notazione, che se è vero che, pure nel caso di esecuzione forzata venutasi a fondare su di un titolo esecutivo europeo, a trovare applicazione saranno quei noti principi che presiedono, in sintesi, alla individuazione dei motivi spendibili con detto mezzo di contestazione concesso al debitore (esecutando o) esecutato, è anche altrettanto vero che detta circostanza è, comunque, in grado di giustificare talune puntualizzazioni.

Sin da subito, allora, andrà evidenziato che attraverso l’opposizione all’esecuzione il debitore esecutato non avrà, di certo, la possibilità di contestare il diritto di procedere ad esecuzione forzata del creditore sotto il profilo dell’inesistenza della qualità di titolo esecutivo della decisione cagionata dalla dedotta mancanza dei requisiti di certificabilità della decisione medesima.

Una tale contestazione deve ritenersi in tale sede preclusa sia perché essa potrà dare, semmai, fondamento ad un’istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo da proporsi ai giudici dello Stato membro di origine ai sensi dell’art.10 del Reg. n. 805/2004, sia perché, come espressamente previsto dall’art.21, paragrafo 2, di questo medesimo regolamento «in nessun caso la decisione o la sua certificazione come titolo esecutivo europeo può formare oggetto di un riesame nel merito nello Stato membro di esecuzione». La (in)sussistenza di uno dei motivi ostativi alla certificazione non potrà, quindi, costituire valido ed ammissibile motivo di opposizione (di forma) all’esecuzione[7].

Con l’opposizione all’esecuzione di cui all’art.615 c.p.c., peraltro e come noto, il debitore può contestare il diritto di procedere ad esecuzione forzata non solo e non tanto sotto il profilo della inesistenza (originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo) quanto, di più e diversamente, per inesistenza del diritto di credito incorporato nel titolo esecutivo.

Anche l’opposizione all’esecuzione per ragioni di merito proposta per l’ipotesi di esecuzione forzata intrapresa o minacciata in virtù di un titolo esecutivo europeo è soggetta ai medesimi limiti che essa incontra allorché di essa ci si voglia servire per paralizzare una esecuzione forzata fondata su di un titolo esecutivo interno.

Una contestazione di questo tenore potrà, quindi, ritenersi ammissibile (e fondata) solo allorché, è ovvio, il debitore faccia valere fatti estintivi, modificativi e/o impeditivi del diritto fatto valere in via esecutiva che siano sopravvenuti rispetto al referente temporale cui è agganciata, secondo la lex fori processus, l'(eventuale) efficacia di accertamento della decisione avente efficacia di titolo esecutivo europeo.

A tal proposito deve allora rilevarsi che qualora la decisione posta da noi in esecuzione rientri tra quelle che sono state certificate come «titolo esecutivo europeo», la soluzione in ordine alla latitudine dei motivi spendibili con una opposizione all’esecuzione di merito non può non tener conto della varietà dei provvedimenti che sono idonei a circolare in virtù delle norme dettate dal Reg. 805/2004. A tale proposito deve, insomma, osservarsi come non possa, almeno in astratto, escludersi che, nei vari Stati membri, la certificabilità come titolo esecutivo europeo venga “riconosciuta” anche a decisioni che non posseggano alcuna efficacia di accertamento e nemmeno vi tendano.

Qualora si verifichino casi di questo genere, la spendibilità di motivi di merito a sostegno della proposta opposizione all’esecuzione dovrebbe essere considerata sicuramente ammissibile e libera e potrà così coinvolgere anche la deduzione dell’inesistenza di uno dei fatti costitutivi del diritto di credito fatto valere in executivis o dell’esistenza di fatti e.i.m. già dedotti e/o deducibili nel procedimento svoltosi nello Stato membro di origine.

Non sembra, infatti, che ad impedire una tale conclusione possa ostare la formulazione dell’art. 21, par. 2, del Reg. n. 805/2004 a tenore del quale la decisione non può formare oggetto di alcun riesame nel merito nello Stato membro di esecuzione. Tanto nel caso di deduzione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi sopravvenuti, quanto in ipotesi di deduzione di fatti e.i.m. deducibili ma non dedotti, infatti, il giudizio che andrà svolgersi innanzi al giudice dello stato membro di esecuzione non solo avrà ad oggetto immediato l'(in)esistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma anche nel caso in cui si ritenga che l’accoglimento dell’opposizione di merito ponga capo ad un accertamento anche dell'(in)esistenza del diritto di credito sotteso al titolo deve, comunque, osservarsi che quella così esercitata sia, a tutti gli effetti, una, diciamo così, nuova azione che nulla ha a che vedere con un inammissibile riesame nel merito della decisione; e ciò in quanto il suo accoglimento non contrasta affatto con un’efficacia di accertamento che, in un caso, si estende solo sino ad un dato momento e che, nell’altro, è radicalmente assente.

