Pubblicità informativa, rapporti con la stampa ed espressioni sconvenienti od offensive – commento agli artt. 17- 21 del codice deontologico forense

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1. Cenni introduttivi.
Nei paesi di civil law ed in particolare in Italia l’avvocatura ha sempre avversato lo strumento pubblicitario.
Riferisce Remo Danovi, nella quarta edizione del suo noto “Corso di ordinamento professionale e deontologia” pubblicato nel1995 (e dunque in tempi relativamente recenti): “La pubblicizzazione dell’attività professionale è vietata perché ritenuta rispondente a criteri mercantili, antitetici al prestigio della professione e al rapporto fiduciario che ne è alla base; e di fatto la pubblicità introduce un elemento di suggestione e di amplificazione che è del tutto estraneo all’attività legale”.
Le decisioni coeve dell’organo di giustizia forense non sono di diverso tenore[1], ma anzi esaltano l’atteggiamento di chiusura dell’avvocatura: “Il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell’avvocatura italiana che nel corso dei decenni ha sempre confermato il rifiuto di emulazione diverse da una dignitosa gara di meriti dimostrati attraverso le opere e lo studio”.
La situazione, però, nel corso degli ultimi anni è radicalmente mutata.
Le istanze in seno alla Comunità Europea, rivolte alla liberalizzazione dei mercati, incombevano anche nel settore dei servizi.
L’art. 49 del trattato CE[2] vieta ogni restrizione alla libera circolazione di servizi, tra i quali è ricompresa l’attività libero-professionale.
La direttiva sui servizi, successivamente adottata, prevede una rilevante apertura sulla pubblicità informativa[3] stabilendo la soppressione ogni divieto in materia di pubblicità.
L’art. 24 della direttiva nel consentire la promozione dell’attività professionale, si riferisce esplicitamente alle professioni regolamentate, prevedendo, però, un temperamento che richiede la conformità delle informazioni rese ai terzi alle regole professionali, tenendo conto della specificità della professione, nonché dell’indipendenza, dell’integrità, della dignità e del segreto professionale.
Sono dunque ammesse limitazioni, purché non siano confliggenti con i principi di non discriminazione e di proporzionalità e siano giustificate dall’interesse generale (art. 15).
Come ha rilevato il Consiglio Nazionale Forense[4], il principio di libera prestazione di servizi non si applica alle attività riservate agli avvocati, compresa, per gli ordinamenti nei quali la riserva è prevista, anche la consulenza giuridica.
Come è noto, in Italia la consulenza non costituisce, però, secondo la giurisprudenza, attività riservata[5], ma la direttiva indirettamente conferma che la riserva, ove prevista, non sarebbe in contrasto con la libera circolazione dei servizi.
Il codice deontologico europeo, approvato da ordini ed associazioni forensi aderenti al CCBE, in tema di pubblicità informativa è assai laconico, limitandosi a raccomandare criteri di correttezza e veridicità, nel rispetto della riservatezza e del segreto professionale, indipendentemente dallo strumento impiegato per la diffusione.
Il codice deontologico forense, con una prima significativa modifica avvenuta nella seduta del C.N.F del 27 gennaio 2006, apriva all’informazione sull’attività professionale, prevedendo, accanto all’art. 17, intitolato alle informazioni sull’attività professionale, l’art. 17 bis, dedicato ai mezzi d’informazione consentiti.
Si tratta di un primo passo verso l’informazione professionale, con notevoli aperture rispetto al testo originario del codice che, entro limiti piuttosto angusti, prevedeva un’informazione comunque consentita (es. carta intestata, biglietti da visita, targhe e simili), un’informazione consentita solo previa approvazione del Consiglio dell’Ordine (brochure) ed un’informazione sicuramente vietata.
La nuova formulazione, con la previsione dell’art. 17 bis, introduce, per la prima volta, il concetto degli strumenti consentiti per informare i terzi sull’attività professionale: carta intestata, biglietti da visita, brochure (previa approvazione del Consiglio dell’Ordine), targhe e siti web.
Si tratta, ovviamente, di un primo, importante passo avanti verso la pubblicità informativa, anche se, permane la regola generale del divieto, con l’indicazione, in via eccezionale delle ipotesi permesse ed esemplificate.
