I riflessi della dispensa dall’impedimento di disparitas cultus sull’esercizio dello ius connubii

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L’impedimento di disparitas cultus nel vigente Codex Iuris Canonici

Il vigente Codex, al can. 1086 § 1 (1), stabilisce che “Matrimonium inter duas personas quarum altera sit baptizata in Ecclesia catholica vel in eandem recepta (nec actu formali ad ea defecerit), et altera non sit baptizata, invalidum est” (2).

Si tratta di un impedimento relativo ad un matrimonio celebrato tra una persona battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta (e non separata da essa con atto formale) ed un’altra persona non battezzata (3).

La ratio dell’impedimento è fondata, in primis, sull’esigenza di tutelare la fede e la pratica cristiana della parte cattolica che potrebbero essere poste in pericolo dalla convivenza coniugale con un partner non battezzato, nonché assicurare l’educazione cattolica alla prole e garantire agli sposi e all’intera famiglia una piena comunione di vita che potrebbe essere compromessa da una fede religiosa diversa (4).

Ci si trova dinanzi, secondo la dottrina maggioritaria, ad un matrimonio che non ha dignità sacramentale (5): nell’unione tra cattolico e non battezzato risulta più difficile l’integrazione degli sposi in quell’intima communitas vitae et amoris che le è propria e che coinvolge le dimensioni più personali e profonde dei coniugi, avendosi piuttosto una dissociazione degli animi circa le convinzioni religiose. Ciò comporta di per sé una diversità di comportamento in merito ad aspetti che possono ostacolare la comunione di vita degli sposi, come, ad esempio, il numero e l’educazione dei figli o la pratica esterna dei doveri religiosi.

Tali difficoltà saranno tanto più accentuate quanto seriamente ciascuno dei due sposi voglia praticare la propria religione. Diverso è il caso in cui, dinanzi alla scarsa sensibilità dei coniugi ai valori religiosi, nessuno dei due darà eccessivo peso al fatto che l’altro continui a vivere in quella credenza religiosa, che egli ritiene non essere la vera, oppure che egli stesso non possa vivere pienamente secondo le esigenze della propria fede.

Ciò, però, non vuol dire che i matrimoni in esame siano privi di qualsivoglia rilevanza nella vita di fede dei battezzati e delle famiglie che da queste unioni verranno formandosi (6). Né si configura il sacramento solo per la parte cattolica (7): ricordiamo che il matrimonio ha natura geneticamente sinallagmatica, la quale implica un’identità di effetti per entrambe le parti ed esige che dal medesimo atto scaturisca per ciascun coniuge lo stesso effetto. Avendo pertanto il contratto uguale efficacia tra le parti, il sacramento deve essere unum et individuum. Su questa linea, l’unico matrimonio sacramento è quello celebrato da due soggetti entrambi battezzati: se entrambi non lo fossero, non si avrebbe sacramento per nessuna della due parti contraenti, pur nell’osservanza della forma canonica (8).

In questa prospettiva, l’impedimento di disparitas cultus assolve ad una funzione preventiva e pedagogica, perché serve a dissuadere la parte cattolica dall’accedere ad una tipologia matrimoniale che la menomerebbe della essenziale dimensione sacramentale (9), nonostante l’ordinamento giuridico canonico abbia limitato sempre più il proprio intervento in materia, lasciando alla responsabilità e al discernimento della parte cattolica le proprie scelte e i propri impegni (10).

Questi gravi inconvenienti intrinseci al matrimonio tra cattolico e non battezzato sono dunque la ratio legis dell’impedimento stabilito dal legislatore ecclesiastico sin dai primi secoli della Chiesa, la quale avverte la costante preoccupazione di tutelare il diritto divino, partendo dal presupposto che il cattolico che sposa un non battezzato si colloca in una situazione di pericolo che lo porterebbe a non essere fedele alle esigenze fondamentali della vita cristiana (11).

Gli orientamenti attuali della teologia in materia di sacramentalità del matrimonio, in realtà, affermano che il matrimonio, già come realtà umana, ha Dio stesso per autore, come il Concilio Vaticano II ha chiaramente ricordato: “Ipse vero Deus est auctor matrimonii” (GS 48). Esso non solo trae origine da Dio, ma in esso si manifesta in modo privilegiato la propria vocazione profonda, quella di essere in relazione con Dio, la quale trova il suo compimento pieno e definitivo nell’unione di Cristo e della Chiesa. In questa prospettiva si può parlare di sacramentalità in senso lato anche per il matrimonio non cristiano (12).

Comunque si voglia intendere la questione circa la sacramentalità del matrimonio contratto con dispensa dall’impedimento di disparità di culto, è possibile affermare che esso, anche se non è sacramento, neppure per la parte battezzata, è pur sempre un matrimonio canonico, avente una sua indiscutibile valenza religiosa ed ecclesiale, che impedisce di considerarlo alla stregua di qualsiasi unione meramente civile. È fuori discussione dunque la competenza della Chiesa a giudicare su questi matrimoni: in quanto valido e legittimo, il matrimonio tra una parte cattolica e una non battezzata pone i contraenti in una situazione di regolarità canonica che permette, alla parte cattolica, di accedere ai sacramenti e svolgere tutti quegli uffici ecclesiali che richiedono una vita conforme alla fede e all’incarico che assume. Pur essendo un matrimonio non sacramentale, resta pur sempre un evento ecclesiale: il vincolo che i coniugi contraggono non ha solo valore per la vita spirituale della coppia, ma anche quello di una testimonianza per la vita e la missione di tutta la Chiesa, anche se tale testimonianza è oggettivamente meno esplicita rispetto a quella offerta dal matrimonio tra due battezzati. Attraverso il coniuge battezzato, dunque, il matrimonio contratto con dispensa dalla disparità di culto diventa testimonianza e partecipazione all’ amore di Dio che, attraverso la fede della parte battezzata ed il suo inserimento nel mistero salvifico di Cristo, si fa ancora più esplicitamente vicino ad ogni uomo, anche se non credente, volendo illuminare e purificare l’amore umano in tutta la sua bellezza.