Insomma, il divieto di riesame nel merito di cui al paragrafo 2 dell’art. 21 può ritenersi coincidente con i limiti che di solito incontra la proposizione di un’opposizione per motivi di merito allorché il titolo esecutivo sia di natura giudiziale e possegga (o quantomeno tenda ad) una efficacia di accertamento.

Solamente la rinnovata valutazione di un accertamento oramai definitivamente stabilizzatosi nei suoi limiti oggettivi e cronologici darebbe luogo ad un inammissibile riesame del merito da parte del giudice dello stato membro di esecuzione. Sembrando, pertanto, corretto ritenere che, qualora la decisione possegga (o tenda ad) una efficacia di giudicato, la deduzione di fatti sopravvenuti non incrina l’accertamento contenuto nella decisione e non da luogo ad alcun riesame di essa nel merito, mentre quando la decisione non possegga alcuna efficacia di accertamento (o, comunque, non tenda ad un accertamento) la deduzione di fatti anche non sopravvenuti non implicherà affatto riesame della decisione nel merito ma solamente ammissibile cognizione ex novo della controversia sostanziale.

Se è fuori di dubbio che l’opposizione all’esecuzione in quanto tale – ossia “limitata” al suo immediato oggetto di consistenza meramente processuale (id est inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata) – spetti alla giurisdizione esclusiva del giudice dello Stato membro in cui si svolge l’esecuzione, maggiori perplessità suscita, evidentemente, il caso in cui a tale immediato oggetto si aggiunga, in via appunto di accertamento incidentale ex lege, la controversia relativa all'(in)esistenza del diritto sostanziale rispetto alla quale la giurisdizione del giudice italiano potrebbe fare difetto

Si immagini il caso in cui il diritto di credito abbia ad oggetto il pagamento del prezzo di un bene compravenduto da consegnarsi, ad esempio, in Francia ed il creditore procedente sia ivi domiciliato; in questo caso l’azione di accertamento negativo di quel diritto non potrebbe mai radicarsi in Italia in quanto il convenuto è domiciliato in Francia e perché l’obbligazione dedotta in giudizio deve comunque eseguirsi ugualmente in Francia. Ebbene, qualora tale situazione si verifichi è da ritenere che il giudice dell’opposizione all’esecuzione possa comunque conoscere della opposizione proposta per motivi di merito dal debitore esecutato ma la sua eventuale decisione di accoglimento non potrà, poi, fare stato anche sulla questione pregiudiziale di merito ma dovrà invece, limitarsi, per tale aspetto, ad una cognitio incidenter tantum, così valorizzandosi il disposto dell’art. 6 della L.218/1995 il quale, prevedendo che «il giudice italiano conosce, incidentalmente, le questioni che non rientrano nella giurisdizione italiana e la cui soluzione è necessaria per decidere sulla domanda proposta» ha espressamente sancito l’automatica “conversione” in valutazione incidenter tantum della cognizione su questione pregiudiziali di merito che dovrebbero di solito essere decise ed accertate con efficacia di giudicato nell’ambito di apposite “cause” incidentali in ordine alle quali, però, difetti la giurisdizione del giudice italiano.

Alcune questioni sorgono allorché l’opposizione di merito proposta nell’ambito di un’esecuzione forzata intrapresa in forza di una decisione straniera possa concludersi, a cagione della sussistenza della giurisdizione del giudice italiano sul credito, con un accertamento avente efficacia di giudicato intorno all'(in)esistenza del credito medesimo. I problemi nascono una volta che di tale sentenza ci si voglia ad esempio servire nello stato membro in cui la (originaria) decisione è stata resa per ivi bloccare un’eventuale (e, a questo punto, ulteriore) iniziativa esecutiva promossa dal creditore sulla base di quella medesima originaria decisione. Si pensi al caso in cui il creditore abbia ottenuto in Germania una decisione esecutiva e passata in giudicato e che inizi l’esecuzione forzata sulla base di quella decisione in Italia anche se il debitore, dopo il passaggio in giudicato della decisione, ha interamente soddisfatto il credito; immaginiamo che il debitore proponga in Italia opposizione all’esecuzione facendo valere, in questa caso del tutto ammissibilmente, tale fatto estintivo sopravvenuto. L’opposizione viene accolta ed il giudice italiano munito di giurisdizione (perché, ad es., il creditore è domiciliato in Italia) accerta con efficacia di giudicato l’attuale inesistenza del diritto di credito. Il creditore, tuttavia, non contento della prima battuta d’arresto promuove esecuzione forzata in Germania di nuovo sulla base della stessa (originaria) decisione di condanna. Ci si chieda ora se nell’assai probabile giudizio di opposizione all’esecuzione (Vollstreckungsgegenklage) promosso questa volta in Germania dal debitore la decisione assunta in Italia può in qualche modo pregiudicare – ovviamente in senso favorevole alle ragioni del debitore – la decisione del rimedio oppositorio di cui si è avvalso l’esecutato.

