Può un coerede diventare proprietario esclusivo di un bene ereditario usucapendo le quote degli altri coeredi?

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 La comunione ereditaria.

Quando una pluralità di chiamati accetta l’eredità, sui beni facenti parte del patrimonio relitto si forma una comunione ereditaria alla quale ciascun coerede partecipa in misura corrispondente alla quota allo stesso attribuita dalla legge o dal testamento.

In mancanza di una disciplina specifica, a questa comunione si applicano, in quanto compatibili, le norme che regolano la comunione ordinaria e pertanto, ai sensi dell’articolo 1102 del Codice Civile, ciascun coerede può servirsi della cosa comune purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne uso secondo il loro diritto.

Egli, inoltre, può anche apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

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Godimento della cosa comune e tolleranza da parte dei coeredi

Proprio l’applicazione di questa norma sembra impedire al singolo coerede e comunista la possibilità di invocare l’acquisto per usucapione della proprietà esclusiva di un bene ereditario.

Infatti, se anche egli è l’unico ad usare la cosa comune mentre gli altri rimangono inerti, il potere di fatto da lui esercitato sulla cosa, pur avendo le caratteristiche richieste ai fini dell’usucapione, non è sufficiente a consentirgli di usucapire le quote degli altri coeredi.

Questo perchè si presume che il suo godimento non sia altro che l’espressione del potere attribuito ad ogni comunista da questa norma così come si presume, sempre in forza di detta norma, che tale godimento sia tollerato da parte degli altri comunisti.[1]

Tuttavia le presunzioni derivanti dalla predetta disposizione hanno carattere relativo e quindi operano fino a prova contraria.

Ma cosa deve provare l’usucapiente al fine di poter ottenere l’accertamento dell’avvenuta usucapione delle quote di comproprietà spettanti agli altri coeredi sul bene ereditario?

La giurisprudenza di legittimità ha affrontato l’argomento in più occasioni maturando un indirizzo richiamato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5087 del 5 marzo 2014 e costantemente confermato dalle successive pronunce in materia.

 

Impossibilità dell’interversio possessionis

In primo luogo gli Ermellini hanno escluso che il coerede sia tenuto a provare un atto di interversione del possesso poichè tale atto può essere compiuto solo da colui che ha la detenzione della cosa.

Infatti, con l’interversio possessionis il detentore – e quindi colui che esercita il potere di fatto sulla cosa nomine alieni ovvero riconoscendo che titolare del diritto sulla stessa è un’altro soggetto –  comincia a comportarsi come se lui stesso fosse il titolare del diritto manifestando in maniera esplicita ed inequivocabile la sua volontà di esercitare il possesso nomine proprio.

Ma nella comunione ereditaria – così come in quella ordinaria di cui costituisce una species – il potere di fatto esercitato sulla cosa da parte di ciascun erede ha natura di possesso in quanto viene esercitato con la consapevolezza di essere titolare iure successionis, seppure pro quota, del diritto di proprietà sullo stesso.

Esclusività del godimento della cosa comune

In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha affermato che il singolo coerede può invocare l’acquisto per usucapione delle quote di comproprietà spettanti agli altri eredi solo se il suo possesso ha una caratteristica particolare ed ulteriore rispetto a quelle di norma rilevanti ai fini dell’usucapione: l’esclusività.

Occorre cioè che egli dimostri non solo di aver esercitato sul bene comune – per il tempo necessario ai fini dell’usucapione – un potere di fatto non violento, non clandestino e non equivoco, ma anche di aver esercitato tale potere come se fosse l’unico proprietario del bene e quindi in modo tale da escludere il godimento da parte degli altri coeredi. [2]

Deve perciò provare che il godimento della cosa è stato esclusivo in quanto concretizzatosi in attività del tutto incompatibili con l’uso da parte degli altri coeredi ed in contrasto con gli stessi.

Il singolo coerede potrà quindi ottenere l’accertamento dell’avvenuta usucapione delle quote di comproprietà degli altri coeredi – e conseguentemente dell’acquisto della titolarità esclusiva del diritto di proprietà sul bene ereditario – solo dimostrando di aver posseduto non come comproprietario bensì come proprietario esclusivo.

Ovviamente questa sua volontà di usare il bene in modo esclusivo dovrà essere percebile all’esterno ovvero risultare da condotte visibili ed apprezzabili dalla generalità dei soggetti anche se non effettivamente conosciute dagli altri coeredi e ciò al fine di superare la preclusione sopra ricordata della tolleranza della sua condotta da parte di questi ultimi.

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Note

[1] Cassazione Civile 9 settembre 2019 n. 22444; “A tale riguardo, non è univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario, e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato Lanche) nell’interesse anche degli altri coeredi (Cassazione civile sez. II, 16/01/2019, n.966; Cass. 04/05/2018, n. 10734; Cass. 25/03/2009, n. 7221).”.

[2] Cassazione Civile 3 maggio 2018 n. 10512: “Difatti, il coerede che dopo la morte del “de cuius” sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso ma a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è però tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando egli goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “utí condominus”, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune (Cass. 25.3.2009, n. 7221).”.

Patrizia Tonarelli

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