Potrebbe, in realtà, risultare problematico (13) che la Chiesa possa privare un fedele dell’esercizio dello ius connubii per motivi di indole soprannaturale: in tale ipotesi, il diritto naturale a contrarre matrimonio sarebbe condizionato da esigenze connesse con la fede e la vita cristiana. Ma, considerando la questione 59 del Supplemento della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, in cui si esamina l’impedimento di disparità di culto, si può cogliere il ragionamento con cui l’Aquinate giustifica l’esistenza dell’impedimento: “Il bene principale del matrimonio è la prole da educarsi al culto di Dio. Ma essendo l’educazione un compito comune al padre e alla madre, sia l’uno che l’altra tendono ad educare i figli al culto di Dio secondo la propria fede. Perciò, se essi sono di fede diversa, l’intenzione dell’uno sarà in contrasto con l’intenzione dell’altra. Quindi, non può risultare un buon matrimonio. Ecco perché la disparità di culto impedisce di contrarre matrimonio … non per carenza di fede, ma per la diversità di credenze, poiché la disparità di culto non solo impedisce la perfezione soprannaturale della prole, ma anche quella naturale, cercando di volgere i figli verso mete diverse”. Una simile dissociazione di animo su quelli che sono stati indicati come i massimi valori dell’uomo (14) proietta i suoi effetti su ogni profilo dell’esperienza esistenziale del matrimonio dispari, correndo il rischio di fomentare l’indifferentismo religioso, nel senso di creare una mentalità generalizzata secondo cui quello che conta per i rapporti con Dio è praticare una religione, senza dare importanza a quale religione sia da praticarsi.

Emerge, allora, con chiarezza, il nodo cruciale della disciplina canonistica dell’impedimento di disparitas cultus, e cioè il bilanciamento tra lo ius nubendi, da un lato, che deve estrinsecarsi senza circoscrizioni, e le esigenze sottese alla ratio dell’istituto, fino ad ora esaminate, che devono essere preservate (15): di sicuro, la Chiesa, pur riconoscendo la disparitas cultus come impedimento dirimente, tiene conto delle evoluzioni in senso multiculturale e multireligioso dell’attuale società (16) e si sforza di agire in coerenza con il comandamento fondamentale della carità che chiede apertura ad ogni genere di esperienza e di condizione umana.

L’impedimento non è la risultanza di pregiudizi con i quali proteggere il patrimonio religioso (17) ma è il frutto dell’esperienza secolare di umanità che riconosce gli inconvenienti che si annidano in tali unioni e che esorta a prevenirli o, quantomeno, a fronteggiarli (18): la Chiesa, infatti, una volta che questi matrimoni sono stati validamente e lecitamente celebrati, accompagna e assiste con premura le famiglie che si sono create.

Lo ius nubendi può essere circoscritto soltanto quando i valori superiori dell’ordine soprannaturale, quali la fede, la vita di grazia, la fedeltà alle esigenze della propria coscienza rettamente formata, sono compromessi e pregiudicati (19), per cui l’impedimento di disparitas cultus non produce un indebito affievolimento del diritto al matrimonio, ma assicura che la scala valoriale non sia mai sovvertita (20). Si tratta, dunque, di allargare l’angolo visuale, spostandosi da una forma di sospetto nei confronti dell’“infedele” e di difesa della propria appartenenza fideistica, ad una condizione promozionale e propositiva che si spenda generosamente in una convincente testimonianza della fede.

C’è,  addirittura, chi ha abbandonato ogni atteggiamento di sfavore verso questi matrimoni (21), sostenendo che la protezione dei valori della fede potrebbe essere sufficientemente soddisfatta anche con strumenti diversi da quello della comminazione dell’invalidità giuridica (22) e, a maggior ragione, per la circostanza che tali unioni sono viste come luoghi quasi elettivi in cui coltivare valori di libertà, solidarietà, tolleranza, esaltando le diversità piuttosto che mortificandole, e attraverso cui annunciare la buona novella (23), al fine di dare sostegno ad un diritto che risulta rigenerato dall’avvento di Cristo, così da tramutare una mera realtà terrestre in strumento di salvezza e di santificazione. Bisogna riconoscere, tuttavia, che la semplice abrogazione dell’impedimento di disparità di culto metterebbe solo provvisoriamente da parte le difficoltà che sopravvengono nel matrimonio con un non battezzato senza cancellarle.

Trattandosi di un impedimento, lo strumento cui il diritto canonico si affida è la dispensa che, nel caso in esame, presenta un mutamento di tendenza: se essa, in genere, aveva lo scopo di permettere qualcosa che in sé doveva essere evitato, nel nostro caso essa vuole dare sostegno ad un sacramento e al diritto del fedele, ossia il diritto al matrimonio, appunto, che, con l’avvento di Cristo, è stato tramutato da realtà terrestre a strumento di salvezza (24).

La concessione della dispensa è subordinata al soddisfacimento di alcune condizioni. Il can. 1086 § 2 sancisce, infatti, che “Ab hoc impedimentum ne dispensetur, nisi impeti condicionibus de quibus in cann. 1125-1126”.

Anzitutto, il can. 1125 consente all’Ordinario del luogo di concedere la licenza per un matrimonio misto solo se vi è una giusta e ragionevole causa. Egli  deve, pertanto, valutare la gravità della legge dalla quale si esenta in raffronto sia alla situazione delle parti ed al contesto in cui la coppia è destinata ad abitare, sia alla personalità e al temperamento dei nubendi, anche relativamente ai doveri di cui si caricheranno (25) nonché dovrà considerare l’intento manifestato dalle parti di voler esercitare il proprio diritto al vero matrimonio e celebrare le nozze in facie Ecclesiae; il giudizio dovrà tener conto della religione e del contesto culturale a cui appartiene la parte non battezzata, come delle sue convinzioni personali che fanno prevedere il suo atteggiamento futuro nei confronti della parte cattolica e della prole.

Oltre all’esistenza di una giusta e ragionevole causa, perché la concessione della dispensa sia lecita, bisogna osservare le condiciones (26) previste ulteriormente dal can. 1125:

Il n. 1 del suddetto canone prevede che “La parte cattolica si dichiari pronta ad allontanare i pericoli di abbandonare la fede e prometta sinceramente di fare quanto è in suo potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica”.