La decisione italiana di accoglimento dell’opposizione all’esecuzione per motivi di merito (e, quindi, di accertamento dell’inesistenza attuale del credito) in effetti dovrebbe considerarsi automaticamente riconosciuta nella sua efficacia di accertamento, per così dire, extraprocessuale in Germania ai sensi delle pertinenti disposizione del Reg. 1215/2012, cosicché il giudice tedesco dovrebbe essere vincolato all’accoglimento per tale motivo dell’opposizione a lui proposta. Tuttavia, potrebbe ritenersi che la decisione italiana non possa essere riconosciuta in Germania – ossia nello stato membro in cui è stata emessa la originaria decisione di condanna – perché in (apparente) contrasto proprio con siffatta anteriore decisione tedesca. Tale tesi sembra però destinata ad essere considerata sicuramente infondata in quanto in tal caso non di vero e proprio contrasto si dovrebbe parlare quanto di fisiologico superamento dei limiti cronologici del (primo) giudicato interno.

Ad uguale risultato dovrebbe, ovviamente, pervenirsi allorché la decisione straniera la cui esecuzione forzata sia stata “bloccata” in Italia da una sentenza di accoglimento dell’opposizione all’esecuzione per motivi di merito (con accertamento incidentale ex lege sulla sopravvenuta inesistenza del credito) sia una decisione non contenente alcuna efficacia di accertamento ma possa, invece, annoverarsi tra quelle decisioni a cognizione sommaria dotate di esclusiva efficacia esecutiva. Anche in questo caso, infatti e come già in precedenza notato, non sembrerebbe potersi parlare di vero e proprio contrasto di decisioni quanto, più correttamente, di fisiologico avvicendamento tra il provvedimento sommario-provvisorio e la sentenza avente efficacia di giudicato conclusiva del giudizio dichiarativo a cognizione piena.

[7] Per la (invero pacifica) affermazione giurisprudenziale del principio v. Trib. La Spezia, 7 febbraio 2008, in Foro It., 2009, I, 936, Trib. Tolmezzo, 7 marzo 2009, in Riv. esec. forzata, 2009, 477, con nota di De Stefano, Trib. Monza, 1 febbraio 2010, in Riv.dir.int.priv.proc., 2001, 416, Trib. Nocera Inferiore, 16 gennaio 2013. Con riferimento ai casi in cui si cerchi di dare esecuzione in Italia ad una decisione «certificata come titolo esecutivo europeo», l’ammissibilità di una opposizione (di forma) ex art. 615 c.p.c. che venga a fondarsi sulla dedotta inesistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale (per carenza di una “valida” certificazione della decisione) dovrebbe, al contrario, ammettersi per le ipotesi di vera e propria inesistenzadel certificato. Situazione che sembrerebbe ricorrere allorché il certificato stesso sia stato rilasciato in relazione ad una decisione pronunciata su materia esclusa dall’ambito di applicazione oggettiva del regolamento ma non, invece, quando la certificazione sia stata resa con riferimento ad una decisione relativa ad un credito contestato. Ed infatti, se l’essere la decisione relativa alla materia civile e commerciale nel senso di cui all’art. 2 del Reg. n. 805/2004 costituisce condizione di applicabilità tout court del regolamento stesso, l’essere la decisione relativa ad un credito non contestato costituisce vero e proprio requisito di certificabilità della decisione stessa essendo perciò la sua (eventuale) inesistenza soggetta ai limiti di deducibilità che valgono per tutti gli altri requisiti previsti dal regolamento per la certificazione come titolo esecutivo europeo. Ulteriore caso in cui pare potersi superare la preclusione derivante dalla concentrazione in capo ai giudici dello Stato membro di origine della potestà di revoca del certificato (e, comunque, dalla regola che impone un divieto di riesame nel merito della decisione e del certificato) è quello in cui, ad es., il certificato sia stato rilasciato per una decisione non (o, comunque, non più) esecutiva nello Stato membro di origine. In tale ultima situazione crediamo, infatti, che il disposto di cui all”art.11 – ai sensi del quale, come già rilevato, il certificato ha effettosoltanto nei limitidell’esecutività della decisione giudiziaria – permetta al debitore di far valere detta originaria o sopravvenuta inefficacia del certificato (a prescindere da qualsiasi provvedimento formaledel giudice di origine che attesti tale situazione) anche nello Stato membro di esecuzione ed a mezzo di una opposizione all’esecuzione.

Redazione

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