Registrazioni delle conversazioni con il datore di lavoro: utilizzabili in un giudizio?

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La registrazione di conversazione assurge al rango di prova se effettuata da uno dei soggetti coinvolti nella conversazione

Spesso, nell’ambito delle controversie di lavoro, viene avvertita l’esigenza, da parte dei dipendenti, di effettuare registrazioni di colloqui con il proprio datore di lavoro, all’insaputa di quest’ultimo, tramite appositi supporti (telefoni, registratori ambientali, microspie) e al fine di ottenere l’assunzione di determinati mezzi di prova. Si pensi al caso del lavoratore assunto “in nero” che intende premunirsi di documenti finalizzati alla dimostrazione dell’effettiva esistenza del rapporto di lavoro subordinato, o ancora al dipendente che intende documentare atti discriminatori effettuati dal principale.

Ma sono sempre utilizzabili tali registrazioni? Quali sono i limiti che impediscono l’acquisizione di certe riproduzioni?

Al fine di rispondere a tali quesiti, è opportuno avanzare un’analisi, prima del prevalente orientamento giurisprudenziale attinente all’argomento, poi di quali sono le condizioni che consentono effettivamente l’utilizzabilità, in sede processuale, delle riproduzioni in esame,

La Cassazione sulle registrazioni occulte

Al riguardo, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione, intervenuta più volte sul tema, si mostra favorevole all’utilizzabilità delle registrazioni de qua, anche telefoniche, prevedendo, come requisito essenziale, che la registrazione venga realizzata da un soggetto che partecipi effettivamente alla relativa conversazione, senza la necessità di una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, in quanto tali riproduzioni non vengono ritenute contrastanti con la la libertà di comunicazione della persona.

Nel caso, perciò, in cui la registrazione venga effettuata da un terzo, risulteranno integrati gli estremi di una vera e propria intercettazione (caratterizzata dall’estraneità al dialogo del captante), pertanto utilizzabile come mezzo di prova soltanto qualora realizzata da un’autorità inquirente, nel rispetto delle relative disposizioni del codice di procedura penale.

I giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che, nel caso in cui il datore di lavoro disconosca la conformità ai fatti o alle cose delle registrazioni, quest’ultime risulteranno degradate, da piene prove, a mere presunzioni semplici, con la conseguente necessità di essere avvalorate da ulteriori elementi, anche indiziari. Il disconoscimento, inoltre, dovrà essere “chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta)” e dovrà avvenire nella prima udienza, o nella prima risposta successiva all’acquisizione delle registrazioni (Cass. n. 9526/2010).

Tra le massime della Cassazione si propongono:

Cass., SS.UU., n. 36747/2003:

“la registrazione costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa” (Cass., SS.UU., n. 36747/2003);

Cass., Sezione lavoro, n. 27424/2014:

“la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/11; Cass. pen. n. 16986/09; Cass. pen. n. 14829/09; Cass. pen. n. 12189/05; Cass. pen. S.U. n. 36747/03)”.

Le condizioni necessarie per l’utilizzabilità delle registrazioni occulte nel processo

La Suprema Corte si è inoltre espressa circa le condizioni che legittimano la produzione, in giudizio, delle registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore, rinvenendo tali condizioni in:

  • Esigenza di tutela o riconoscimento di un diritto;
  • Utilizzo delle riproduzioni esclusivamente per esigenze di difesa e durante il periodo necessario a dette esigenze.

Inerentemente al primo requisito, è opportuno specificare che la diffusione di una conversazione registrata, per necessità differenti dalla tutela di un proprio diritto o un diritto altrui, risulti idonea ad integrare la fattispecie di trattamento illecito dei dati personali, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. 196/2003 (conformemente, Cass. n. 18908/2011).

Con riferimento alla seconda condizione, invece, emerge chiaramente la fattispecie di cui all’art. 24, lettera f) del codice della privacy, la quale esclude l’esigenza del consenso dell’interessato, qualora le registrazioni vengano utilizzate al fine di “far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale”.