Evitare il pericolo di abbandonare la fede pone il cattolico dinanzi ad una scelta seria: se egli prevede che con tale matrimonio mette a rischio insuperabile la propria fede, è tenuto in coscienza a rinunziare ad esso. Dopo aver valutato adeguatamente le proprie forze e l’atteggiamento concreto dell’altro nubente, dovrà porre in atto tutte le cautele per impedire che la vita matrimoniale cada nell’indifferentismo religioso.

In merito ai matrimoni tra cattolici e musulmani, le Indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, emanate il 29 aprile 2005, non prevedono che la parte cattolica presti una sincera promessa ma soltanto che essa declarat se paratam esse, tanto che sarebbe da ritenersi invalida la dispensa che venisse concessa qualora la parte, pur dichiarando, expressis verbis, di voler preservare la sua fede, successivamente ponesse in essere azioni totalmente contrarie a tale impegno, mistificando le dichiarazioni offerte in vista della concessione della dispensa. A rendere invalida la dispensa, dunque, non sarebbe la falsità della dichiarazione, che rileva solo per la liceità, ma la mancanza di una giusta e ragionevole causa per la richiesta della dispensa, necessaria ad validitatem.

Occorre altresì la promessa di battezzare ed educare tutti i figli nella Chiesa cattolica: sul punto si è avuto un mutamento di prospettiva, in quanto se sotto la vigenza del Codex del 1917 si riteneva che l’ipotesi che i figli di una coppia mista non fossero educati nella fede cattolica e non entrassero, mediante il battesimo, nella comunità cristiana, trattandosi di un impedimento di diritto divino tale da proibire in radice la celebrazione di un matrimonio valido, con il Concilio Vaticano II e l’introduzione del vigente Codex, questo effetto paralizzante è stato ridimensionato tanto da consentire la celebrazione del matrimonio anche qualora non si potesse garantire il battesimo della prole. Non è previsto, infatti, in capo alla parte cattolica l’obbligo giuridico di battezzare i figli secondo la propria religione, ma ciò non implica la possibilità, per la parte acattolica, di porre in essere atteggiamenti prevaricatori nei confronti della parte cattolica.

Il vigente Codex, in realtà, non esige, come cauzione, che la parte cattolica si impegni a battezzare i figli nella Chiesa cattolica ma soltanto se omnia pro viribus facturam esse, ut universa proles in Ecclesia catholica baptizetur et educetur: essa si impegna pro viribus, ossia a fare tutto il possibile, tutto quanto è in suo potere per battezzare ed educare i figli nella Chiesa cattolica, indipendentemente dall’esito cui approda e, pur trattandosi di un dovere meno cogente, esso non può far ritenere alla parte cattolica di disattendere lecitamente la propria testimonianza di fede, qualora le condizioni non ne permettessero l’ottemperanza.

A ben riflettere, la cogenza non deriverebbe dall’obbligo contratto nel momento di richiesta della dispensa ma dall’impegno di diritto divino, che grava sui coniugi, di educare i figli alla fede e dal quale nessun cattolico può considerarsi esentato (27). La conseguente morbidezza, relativa all’inadempimento di questo compito, si spiega con la circostanza che la parte non battezzata è sempre libera di professare la propria fede. Anche per questa condizione si pone il problema della sincerità della promessa: la dottrina ritiene essenziale la sussistenza della effettiva volontà delle parti e, di conseguenza, considera nullo soltanto il matrimonio in cui la parte, pur promettendo ai fini della concessione della dispensa quanto richiesto dal can. 1086, non dia alcun seguito alle promesse fatte. In ogni caso, una promessa non sincera non è causa di invalidità della dispensa ma motivo di semplice illiceità.

Al n. 2 del can. 1125, invece, il legislatore ha sancito che “Di queste promesse che deve fare la parte cattolica sia tempestivamente informata l’altra parte, così che consti che questa è realmente consapevole della promessa e dell’obbligo della parte cattolica”.

Il dettato normativo non richiede che la parte acattolica debba approvare esplicitamente il contenuto della promessa ma è sufficiente che sia informata perché possa prenderne atto, visto che è con questa che la parte cattolica desidera costruire il consortium totius vitae. Non esiste dunque alcun onere a carico della parte non cattolica (28), lasciando alla libertà della sua coscienza il compito di permettere alla parte cattolica di ottemperare spontaneamente ai dettami della propria fede.

Il n. 3, inoltre, stabilisce che “Entrambe le parti sono istruite sui fini e le proprietà essenziali del matrimonio, che non devono essere esclusi da nessuno dei contraenti”.

Tale condizione, nel caso di specie, riveste una forte valenza evocativa poiché la parte cattolica si vede rimandata alle sue responsabilità (29) e la parte non cattolica è resa consapevole dell’ideale coniugale e familiare della persona che sta per sposare. Siamo dinanzi ad una norma di prevenzione contro un’eventuale invalidità del matrimonio, con la conseguenza che mentre l’istruzione da impartire alle parti si pone quale condizione ad liceitatem della dispensa, invece l’esclusione dei fini e delle proprietà essenziali non incide né sulla validità né sulla liceità della dispensa ma costituisce una simulazione che è autonomo caput nullitatis matrimonii (30).

I fini e le proprietà essenziali del matrimonio appartengono al matrimonio in quanto tale, non riguardano la fede dell’uno e dell’altro ma lo stesso diritto naturale. Se anche uno solo di essi viene negato, il matrimonio sarebbe nullo in quanto il consenso delle parti non si avrebbe sull’oggetto del matrimonio ma su una realtà che oggettivamente non è matrimonio, non consentendo al vincolo di sorgere perché verrebbe a mancare lo stesso oggetto matrimoniale: ecco perché la fonte dell’obbligo è lo stesso diritto naturale.