In tale quadro di moderata apertura, interviene, come è noto, il decreto Legge 4 luglio, n. 223, conv. in Legge 4 agosto 2006, n. 248 ("decreto Bersani") che statuisce, all’art. 2, lett. b) l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentare che prevedono il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine.
La finalitàdella legge è chiara: ogni divieto di diffusione della pubblicità informativa, negli ambiti enunciati dalla legge, è abrogato, con un unico temperamento: il messaggio deve rispondere ai criteri di veridicità e trasparenza.
La verifica del rispetto dei parametri indicati è riservato agli ordini.
Si assiste, dunque, ad un rovesciamento di fronte.
Mentre in origine la pubblicità informativa era vietata, salvo le eccezioni disciplinate dal codice deontologico, oggi si deve affermare il contrario: la pubblicità relativa ai titoli, alle specializzazioni professionali, alle caratteristiche del servizio offerto, nonché al prezzo ed ai costi complessivi delle prestazioniè consentita, purché veritiera e trasparente.
Si tratta, a ben vedere, di un panorama ampio sull’attività: potranno essere indicati i titoli conseguiti e le specializzazioni (che non possono derivare, però, dall’ambito di attività prevalente dell’avvocato), alle caratteristiche del servizio reso (attività giudiziale o di consulenza), al prezzo ed ai costi complessivi delle prestazioni (facoltà di pubblicizzare preventivi).
Le reazioni negative dell’avvocatura sono note.
In un primo tempo, lo stesso C.N.F., elaborava un parere[6] assai restrittivo sull’interpretazione del decreto Bersani. In esso si sostiene, per la pubblicità informativa: "Ora, letto alla luce di queste disposizioni (il riferimento è ai principi enunciati dal codice deontologico) il disposto dell’art. 2, c. 1 lett. b) del d.l., come convertito non introduce novità di particolare momento"[7].
La conclusione suonava come monito alla classe forense: "Saranno perciò perseguibili deontologicamente gli avvocati che, per l’attività stragiudiziale, espliciteranno una misura del corrispettivo non adeguata alla dignità professionale e all’entità del lavoro svolto …".
In ogni caso il CNF, ottemperava al disposto normativo che, a pena di nullità, disponeva l’adeguamento dei codici di autodisciplina entro l’1 gennaio 2007.
Nella seduta del 14 dicembre 2006 interveniva così la modifica del codice, ulteriormente variato, in pochi dettagli, nella successiva seduta del 27 giugno 2008.
La relazione del C.N.F che accompagnava le modifiche apportate al codice deontologico nella seduta del 14 dicembre 2006, riguardo alle informazioni sull’attività professionale affermava: "La norma, ha invece, innovato, ammettendo la pubblicità informativa sulle caratteristiche del servizio offerto, precisando tuttavia che il messaggio deve rispettare i criteri di trasparenza e veridicità ed affidandone il controllo all’ordine professionale. Conseguentemente si è reso necessario modificare l’art. 17, in aderenza al disposto normativo … mentre i canoni II e III del medesimo art. 17 (... prestazioni a domicilio, nei luoghi di lavoro, riposo e svago o in luoghi pubblici o aperti al pubblico e divieto di prestazione personalizzata non richiesta rivolta a persona determinata) sono stati inseriti nell’art. 19, che concerne il divieto di accaparramento di clientela".
 
2. La pubblicità informativa (artt. 17, 17 bis).
L’esame prende le mosse dagli articoli del codice deontologico che hanno subito, in seguito all’entrata in vigore del c.d. decreto Bersani, le modifiche più rilevanti.
L’art. 17 prevede la generale possibilità per l’avvocato di dare informazioni sull’attività professionale svolta.
Rispetto al decreto citato è previsto una ulteriore finalità: la tutela dell’affidamento della collettività.
Non è, però, una finalità ispiratrice del decreto Bersani che, invece, afferma di voler tutelare i principi della concorrenza, libera circolazione dei servizi per assicurare un’effettiva facoltà di scelta agli utenti.
Essa si pone, dunque, accanto ai due parametri individuati dal legislatore della trasparenza e della veridicità.
La verifica circa il rispetto dei criteri è riservata al Consiglio dell’Ordine.