Il caso concreto: la sentenza n. 27424/2014

Emblematico è un caso giunto al vaglio dei giudici di legittimità, nel quale si discuteva circa l’utilizzabilità in giudizio della registrazione di una telefonata, da parte di un lavoratore, con il proprio datore. 

Con tale sentenza del 2014, la Corte ha chiarito la validità della riproduzione come elemento probatorio, in quanto realizzato da uno dei soggetti coinvolti nella conversazione. La pronuncia, inoltre, ha confermato il rigetto delle richieste della società ricorrente, escludendo la rilevanza della condotta del lavoratore dal punto di vista disciplinare, perché finalizzata alla produzione dei dati registrati nel processo.

Nella fattispecie, la Suprema Corte ha inoltre ribadito come il dipendente non abbia violato il vincolo di fiducia con il datore di lavoro, in quanto l’affidamento del capo sul proprio dipendente ha ad oggetto esclusivamente la capacità di quest’ultimo di adempiere alle proprie mansioni lavorative, e non anche la “condivisione di segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa” .

Dato, perciò, l’intento del dipendente di registrare la conversazione al fine di acquisire prove a suo favore, la Cassazione ha confermato le posizioni dei giudici di merito inerentemente all’applicabilità della scriminante dell’esercizio del diritto alla difesa, di cui all’art. 51 c.p.

I principi fissati dalle sentenze della Cassazione

Gli elementi essenziali, che emergono dalle principali pronunce della Suprema Corte, hanno perciò consentito di stabilire la sussistenza dei seguenti principi:

  • L’inserimento delle registrazioni delle conversazioni tra presenti nella disciplina della fattispecie di cui all’art. 2712 c.c., disciplinante la valenza probatoria delle riproduzioni meccaniche;
  • L’estensione del diritto alla difesa ad una fase prodromica a quella specificatamente processuale, finalizzata all’acquisizione dei mezzi di prova in essa utilizzabili;
  • L’esclusione dell’applicabilità di sanzioni disciplinari nei confronti dei soggetti che registrano conversazioni tra presenti, essendo tale condotta esercitata al fine del legittimo esercizio di un diritto (con la conseguente applicabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p.);
  • La sanzionabilità delle registrazioni di conversazioni tra presenti per finalità illecite.

È opportuno specificare, per completezza, la differente disciplina applicabile nei confronti del datore di lavoro, il quale effettui registrazioni fonografiche o audiovisive al fine di controllare l’attività dei propri dipendenti. Fattispecie disciplinata dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, così come modificato dal D.Lgs. 151/2015 (per un orientamento conforme, cfr. il provvedimento del Garante della privacy, in data 22 dicembre 2016 n. 547).

Un orientamento discordante: la sentenza n. 16629/2016

Avanzando un approccio interpretativo parzialmente differente dai precedenti orientamenti, la Cassazione, nel 2016, sembra porsi in una posizione maggiormente sfavorevole nei confronti dell’utilizzo in giudizio delle registrazionei effettuate dai dipendenti all’insaputa del datore di lavoro.

Nella fattispecie in esame, la Corte, pur ribadendo il principio della legittima produzione in giudizio, da parte del lavoratore, di copia di atti aziendali attinenti alla propria posizione lavorativa, ha specificato la necessità di valutare le modalità di acquisizione di tale documentazione al fine di constatare l’eventuale sussistenza di una giusta causa di licenziamento “per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.” (Cass. n. 16629/2016).

Emerge il rischio, infatti, che certe “modalità di apprensione ed impossessamento dei documenti potrebbero di per sé concretare ipotesi delittuose, o comunque integrare la giusta causa di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.” . Nel caso in questione, la diffusione di atti aziendali, ad opera del dipendente, venne ritenuta dai giudici di legittimità “in contrasto con gli standard di comportamento imposti dal dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario”.(Cass. n. 16629/2016).

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