Anche San Giovanni Paolo II (31) ha ribadito molto chiaramente che lo stesso atto del consenso matrimoniale si comprende meglio in rapporto alla dimensione naturale dell’unione, che è il punto di riferimento rispetto al quale la persona vive la sua naturale inclinazione. Si tratta di vedere se i coniugi, oltre ad identificare la persona dell’altro, hanno veramente colto l’essenziale dimensione naturale della loro coniugalità, la quale implica la fedeltà, l’indissolubilità e la potenziale maternità o paternità, quali beni che integrano una relazione di giustizia. È la convergenza delle parti che fa della loro relazione un vero matrimonio e inoltre l’universalità dell’istituto matrimoniale nonché la sua sacralità, in quanto Dio ne è l’autore, consente di oltrepassare le distanze tra gli sposi, guidandoli alla pace e alla coesione: è il foedus matrimoniale a costituire la giustificazione e il futuro dell’unione non sacramentale di un cristiano con un non battezzato.

Il legislatore universale richiede altresì l’adempimento del can. 1126, per cui “Spetta alla Conferenza Episcopale sia stabilire il modo in cui devono essere fatte tali dichiarazioni e promesse, sempre necessarie, sia determinare la forma per cui di esse consti nel foro esterno e la parte non cattolica ne sia informata”.

La Conferenza Episcopale Italiana è intervenuta in questo ambito nel 1990 con il Decreto Generale sul matrimonio canonico, prescrivendo che le garanzie da parte cattolica devono essere sottoscritte davanti al parroco; il parroco deve attestare con dichiarazione scritta che la parte non cattolica è stata chiaramente informata circa le promesse fatte dalla parte cattolica; la dichiarazione scritta deve espressamente riportare che entrambe le parti sono state istruite sulla natura, sui fini e sulle proprietà essenziali del matrimonio che non devono essere esclusi da nessuno dei due contraenti; le tre dichiarazioni di cui sopra devono essere esibite all’Ordinario del luogo al quale si richiede di concedere la dispensa per il matrimonio dispari (32).

La dispensa dall’impedimento di disparità di culto produce certamente effetti particolari, data la richiesta di contrarre matrimonio canonico tra parte battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta e parte non battezzata. Per tal ragione il can. 1086 § 3 stabilisce che “Si pars tempore contracti matrimonii tamquam baptizata communiter habebatur aut eius baptismus erat dubius, praesumenda est, ad normam can. 1060, validitas matrimonii, donec certo probetur alteram partem baptizatam esse, alteram vero non baptizatam”.

La disposizione è ispirata al principio del favor matrimonii (can. 1060) e trova applicazione soprattutto nei luoghi di missione o in quelli in cui non sia possibile tenere con precisione i registri dei fedeli da parte degli ecclesiastici responsabili delle varie comunità e di coloro che li coadiuvano, comportando la possibilità di incertezze sul carattere o meno di battezzato di un soggetto.

Se dunque sussiste il dubbio circa il battesimo di una delle parti o di entrambe e questo sorge prima del matrimonio, la parte cattolica deve curare di ricevere il battesimo per assicurare il proprio bene spirituale e per rendersi abile a contrarre matrimonio; il battesimo in dubbio dell’altra parte si deve ritenere valido se, dopo un diligente esame o per un pericolo imminente, non è stato possibile eliminarlo (33). È chiaro, quindi, che nel caso di dubbio emerso prima del matrimonio, non è necessaria la dispensa da questo impedimento; se, invece, il dubbio sorge dopo il matrimonio ed esso è insuperabile, il legislatore stabilisce una praesumptio iuris circa la validità del matrimonio, la quale viene meno solo nel caso in cui si accerti che una parte era battezzata e l’altra non era battezzata, sussistendo l’impedimento di disparitas cultus: il matrimonio si presume valido fino al momento in cui si provi con certezza l’esistenza del battesimo in capo a una parte e la sua assenza in capo all’altra.

Sicuramente la realtà del matrimonio tra un battezzato nella Chiesa cattolica e un non battezzato è vecchia come la Chiesa stessa ma oggi è più sentita all’interno di una dimensione sociale che, anche se non più religiosamente omogenea, è protesa non al soffocamento delle diversità ma alla tutela e alla valorizzazione dell’identità personale degli individui, della libertà di coscienza e di religione. La Chiesa, secondo l’insegnamento vincolante del suo Fondatore alla libertà degli uomini, non teme il confronto con chi non ha incontrato il Verbo ma, anzi, coglie l’occasione per trasmettere e comunicare il suo insegnamento senza temere che ciò possa offendere le identità altrui, ma con la consapevolezza che in gioco vi è un dono che è per tutti e che va proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno, l’amore di Cristo, tenendo anche in considerazione che tali unioni possono costituire un’autentica ricchezza spirituale per le comunità cristiane e per il cammino ecumenico (34).

Una rilettura dell’istituto della dispensa in materia matrimoniale

La concessione della dispensa dagli impedimenti matrimoniali rientra nell’ambito dell’esercizio della potestà amministrativa e, al riguardo, occorre sottolineare che, se non esiste un diritto ad ottenere la grazia, esiste tuttavia il diritto del fedele di richiederla, di avere una risposta e di ricorrere all’autorità competente in caso di risposta negativa (35).

D’altra parte, l’Ordinario del luogo, nel valutare la richiesta ricevuta, è tenuto ad attenersi a criteri oggettivi e non a seguire il proprio arbitrio, in quanto non conta la volontà di chi esercita l’autorità ma il diritto del fedele ad essere aiutato nel raggiungere il suo bene spirituale: nel matrimonio esso consiste nel corretto esercizio dello ius connubii (36).

La facoltà di cui gode l’autorità competente è teleologicamente orientata verso un esercizio del potere di dispensa prudente e discreto, tendente a soddisfare non soltanto le esigenze legittime degli sposi, ma anche quelle della comunità ecclesiale in situazioni di tempo e di luogo determinate. Da un lato, dunque, vi è la tutela del bene pubblico, ossia il rispetto del valore del matrimonio, dall’altro invece l’interesse del singolo fedele a contrarre matrimonio: secondo tale prospettiva la dispensa si colloca come elemento necessario per contemperare tali due interessi e si ritiene che la chiave capace di bilanciare la sfera pubblica e privata sia l’equitas canonica (37).