L’informazione deve essere corretta, si ribadisce, in relazione al contenuto e veritiera.
E’ fatto divieto di divulgare notizie riservate o soggette a segreto professionale.
L’inciso appare, però, pleonastico perché previsto dalle norme deontologiche (art. 9 c.d.f.) e dal codice della privacy (D.Lgs n. 196/2003).
Vengono richiamate, in ordine alle modalità dell’informazione, la dignità ed il decoro professionale.
Proprio richiamando i due principi generali che informano il codice deontologico (art. 5 c.d.f.) una recente decisione del C.N.F.[8] ha affrontato il tema della pubblicità informativa lecita: “I superiori principi della dignità, del decoro e della lealtà, ai quali la professione legale deve ispirarsi anche nella comunicazione informativa lecita, costituiscono principi comportamentali che, nello specifico ambito della disciplina della concorrenza e della pubblicità, sono volti a garantire la tutela della collettività in un ambito caratterizzato dalle asimmetrie informative e nel quale risalta la primaria esigenza di contemperare l’interesse al libero dispiegamento delle dinamiche concorrenziali con l’interesse dalla protezione della fede pubblica e dei diritti fondamentali dei cittadini, quale è principalmente il diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto e garantito e, prima ancora come suo postulato, l’acquisizione della conoscenza e coscienza dei diritti.”
Non è consentita la pubblicità ingannevole, elogiativa e comparativa.
Sono poi enunciati due canoni: il primo consente agli avvocati l’organizzazione di seminari di formazione e aggiornamento (purché non a fini lucrativi); il secondo prevede, con il consenso degli eredi, per testamento o disposizione, la possibilità di indicare il nome di un avvocato defunto.
L’art. 17 bis chiarisce, in primo luogo, quali siano gli obblighi di informazione in capo al professionista.
Nella citata relazione si riferisce che l’obbligo discende dalla direttiva servizi che all’art. 22 impone agli stati membri di prevedere che i professionisti diano notizie circa la denominazione dello studio, l’iscrizione a ordini od associazioni professionali e la sede di esercizio.
Nel secondo comma sono invece elencate le informazioni che l’avvocato può diffondere e che riguardano i titoli accademici, i diplomi di specializzazione, l’abilitazione per il patrocinio avanti le giurisdizioni superiori, le lingue conosciute, il logo dello studio e gli estremi della polizza assicurativa.
Come prevede il successivo art. 21, i docenti universitari possono indicare il titolo accademico esclusivamente se concernente le materie giuridiche, con l’indicazione dell’ambito di insegnamento.
Può essere anche comunicata la certificazione di qualità. In tal caso essa deve, però, essere depositata presso il Consiglio dell’Ordine, con l’indicazione dell’ambito di operatività, della scadenza e dell’ente certificatore.
Non poteva mancare un ultimo ed approfondito inciso ai siti web.
Nella citata comunicazione agli ordini del 4 settembre 2006, il C.N.F. Così si esprimeva: “Particolare attenzione dovrà essere prestata dagli Ordini sull’utilizzazione di Internet, dove già ora, come in una selvaggia prateria, circolano messaggi di ogni tipo, altamente reprensibili…”
Ne scaturisce l’ultimo comma dell’art. 17 bis che prevede l’impiego di domini propri, previa comunicazione tempestiva all’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espresso.
Il sito deve indicare i dati previsti dal primo comma e non può contenere riferimenti commerciali e/o pubblicitari mediante l’indicazione diretta ovvero tramite banner o pop up.
Ecco una recente decisione[9] in punto: “Pone in essere un contegno disciplinarmente rilevante il professionista che, mediante il proprio sito web, prospetti fallacemente la possibilità di avvalersi di "particolari procedure" per "ottenere un divorzio consensuale in pochi mesi (6-7 mesi) anche senza che siano passati i tre anni dalla separazione e, perfino, senza una preventiva separazione e, quindi, arrivando subito al divorzio con un unico provvedimento", senza specificare che tale possibilità consegue soltanto all’avvio di una procedura in un non meglio specificato paese estero, trattandosi di informazione professionale che non rispetta i limiti essenziali della veridicità e completezza ed assume anzi i caratteri della pubblicità decettiva, contraria come tale ai doveri di dignità e decoro che devono costantemente informare la condotta dell’avvocato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Modena, 10 ottobre 2005)”.
