Referendum 2020: cronaca di una morte annunciata della democrazia parlamentare

 

Il 20 ed il 21 settembre noi cittadini italiani siamo chiamati a partecipare al voto referendario riguardante il taglio del numero dei parlamentari, in concomitanza con le elezioni regionali – che interessano 8 delle 15 regioni a Statuto ordinario, ovvero Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia – e con le elezioni amministrative in 1.184 comuni, di cui 3 capoluogo di regione, Venezia, Trento ed Aosta, e 15 capoluogo di provincia, ossia Chieti, Matera, Crotone, Lecco, Mantova, Fermo, Macerata, Andria, Trani, Nuoro, Reggio Calabria, Agrigento, Enna, Arezzo, Bolzano. In Sicilia e Sardegna, invece, le consultazioni elettorali amministrative si svolgeranno tra ottobre e novembre.

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La vera “partita” politica si gioca sul referendum, ovvero sulla effettiva sussistenza dei presupposti della democrazia parlamentare: si tratta, infatti, di un referendum confermativo – la cosiddetta “riforma Fraccaro”, dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il veneto pentastellato Riccardo Fraccaro, primo firmatario del provvedimento. Questi, da una veloce lettura della biografia sul sito del governo, non sembra possedere particolari competenze in materia di riforme costituzionali. La consultazione riguarda il testo della legge costituzionale recante modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei membri del Parlamento, pubblicato nella GURI n. 240 del 12 ottobre 2019. (La memoria ci porta, a tal proposito, al 1963, in piena stagione del “Centrismo”, quando durante il IV Governo Fanfani viene approvata la Legge Costituzionale n. 2 di modifica degli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione per fissare a 630 il numero dei deputati ed a 315 quello dei senatori, parificando inoltre la durata del mandato dei due rami del Parlamento). In quanto consultazione referendaria di natura costituzionale, non è previsto il raggiungimento di un quorum per la validità dell’esito, per cui si prescinde dalla percentuale di partecipazione degli aventi diritto al voto.

Il testo della legge di revisione costituzionale, approvato in via definitiva nell’ottobre 2019, prevede il taglio del 36,5% dei componenti sia della Camera dei Deputati che del Senato. Nonostante il testo sia stato approvato dalla Camera a maggioranza di due terzi dei suoi componenti, non ripetendosi il medesimo risultato al Senato – dove l’atto è stato approvato a maggioranza assoluta dei propri componenti – la promulgazione del provvedimento di revisione è stato sospesa in quanto un quinto dei senatori hanno depositato presso la Corte Suprema di Cassazione apposita richiesta di referendum confermativo, così come stabilito dal dispositivo costituzionale dell’art. 138.

Se a prevalere dovessero essere i “sì”, il numero dei parlamentari diminuirebbe dagli attuali 945 a 600, nello specifico alla Camera da 630 a 400 deputati, mentre al Senato da 315 a 200 senatori.

Tale tentativo di riforma costituzionale compromette il principio della rappresentanza democratica, riducendo, infatti, in modo significativo la rappresentatività dell’organo titolare della sovranità popolare: alla Camera dei Deputati, oggi, il rapporto è di un deputato per 96 mila abitanti, mentre al Senato è di un senatore per 188 mila abitanti. Con le modifiche previste aumenta a dismisura la distanza – non solo dalle esigenze dei singoli territori, ma anche fisica con l’elettorato – tra i rappresentanti politici e la popolazione. Il rapporto diventa di un deputato per 151.200 abitanti e di un senatore per 302.420 abitanti. In nome della sbandierata riduzione della spesa pubblica da parte dei fautori della riforma – ma in tal caso il risparmio ammonterebbe a circa 57 milioni l’anno, ossia lo 0,007% della spesa pubblica – viene svilito il ruolo dell’organo cardine del nostro sistema istituzionale, ovvero il Parlamento, sollevando al contempo rilevanti dubbi sull’effettivo funzionamento dell’intero apparato statale: un tale intervento di “manutenzione straordinaria” della Costituzione per un così irrisorio risparmio è stato pure definito «stupido» dall’economista Carlo Cottarelli.

D’altronde, non è un caso se 250 costituzionalisti – da Maria Cristina Cabiddu a Salvo Andò, da Paolo Caretti a Vincenzo Casamassima, da Matteo Cosulich a Giuseppe de Vergottini, da Gianluca Famiglietti a Tommaso Frosini, da Andrea Piraino a Giuseppe Pisicchio, da Annamaria Poggi a Giuseppe Rescigno, da Antonio Ruggeri a Giuseppe Tesauro a Massimo Villone (solo per citarne alcuni) – firmano un documento sulla natura della riforma – definita «monca e destabilizzante» – sottolineando come essa possa causare più danni che benefici al meccanismo del bicameralismo paritario. Di progetti di riforma del sistema politico-istituzionale – sarebbe più corretto parlare di tentativi, tra dibattiti parlamentari ed elaborazioni accademiche – la storia ci consegna alcuni precedenti illustri, susseguitisi fin dagli anni Ottanta[1]: dalla “Commissione bicamerale per le riforme istituzionali”, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, Consigliere di Stato, tra il 1983 ed il 1985 – in piena stagione del “Pentapartito”, con i governi a trazione socialista guidati da Bettino Craxi – , alla “Commissione bicamerale per le riforme costituzionali”, tra il 1993 ed il 1994, presieduta prima dall’ex segretario democristiano Ciriaco De Mita e, dopo le dimissioni di quest’ultimo, dall’ex presidente della Camera Nilde Iotti – durante i governi Amato e Ciampi – il cui progetto di riforma, che interveniva a modificare anche la forma di governo, avvicinandosi al modello tedesco, viene rinviato per lo scioglimento anticipato delle Camere; alla cosiddetta “Bicamerale D’Alema”, tra il 1997 ed il 1998, presieduta dal segretario del PDS Massimo D’Alema, durante l’esperienza governativa de “L’Ulivo”, guidata dall’ex presidente dell’I.R.I. Romano Prodi – la stagione politica del Centro-Sinistra (col trattino) – . C’è da dire però che nessuna delle proposte di revisione costituzionale venne prese in esame dal Parlamento, ed i vari tentativi, pur lungamente dibattuti, non ebbero sbocco legislativo. Della cosiddetta “riforma Renzi-Boschi”, del 2016, molto è stato detto e scritto, e in questa sede non si vuole ulteriormente infierire: da un lato, l’approvazione del disegno di legge di revisione costituzionale a colpi di maggioranza, dall’altro lato, la personalizzazione – da parte dell’allora presidente del consiglio in carica – della consultazione referendaria, hanno prodotto il risultato a tutti noto: il voto contrario del 59,2% di italiani.