Meritevole d’interesse è, altresì, la funzione strettamente pedagogica che le leggi meramente ecclesiastiche hanno, sicché una eccessiva facilità nel dispensare da esse rischierebbe di minare tale loro caratteristica.

Il principio di legalità, nella duplice declinazione in senso formale e in senso sostanziale, permea l’intera codificazione giovanneo-paolina e comporta l’emersione di un ulteriore criterio da tener presente nella concessione della dispensa da un impedimento matrimoniale: i fedeli si trovano in una situazione di uguaglianza sostanziale, la quale impone che ciascun caso sia considerato nella sua concretezza e nella sua singolarità, alla luce di criteri oggettivi che consentano di dare risposte omogenee per casi simili, cosicché la risposta dell’autorità competente, positiva o negativa che sia, troverà una giustificazione tanto nella sfera pubblica quanto nella sfera privata ed eviterà ogni giudizio di imparzialità e arbitrarietà.

Un’occasione importante per rileggere il ruolo che caratterizza l’istituto della dispensa in materia di impedimenti matrimoniali è offerta dalla XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebratasi il 24 ottobre 2015 (38) che ha riflettuto in merito alle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. In particolare, il Sinodo si è soffermato sull’impedimento di disparità di culto, analizzando i risvolti di una eventuale dispensa alla luce del contesto multiculturale e multireligioso che contraddistingue la società contemporanea.

Al numero 25 della Relatio Synodi si legge che “nei Paesi in cui la presenza della Chiesa Cattolica è minoritaria sono numerosi i matrimoni misti e di disparità di culto con tutte le difficoltà che essi comportano riguardo alla configurazione giuridica, al battesimo, alla educazione dei figli e al reciproco rispetto dal punto di vista della diversità della fede. In questi matrimoni può esistere il pericolo del relativismo o dell’indifferenza, ma vi può essere anche la possibilità di favorire lo spirito ecumenico e il dialogo interreligioso in un’armoniosa convivenza di comunità che vivono nello stesso luogo”.

Dall’analisi della normativa codiciale in materia di matrimoni misti (cann. 1124 ss.) e di quelli contratti con dispensa dall’impedimento di disparità di culto (can. 1086) si evince che la ratio del legislatore canonico è quella di tutelare la fede e la pratica cristiana della parte cattolica che potrebbero essere poste in pericolo dalla convivenza coniugale con un partner non battezzato o battezzato in una comunità non cattolica, assicurare l’educazione cattolica alla prole, nonché garantire agli sposi e all’intera famiglia una piena comunione di vita che potrebbe essere compromessa dalla pratica di una fede religiosa diversa (39).

Si è ritenuto, infatti, che unioni del genere possano rendere più difficile l’integrazione degli sposi in quell’intima communitas vitae et amoris (40) che è propria del matrimonio canonico e che coinvolge le dimensioni più personali e profonde dei coniugi, avendosi, così, in partenza una dissociazione di animi circa le convinzioni religiose e, di conseguenza, una diversità di comportamento in merito ad aspetti che possono ostacolare in gran parte la comunione di vita dei nubendi, come, ad esempio, il numero e l’educazione dei figli o la pratica esterna dei doveri religiosi.

La difficoltà sottesa alla concessione della dispensa, dunque, è subordinata alla finalità perseguita, che vuole essere preventiva e pedagogica, perché serve a dissuadere la parte cattolica dall’accedere ad una tipologia matrimoniale, probabilmente non conforme alla propria idea e concezione dell’istituto oggetto di analisi (41).

D’altra parte, il matrimonio è un istituto di diritto naturale e il cd. ius nubendi, di cui ciascun soggetto è titolare (42), stenta ad ammettere divieti. Il legislatore canonico, sia nel disciplinare i matrimoni misti, sia nell’includere tra gli impedimenti la disparità di culto, non intende affievolire o declassare tale diritto ma vuol impedire che la scala valoriale sia sovvertita (43): lo ius nubendi, infatti, può essere circoscritto soltanto quando i valori superiori dell’ordine soprannaturale, quali la fede, la vita di grazia, la fedeltà alle esigenze della propria coscienza rettamente formata, sono compromessi e pregiudicati.

Emerge, allora, con chiarezza, il nodo cruciale della disciplina canonistica dei matrimoni misti e di quelli celebrati con dispensa dall’impedimento di disparitas cultus, ossia il bilanciamento tra lo ius nubendi, da un lato, che deve estrinsecarsi senza circoscrizioni, e le esigenze sottese alla ratio dell’istituto che devono essere preservate (44).

L’istituto della dispensa, pertanto, non va concepito come strumento per limitare la libertà dei battezzati ma quale mezzo con cui supportare i fedeli nella tutela della propria fede, permettendo alle coppie che si formano di diventare un interessante laboratorio che investe problemi molto più ampi di quelli di gestione di conflitti relazionali e familiari (45).

I coniugi hanno il compito di mettere in comune, al servizio della famiglia, le loro esperienze e le loro aspirazioni, sulla considerazione che a rendere speciali tali unioni è ciò che caratterizza ogni singola unione: “l’uguale dignità personale dell’uomo e della donna nell’amore totale” (46).

La XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi offre, dunque, la possibilità di leggere con lenti nuove lo strumento dispensatorio dall’impedimento di disparitas cultus in particolare, e dagli altri impedimenti matrimionali in generale: esso, piuttosto che essere visto come ostativo all’esercizio dello ius connubii, potrebbe invece essere letto come un aiuto che il legislatore canonico mette a disposizione sia perché ciascun fedele possa esercitare al meglio il suddetto diritto, senza incorrere in un’eventuale conseguente invalidità del matrimonio celebrato, sia perché lo stesso bene pubblico possa essere al meglio tutelato. La disciplina della dispensa, pertanto, vuole essere strumentale ad un servizio pastorale più equo e che si traduce nella costante preoccupazione di tutelare la salus animarum, suprema legge della Chiesa, anche quando si tratta di provvedere al bene spirituale del singolo fedele (47).