 
3. I rapporti con la stampa (art. 18).
L’art. 18 si sofferma sulla stampa. Equilibrio e misura sono i parametri cui attenersi nel rilasciare interviste, rispettando discrezione e riservatezza. Accanto al principio generale sono contemplati tre canoni: il primo riguarda la diffusione di notizie agli organi di stampa consentita previa consenso della parte assistita e nel suo esclusivo interesse.
Il secondo canone ribadisce la preclusione per la pubblicità elogiativa, con il divieto, per l’avvocato, di spendere il nome dei propri clienti (anche se da questi autorizzati).
Infine sono trattate le rubriche fisse su organi di stampa, alla radio o alla televisione: esse sono consentite, ma previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza.
Sui rapporti con la stampa vi sono numerose pronunce.
Si segnala, in particolare, la seguente: “Viola gli artt. 17 e 18, co. II, del codice deontologico forense, il professionista che, nel rilasciare un’intervista ad un settimanale locale con riguardo alla nota vicenda della vendita dei bond argentini, ne asserisca le presunte irregolarità, ne indichi i necessari rimedi (consistenti nell’agire nei confronti di banche e intermediari finanziari per ottenere l’annullamento dei contratti e la restituzione del denaro) e suggerisca a tale scopo di rivolgersi ad un’associazione di consumatori (Adusbef) della quale essi stessi ne siano rappresentanti, dovendosi ravvisare in una siffatta condotta sia il perseguimento di fini pubblicitari, sia l’offerta di servizi professionali.”
In sostanza è vietato diffondere notizie di cronaca al fine di pubblicizzare la propria attività ed i servizi offerti: su tratta evidentemente di un uso distorto dei media, certamente non consentito.
 
4. Divieto di accaparramento di clientela (art. 19)
L’accaparramento di clientela rappresenta uno strumento certamente contrario all’etica professionale, ponendosi in una logica esclusivamente mercantile, in contrasto con la dignità ed il decoro professionali, come riferito esplicitamente enunciati dal codice deontologico, tra i principi generali che improntano, in ogni occasione, la condotta dell’avvocato.
E’ così vietato il ricorso ad intermediari per procacciarsi la clientela.
Parimenti non è consentito richiedere o promettere compensi per la presentazione di un cliente o l’affidamento di un incarico.
Inoltre non è possibile offrire le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti (porta a porta) o comunque in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Così come è vietato offrire ad un soggetto determinato una prestazione non richiesta.
Una problematica ricorrente ed attuale riguarda la possibilità di fornire consulenza nei confronti degli iscritti ad un’associazione o ad un circolo.
Segnalo, in punto, un sintetico parere reso dal C.N.F.[10] “Appare particolarmente problematico fornire una risposta generale al quesito proposto, giacché occorrerebbe piuttosto considerare le modalità concrete dell’attività condotta, la quale può certamente essere considerata disdicevole ove posta in essere con certe caratteristiche; in via generale può osservarsi che possa ritenersi consentito il rapporto professionale che si istituisce tra una singola Associazione o un Circolo ed un Avvocato per l’espletamento da parte del professionista di consulenza legale in ordine a problemi propri dei singoli iscritti all’Associazione o frequentatori del Circolo: essenziale, ai fini della correttezza del rapporto, è peraltro che l’attività di consulenza sia regolarmente retribuita dall’Associazione o Circolo o dal singolo utente, ad evitare che tale situazione possa costituire fatto non consentito quale "accaparramento" di clientela”.
La consulenza ad un ente od associazione è consentita, ma sottoposta al duplice limite della retribuzione e del divieto dell’impiego della consulenza quale strumento per l’accaparramento della clientela.
Rimane il problema aperto delle consulenze rese a titolo gratuito ad enti ed associazioni con scopo altruistico. Ritengo che la soluzione deve avere come parametro di valutazione ancora una volta il fine che l’avvocato persegue, escludendo quelle consulenze gratuite che implicano lo scopo di accrescere direttamente la propria clientela.
