Responsabilità dell’ente da reato e principio di legalità

Redazione 20/08/19
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Premessi alcuni brevi cenni sulle peculiarità essenziali della responsabilità degli enti da reato, vediamo in che modo la summenzionata responsabilità si relaziona con il principio di legalità.

Per sapere tutto su questo argomento leggi “La responsabilità amministrativa degli enti” di Vincenzo Apa, Giovanni Caruso, Piercarlo Felice, Damiano Marinelli

Lineamenti essenziali della responsabilità degli enti

Prima dell’introduzione del d. lgs. n. 231/2001, la configurabilità della responsabilità degli enti da reato veniva esclusa, tra l’altro, argomentando sulla base dell’art. 27 Cost., che reca il principio di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena. Si rilevava, infatti, che il reato presuppone un determinato coefficiente psicologico di partecipazione al fatto (il dolo o la colpa) che non sarebbe stato dato ravvisare con riferimento all’ente, ma solo in relazione alla persona fisica.

Oggi la responsabilità dell’ente da reato è stata prevista dalla legge n. 231/2001, sebbene sia qualificata come amministrativa. Tuttavia, il dibattito sulla natura della responsabilità dell’ente previsto dalla legge n. 231/2001 non risulta del tutto sopito.

Da un lato, l’esigenza di una interpretazione costituzionalmente orientata della responsabilità dell’ente da reato conduce a confermarne la natura amministrativa. Infatti, ove si propendesse per la tesi della natura penale della responsabilità dell’ente, si potrebbe registrare una frizione, tra l’altro, con: (i) il principio di personalità della responsabilità penale, in particolare nel caso di fusione, scissione e trasformazione di società; (ii) il principio di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2, Cost. (laddove sembra richiedersi, ai fini dell’esenzione da responsabilità, la dimostrazione dell’assenza della c.d. “colpa da organizzazione”); (iii) il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, l’art. 58 del d. lgs. n. 231/2001 prevede che “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59, il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”.

D’all’altro, non manca chi sostiene la natura penale della responsabilità dell’ente da reato, riducendo l’espressa qualificazione legislativa a una “frode delle etichette”. A favore di questa impostazione (che oggi ci pare comunque minoritaria) militerebbero la stretta connessione responsabilità dell’ente con la commissione di un reato e l’accertamento della stessa nell’ambito del processo penale.

In disparte il problema della natura giuridica della responsabilità dell’ente, elementi essenziali della stessa sono:

(i) l’integrazione di uno dei c.d. “reati presupposto” elencati agli artt. 24 ss. del d. lgs. n. 231/2001;

(ii) la circostanza che il reato presupposto sia stato commesso da uno dei soggetti menzionati all’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001;

(iii) la commissione del reato presupposto nell’interesse o a vantaggio dell’ente (sempre in base all’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001);

(iv) la sussistenza della c.d. “colpa di organizzazione”.

Sulla scorta di questi elementi è dunque senz’altro possibile affermare che la responsabilità dell’ente è comunque una responsabilità diversa e aggiuntiva rispetto a quella del soggetto autore del reato presupposto.

Rapporti tra la responsabilità dell’ente e il principio di legalità

Come si è visto, affinché la responsabilità responsabilità dell’ente sia configurabile occorrono una norma che preveda quel fatto come reato e una norma che preveda per quel reato anche la responsabilità dell’ente.

I reati presupposto sono, infatti, un numerus clausus.

Per questo, sorgono delle criticità nei casi in cui siano annoverate tra i reati presupposto talune fattispecie “aperte”, che implichino cioè un rinvio ad altri reati, questi ultimi non ricompresi nel catalogo individuato dagli artt. 24 ss. del d. lgs. n. 231/2001.

In particolare, il problema si è posto per l’associazione a delinquere ex art. 416 c.p. e per le fattispecie di riciclaggio e di autoriciclaggio ex artt. 648 bis e ter c.p.

Come noto, il reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. ha tra i suoi elementi essenziali il programma criminoso condiviso dagli associati, che ha ad oggetto la commissione di ulteriori reati.

Ci si è dunque chiesti se l’ente possa rispondere non solo per il reato di cui all’art. 416 c.p. commesso da uno dei soggetti menzionati all’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001, ma anche per i c.d. “reati scopo” oggetto del programma criminoso ma non ricompresi nel catalogo individuato dagli artt. 24 ss. del d. lgs. n. 231/2001.

La responsabilità dell’ente per i reati scopo sembra da escludere secondo la Sesta sezione penale della Corte di cassazione (sentenza n. 3635 del 24 gennaio 2014) secondo la quale, allorché si proceda per il delitto di associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato. Verrebbe altrimenti violato il principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato d. lgs. n. 231/2001, poiché l’art. 416 c.p. si tradurrebbe in una disposizione potenzialmente idonea a ricomprendere nel novero dei reati-presupposto qualsiasi fattispecie di reato.

Di diverso avviso sembrerebbe essere l’ordinanza della Corte d’Assise di Taranto del 4 ottobre 2016.

Quanto alle fattispecie di riciclaggio e di autoriciclaggio esse costituiscono fattispecie astratte con cui si incriminano condotte di “ripulitura” di profitti derivanti da altri reati (c.d. reati presupposto). Ci si è dunque chiesti se sia dato ravvisare una responsabilità dell’ente quando uno dei soggetti menzionati dall’art. 5 d. lgs. n. 231/2001 effettui la ripulitura di profitti derivanti da reati ultimi non ricompresi nel catalogo individuato dagli artt. 24 ss. del d. lgs. n. 231/2001.

Pur non essendo questa la sede per tentare di offrire una soluzione alla questione appena posta, si segnala che essa si pone in modo diverso rispetto al problema della configurabilità della responsabilità dell’ente in relazione ai reati scopo dell’associazione per delinquere.

Le condotte di riciclaggio e di autoriciclaggio potrebbero essere considerate – si potrebbe dire – maggiormente compiute nella loro autonoma tipicità rispetto al reato di associazione per delinquere.

Al contempo, in via generale, si potrebbe comunque ritenere sussistente il rispetto del principio di legalità ogniqualvolta il legislatore scientemente decida di inserire, nel catalogo dei reati idonei a generare responsabilità dell’ente, fattispecie a struttura aperta con lo scopo di responsabilizzare l’ente in modo ampio e al fine di ampliare l’ambito della tutela di beni giuridici protetti in sede penale.

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