Bibliografia

(1) Cfr. P. Pellegrino, L’impedimento di disparità di culto nel diritto canonico latino, in Il Diritto Ecclesiastico, 1, 1999, p. 164 ss., il quale ricorda che il Codex del 1983 non tratta più degli impedimenti impedienti ma solo di quelli dirimenti. Peraltro, bisogna tener presente che l’impedimento di mixta religio non si riscontra più nell’attuale Codex anche se la stessa figura giuridica viene considerata nel can. 1124 come matrimonio misto, proibito se contratto senza espressa licenza della competente autorità.

(2) Cfr. J.F. Castaño, Il sacramento del matrimonio, Pioda, Roma, 1994, p. 294 ss., il quale sottolinea la differenza tra il termine invalidum del can. 1086 § 1 e il termine nullum contenuto nel can. 1070 § 1 del vecchio codice pio-benedettino, rilevando che tale sostituzione offre un significato più consono alla realtà giuridica che il nuovo Codex vuole esprimere. Stando alla dottrina generale sul negozio giuridico, la realtà che segue la celebrazione matrimoniale quando interviene un impedimento non è un matrimonio nullum ma un matrimonio invalidum.

(3) Cfr. A. Arza, (voce) Disparitas cultus, in Aa.Vv., Nuovo dizionario di diritto canonico, a cura di C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda, Ed. San Paolo, Roma, 1993, p. 419 ss.

(4) Cfr. P. Moneta, Diritto al matrimonio e impedimenti matrimoniali, in Aa.Vv., Gli impedimenti al matrimonio canonico. Scritti in memoria di Ermanno Graziani, LEV, Città del Vaticano, 1989, p. 27 ss., il quale evidenzia che, nonostante si riconosca l’oggettività di tali motivi, non pochi sostengono che non sono tali da giustificare il perdurare di un impedimento dirimente che sarebbe stato più opportuno sopprimere equiparando la disparitas cultus alla mixta religio. Chi afferma ciò ritiene che la differenza di religione, in considerazione della società attuale, non costituisce ex se una circostanza di tale gravità da indurre il legislatore a farne oggetto di un divieto invalidante, con la conseguente limitazione della capacità matrimoniale dei soggetti contraenti e del loro ius connubii. Anziché proibire il matrimonio, annettendo a tale proibizione una sanzione di invalidità, si potrebbero rendere più efficaci gli interventi di carattere pastorale preventivi alla celebrazione del matrimonio, in modo da indurre nei nubendi la piena consapevolezza delle difficoltà, dei pericoli, delle controindicazioni che questo tipo di matrimonio può comportare sia sul piano della comunione interpersonale, sia su quello del mantenimento della fede religiosa, lasciando alla loro coscienza l’ultima decisione in proposito.

(5) Cfr. A. Perlasca, La sacramentalità del matrimonio contratto con dispensa dall’impedimento di disparitas cultus, in Quaderni di diritto ecclesiale, 2011, p. 294 ss., il quale sottolinea che, pur trattandosi di una dottrina pacificamente accolta in ambito canonico, a motivo della non assoluta indiscutibilità delle premesse teologiche che la sostengono, in futuro potrebbe essere cambiata; inoltre, diritto canonico e teologia devono procedere, per quanto faticoso, in modo dialogico, evitando le fredde considerazioni giuridiche e le calde visioni romantiche dell’amore sponsale che partecipa dell’amore di Cristo per la Chiesa e perfino dell’amore trinitario, esso pure sponsale.

(6) Cfr. F. La Camera, Ossimori impliciti e tautologie esplicite nella disciplina della dispensa da disparitas cultus tra cattolici e islamici, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), novembre 2008, p. 6 ss.

(7) Cfr. A.M. Abate, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica, Paideia, Roma-Brescia, 1985, p. 274 ss.; contra, O. Fumagalli Carulli, Il matrimonio canonico tra principi astratti e casi pratici, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 58 ss., la quale pone l’accento sul fatto che è pacifico che la dottrina consideri non sacramentale il matrimonio tra cattolico e non battezzato, in conformità ad una lunga tradizione magisteriale che va dal Concilio di Trento al M. P. Matrimonia Mixta di Paolo VI del 1970 a Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II del 1981.

(8) Cfr. U. Navarrete, Matrimoni misti: conflitto tra diritto naturale e teologia?, in Quaderni di diritto ecclesiastico, 1, 1992, p. 283 ss., il quale ribadisce, ad una voce con la dottrina comune, che se il coniuge pagano riceve il battesimo, il matrimonio che fino al momento del battesimo non era sacramento si trasforma, ipso facto, in matrimonio-sacramento, senza che sia necessaria nessun’altra cosa da parte dei coniugi: basta il battesimo di tutti e due i coniugi perché il matrimonio non sacramentale diventi sacramentale.

(9) Cfr. D. Mogavero, Il matrimonio con dispensa per disparitas cultus nell’ordinamento canonico, in Quaderni della Segreteria Generale CEI, 2007, p. 58 ss.

(10) Cfr. C.J. Errazuriz M., I matrimoni misti: approccio interordinamentale e dimensioni di giustizia, in Ius Ecclesiae, 2005, p. 221 ss.

(11) Es. 34, 15-16: “Non fare alleanza con gli abitanti di quel paese, altrimenti, quando si prostituiranno ai loro dei e faranno sacrifici ai loro dei, inviteranno anche te: tu allora mangeresti le loro vittime sacrificali. Non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie, altrimenti, quando esse si prostituiranno ai loro dei, indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dei”. È chiaro come, anche in questo caso, si protegga la fede del cattolico: Mosè pone dei divieti al fine di preservare il suo popolo e la fede di questo.

(12) Cfr. diffusamente M. Mingardi, L’esclusione della dignità sacramentale dal consenso matrimoniale nella dottrina e nella giurisprudenza recenti, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2001, p. 29 ss.

(13) Cfr. C.J. Errazuriz M., I matrimoni misti: approccio interordinamentale e dimensioni di giustizia, cit., p. 226 ss.