Voto di preferenza

La vera scommessa per la classe politica è la reintroduzione del voto di preferenza – per invertire il trend crescente dell’astensionismo: dalle elezioni politiche del 2006 in cui l’affluenza alle urne è stata pari al 84,24% al dato dell’elezioni politiche del 2018 con un’affluenza pari al 72,93% – riportando il corpo elettorale alle urne ormai inevitabilmente disaffezionato, da Tangentopoli in poi, alle vicende politiche del Paese. Prima col referendum abrogativo del 1991, che sostituì con la preferenza unica le tre preferenze, poi definitivamente cancellate con l’approvazione della nuova legge elettorale nel 1994, al riguardo della quale Giovanni Virga affermò come «una delle storture più evidenti dell’attuale sistema elettorale (…) avere eliminato il voto di preferenza, di guisa che l’elettore si trova di fronte ad una lista bloccata, decisa dalle segreterie dei partiti».[2] Ancora nel 2014, in un bell’editoriale su “La Stampa” dal titolo “Non si può rinunciare alle preferenze”, Stefano Passigli scrive «scopo delle liste bloccate non è la moralizzazione della vita pubblica, ma piuttosto assicurare alle segreterie di partito il completo controllo delle candidature (…) privando di rappresentanza le minoranze (…) rafforzando in ogni partito quelle tendenze leaderistiche e plebiscitarie (…) ormai diffuse in tutti i partiti», aggiungiamo, vero cancro della vita democratica del nostro Paese. Con buona pace di chi – come Augusto Barbera, notoriamente contrario al sistema delle preferenze – individua nell’introduzione della preferenza la causa della frantumazione del sistema politico, tirando in ballo addirittura Tangentopoli, quando afferma che «causa non ultima, ma non principale, di Tangentopoli fu anche la ricerca di disponibilità di risorse finanziarie da parte dei singoli candidati per campagne elettorali all’interno della stessa lista e dello stesso partito che richiedevano ingenti risorse finanziarie». Ancora, prosegue Barbera, «…il voto di preferenza accresce il peso delle organizzazioni portatrici di microinteressi settoriali, legittimi, se volete, ma da equilibrare, evitando che abbiano un peso abnorme».[3] A nostro parere, nulla di più errato; del resto anche la Corte Costituzionale si è espressa a favore della possibilità di scelta da parte dell’elettore, con la Sentenza n. 1 del 2014, affermando che «sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbe sì che il voto non sia né libero, né personale» e, proseguendo, dichiara inoltre che «non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza per i candidati, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione di tutti i candidati, renderebbero, infatti, il voto sostanzialmente “indiretto”», in considerazione anche del fatto che, secondo il dispositivo costituzionale dell’art. 67, il mandato elettorale è conferito direttamente dagli elettori, proprio sulla base della preferenza espressa. Già nel 1975, con la Sentenza n. 203, i Giudici delle leggi si erano pronunciati in riferimento al sistema elettorale allora vigente nei comuni, affermando che la libertà di voto del cittadino si ritiene garantita a condizione che quest’ultimo «sia pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza».

Piuttosto che aumentare la distanza fra i cittadini italiani e la classe dirigente del Paese, intervenendo scelleratamente con il taglio dei parlamentari, sarebbe politicamente corretto mettere mano – in modo serio – alla spesa pubblica, per esempio quella sommersa derivante dagli enti pubblici economici o dalle società partecipate pubbliche.

Ora, chi sostiene le ragioni del No sembrerebbe appartenere, secondo la vulgata, alla schiera di coloro i quali tendono a difendere le prerogative della “casta” – per dirla con Gianantonio Stella e Sergio Rizzo – mentre chi promuove, demagogicamente, le ragioni del Sì cavalca l’onda mediatica dell’antipolitica: che la riforma costituzionale sia ispirata da una «una logica “punitiva” nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa» lo sostengono anche i firmatari dell’appello sopra citato.

Meglio una cattiva riforma di nessuna riforma? No, meglio sottrare la materia della revisione costituzionale agli argomenti qualunquistici della propaganda elettorale.

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[1] Cfr. “Rassegna Parlamentare”, 1980, n. 1-2, Indirizzi del rinnovamento istituzionale, con scritti di vari giuristi, da Paolo Barile a Enzo Cheli, da Vezio Crisafulli a Leopoldo Elia, da Massimo Severo Giannini a Giuseppe Guarino a Ugo Spagnoli.

[2] G. Virga, 2007.

[3] V.Atti parlamentari”, I Commissione, Camera dei Deputati, XVII Legislatura, seduta del 13 gennaio 2014.

Antonio Maria Ligresti

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