(14) Cfr. W. Bertrams, Questioni canonico-pastorali dei matrimoni misti, in Aa.Vv., La collegialità episcopale per il futuro della Chiesa, a cura di V. Fagiolo, G. Concetti, Vallecchi, Firenze, 1969, p. 486 ss., il quale scrive che il matrimonio consiste proprio nel continuo dialogo tra le parti, nel mutuo scambio spirituale in vista dell’aiuto reciproco. Tale dialogo non può evitare i massimi valori dell’uomo, il significato e il fine ultimo della vita umana. Se il dialogo esclude queste verità che riguardano la salvezza dell’uomo, il matrimonio come può essere un aiuto efficace per i coniugi nel condurre una vita conforme a quel significato e a quel fine? Se i coniugi non professano la stessa fede, come può attuarsi quell’unione, intima, spirituale, personale che, appunto, deve essere la base e la sorgente perennemente viva della comunione di vita nel matrimonio e nella famiglia?

(15) Cfr. G. Boni, Disciplina canonica universale circa il matrimonio tra cattolici e islamici, in Aa.Vv., Il matrimonio tra cattolici e islamici, LEV, Città del Vaticano, 2002, p. 36 ss.

(16) Cfr. G. Dalla Torre, La multiculturalità come dato di fatto e come programma etico-politico, in Aa.Vv., La cittadinanza. Problemi e dinamiche in una società pluralistica, Scritti raccolti da G. Dalla Torre, F. D’Agostino, Torino, 2000, p. 5 ss.

(17) Cfr. S. Allievi, Doppio misto. Le coppie interetniche in Italia, in Il Mulino, 5, 1997, p. 965 ss.

(18) Cfr. F. Bersini, Il diritto canonico matrimoniale. Commento teologico-pastorale, Leumann, Torino, 1994, p. 179 ss.

(19) Cfr. V. De Paolis, I matrimoni misti, in Matrimonio e disciplina ecclesiastica, Quaderni della Mendola, Glossa, Milano, 1996, p. 152 ss.

(20) Cfr. J.T. Martin De Agar, Le competenze della Conferenza Episcopale: cc. 1126 e 1127 § 2, in Aa.Vv., I matrimoni misti, LEV, Città del Vaticano, 2002, p. 142 ss., il quale ritiene che il primato della fede non significa l’annullamento della realtà in cui essa va vissuta, né genera una sorta di potestà indiretta della Chiesa in ambito temporale e nemmeno una specie di vis attractiva o di aprioristica prevalenza del diritto canonico riguardo alle unione miste, che possa ignorare i diritti o gli interessi di chi non è cattolico. Il senso delle cauzioni richieste dal C.J.C. è quello di far capire il rapporto che deve esistere tra amore coniugale, rispetto delle coscienze e responsabilità personale riguardo alla fede.

(21) Cfr. P. Moneta, Diritto al matrimonio e impedimenti matrimoniali, cit., p. 26 ss., il quale afferma che, riconosciuta la pienezza del diritto al matrimonio, sembra difficile ritenere che la differenza di religione costituisca, di per sé, una circostanza di gravità tale da incidere sulla capacità matrimoniale dei due soggetti, pregiudicando l’instaurazione del consortium totius vitae. Ciò tanto più nell’epoca attuale, caratterizzata dalla secolarizzazione, dalla perdita del sacro e dalla diffusione dell’indifferenza religiosa: il diritto naturale di ogni uomo a contrarre matrimonio avrebbe, quindi, trovato più adeguato riconoscimento con l’abolizione dell’impedimento dirimente di disparità di culto. Questo avrebbe potuto essere ridotto a semplice proibizione invalidante, come previsto per i matrimoni tra due battezzati di diversa confessione religiosa.

(22) Cfr. T. Mauro, Gli impedimenti relativi ai vincolo religiosi: ordo, votum, disparitas cultus, in Aa.Vv., Gli impedimenti al matrimonio canonico, LEV, Città del Vaticano, 2002, p. 202 ss.

(23) Cfr. P. Picozza, Osservazioni sul motu proprio “Matrimonia mixta” alla luce dei principi conciliari, in Il Diritto Ecclesiastico, 1, 1970, p. 360 ss., il quale inquadra la tematica dei matrimoni misti nell’ottica del proselitismo missionario e della fiducia ottimistica nella vittoria della fede.

(24) Cfr. L. Musselli, Nullità e scioglimento del matrimonio canonico tra cattolici ed islamici, in Aa.Vv., Il matrimonio tra cattolici ed islamici, LEV, Città del Vaticano, 2002, p. 174 ss.

(25) Cfr. B. Gianesin, Matrimoni misti, Dehoniane, Bologna, 1991, p. 139 ss., il quale afferma che c’è giusta causa tutte le volte in cui l’Ordinario si trova di fronte a un progetto serio di matrimonio.

(26) Cfr. O. Fumagalli Carulli, Il matrimonio canonico tra principi astratti e casi pratici. Con cinque sentenze rotali commentate, Vita e Pensiero, Milano, 2012, p. 55 ss., la quale ricorda che sono scomparse le cautiones del Codex 1917, in quanto tale terminologia denunciava una sorta di pregiudizio contro la parte non cattolica, oggi abbandonata in favore della più neutra espressione condiciones.

(27) Cfr. L. Musselli, Manuale di diritto canonico e matrimoniale, Monduzzi, Bologna, 2008, p. 193 ss., il quale ritiene che chi rifiuta qualsiasi impegno ad allevare ed educare la prole in senso morale e religioso contrae invalidamente, poiché l’educazione morale e religiosa è un gravissimum officium, un dovere gravissimo dei genitori. Esso comprende il dovere di dare ai figli la possibilità di coltivare e far crescere la loro fede tramite l’istruzione catechistica e scolastica: diversamente, esclude la finalità della educatio prolis. Non basterà, però, un atteggiamento di scarso impegno al confine col disinteresse quando si dia comunque la possibilità alla prole di avere una formazione cristiana o attraverso l’educazione impartita in ambito ecclesiale o attraverso l’educazione impartita dal coniuge che più sente e vive questo problema.

(28) Cfr. G.P. Montini, Le garanzie o “cauzioni” nei matrimoni misti, in Quaderni di diritto ecclesiale, 1, 2006, p. 291 ss.

(29) Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, I matrimoni tra cattolici e musulmani, Indicazioni, in Notiziario della CEI, 5/2005, Roma, 29 aprile 2005, afferma espressamente che i fini del matrimonio su cui i coniugi devono essere istruiti e che non possono dagli stessi essere esclusi sono quelli indicati ex can. 1055 § 1 che riguarda il bonum coniugum e la procreatio atque educatio prolis.

(30) Cfr. S. Villeggiante, Matrimonio canonico e matrimonio musulmano: due mondi a confronto nel matrimonio dispari, in Monitor Ecclesiasticus, 1986, p. 239 ss.

(31) Giovanni Paolo II, Discorso pronunciato all’udienza al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2001, in L’Osservatore Romano, 2 Febbraio 2001, p. 7.

(32) Conferenza Episcopale Italiana, Decreto Generale sul matrimonio canonico, 26 Settembre 1990.

(33) Cfr. F. Bersini, Il diritto canonico matrimoniale. Commento teologico-pastorale, Leumann, Torino, 1994, p. 75 ss.

(34) Cfr. M.P. Agostino, Matrimoni misti e problemi pastorali, in Diritto matrimoniale canonico, LEV, Città del Vaticano, 2005, p. 292 ss.

(35) Cfr. P. Pavanello, Licenze e dispense matrimoniali, in Quaderni di diritto ecclesiale, 4, 2011, p. 501 ss.

(36) Cfr. I. Zuanazzi, Il principio di legalità nella funzione amministrativa canonica, in Ius Ecclesiae, 1, 1996, p. 67 ss., la quale afferma che la concessione delle dispense e delle licenze matrimoniali, proprio perché non è un’azione arbitraria, deve essere ispirata a criteri di doverosità giuridica e deve essere subordinata non solo ai principi oggettivi dell’ordinamento canonico, ma anche al principio di parità di trattamento tra fedeli che si trovano nelle stesse condizioni e da quello di ragionevolezza.

(37) Cfr. P. Pavanello, La concessione di grazie: aspettative ed attese, in Aa.Vv., Discrezionalità e discernimento nel governo della Chiesa, a cura di J.I. Arrieta, Marcianum, Venezia 2008, p. 181 ss.

(38) Cfr. F. Gravino, Sinodo sulla famiglia e matrimoni misti, in Aa.Vv., Matrimonio e processo per un nuovo Umanesimo. Il m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus di Papa Francesco, a cura di P. Palumbo, Giappichelli, Torino 2016, p. 77 ss., il quale ricorda che l’indizione da parte di Papa Francesco nell’ottobre del 2014 della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi dedicata alle “Sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” aveva già manifestato l’intenzione del Romano Pontefice di riflettere in merito all’esperienza familiare, che è “scuola di umanità” (GS, n. 52) e che è centrale nella vita di tutti, in ragione del suo essere “Chiesa domestica” (LG, n. 11).

(39) Cfr. P. Moneta, Diritto al matrimonio e impedimenti matrimoniali, cit., p. 27 ss., il quale evidenzia che, nonostante si riconosca l’oggettività di tali motivi, non pochi sostengono che non sono tali da giustificare il perdurare di un impedimento dirimente che sarebbe stato più opportuno sopprimere equiparando la dispartias cultus alla mixta religio. Chi afferma ciò ritiene che la differenza di religione, in considerazione della società attuale, non costituisce ex se una circostanza di tale gravità da indurre il legislatore a farne oggetto di un divieto invalidante, con la conseguente limitazione della capacità matrimoniale dei soggetti contraenti e del loro ius connubii. Anziché proibire il matrimonio, annettendo a tale proibizione una sanzione di invalidità, si potrebbero rendere più efficaci gli interventi di carattere pastorale preventivi alla celebrazione del matrimonio, in modo da indurre nei nubendi la piena consapevolezza delle difficoltà, dei pericoli, delle controindicazioni che questo tipo di matrimonio può comportare sia sul piano della comunione interpersonale, sia su quello del mantenimento della fede religiosa, lasciando alla loro coscienza l’ultima decisione in proposito.

(40) Cfr. C. Giuffrè, L’impedimento di disparità di culto nel matrimonio canonico, in Il diritto di famiglia e delle persone, 3, 2013, p. 1209 ss., il quale rileva che la portata innovativa del Concilio Vaticano II si evince dalla nuova concezione del matrimonio canonico, inteso come un rapporto interpersonale, come un’intima communitas vitae et amoris coniugalis: esso, pur essendo inserito in un più ampio disegno divino che va al di là delle persone dei coniugi ed arriva a coinvolgere tutta la società umana, tuttavia trova il suo primo fondamento e la sua prima ragion d’essere proprio negli stessi coniugi ed in particolar modo nell’amore che li unisce.

(41) Cfr. D. Mogavero, Il matrimonio con dispensa per disparitas cultus nell’ordinamento canonico, cit., p. 58 ss.

(42) Cfr. ampiamente A. D’Auria, Libertà del fedele e scelta della vocazione. La tutela giuridica del can. 219 C.I.C., Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2012.

(43) Cfr. J. Martin De Agar, Le competenze della Conferenza Episcopale: cc. 1126 e 1127 § 2, cit., p. 143 ss.

(44) Cfr. G. Boni, Disciplina canonica universale circa il matrimonio tra cattolici e islamici, cit., p. 36 ss.

(45) Cfr. S. Allievi, Doppio misto. Le coppie interetniche in Italia, cit., p. 966 ss.

(46) Cfr. M. Borrmans, Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2015, p. 149 ss.

(47) Cfr. S. Berlingò, La dispensa dagli impedimenti matrimoniali, in Aa.Vv., Diritto matrimoniale canonico, vol. 1, a cura di P.A. Bonnet, C. Gullo, LEV, Città del Vaticano 2002, p. 391 ss., il quale afferma che il reale e concreto interesse pastorale dei fedeli è il vero ed unico parametro per il corretto rilascio delle dispense: in assenza di esso il potere è illegittimamente esercitato.

 

Avv. Gravino Federico

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