4. L‘uso di espressioni sconvenienti od offensive (art. 20)
L’uso di espressioni sconvenienti od offensive nei confronti dei colleghi, dei magistrati, delle parti e dei terzi, costituisce un illecito disciplinare. Nell’esercio del diritto di critica La vis polemica, la dialettica processuale che necessariamente si instaurano nel corso di un giudizio o nella trattazione di una vicenda contenziosa non devono oltrepassare il limite della dignità e del decoro professionale, recando offesa personale ai colleghi, ai giudici, alle parti ed ai terzi.
Le espressioni impiegate, per integrare l’illecito, non devono essere concorrenti, poiché è impiegato il disgiuntivo “od”, in luogo del congiuntivo “ed”.
Il precetto deontologico, come noto, trova un corrispettivo nelle norme di rito nel processo civile: l’art. 89 c.p.c. riserva al giudice il potere di disporre la cancellazione delle frasi sconvenienti od offensive[11].
Sono certamente offensive, secondo la casistica:
  • le argomentazioni difensive definite ripetutamente risibili;
  • le condotte rivolte a privare la collega del dovuto titolo di avvocato, qualificandola semplicemente "signora", con l’uso verso la stessa di espressioni idonee ad incidere negativamente sulla dignità e sul prestigio dell’avvocato stesso e della classe forense;
·          le affermazioni del professionista, contenute nel verbale di un procedimento civile, che invitino il giudice a leggere le carte prima di emettere ordinanze inique, trattandosi di affermazioni che imputano al magistrato la grave negligenza di aver assunto una decisione senza la previa valutazione degli argomenti risultanti dagli scritti difensivi
·          l’espressione «siete una conventicola».
E’ bene chiarire che la reciprocità delle offese non costituisce scriminante, ma evidenzia condotte entrambe disciplinarmente rilevanti.
6. Divieto di svolgimento dell’attività senza titolo (art. 21).
Il divieto di svolgimento dell’attività professionale senza titolo costituisce, ai sensi dell’art. 348 c.p., il reato di esercizio abusivo della professione. Nondimeno ai redattori del codice è parso necessario chiarire, con l’art. 21, che non solo l’esercizio della professione in assenza di titolo costituisce illecito, ma anche la condotta di chi agevola la commissione del reato: si pensi agli avvocati che consentano, per il proprio tramite, a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio della professione, di avviare o proseguire l’attività. La norma rimane aperta e consente di comprendervi comportamenti anche assai diversificati tra loro. E’ chiaro che l’indagine sull’illecito è volta a verificare i singoli casi in cui un soggetto (che non possiede o ha perduto i titoli per lo svolgimento della professione), per il tramite di un iscritto al registro dei praticanti o all’albo degli avvocati, eserciti abusivamente.
 
 
Avv. Vincenzo Latorraca
Sintesi della relazione per il corso di deontologia forense organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Como


[1]   C.N.F. Decisione 23 aprile 1991,n. 56
[2]   In vigore, nell’attuale versione, dal 1 novembre 1993.
[3]    Pubblicata sulla G.U. del 27.12.2006 (L 376/36) la direttiva relativa ai servizi nel mercato interno (2006/123/CE del 12 .12.2006) deve essere recepita dagli Stati Membri entro il 28.12.2009.
[4]   Circolare Consiglio nazionale forense 04-01-2007, n. 1
[5]   Cfr. Cassazione civile , sez. un., 12 luglio 2004, n. 12874: "L’attività di consulenza stragiudiziale non è riservata agli esercenti la professione di avvocato; non viola, perciò, l’ordinamento della detta professione, nè contrasta con principi di deontologia forense il comportamento del docente universitario a tempo pieno, iscritto nell’elenco speciale di cui all’art. 11, comma 6, d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382, che, inosservante delle regole di incompatibilità proprie dell’ordinamento universitario, abbia prestato opera di consulenza stragiudiziale retribuita in favore di privati".
[6]   Mi riferisco alle osservazioni sull’interpretazione e applicazione del decreto Bersani comunicate agli Ordini in data 4 settembre 2006.
[7]   Si osservi che l’indirizzo giurisprudenziale circa la natura di fonte normativa del codice deontologico è consolidato: da ultimo Cassazione civile, sez. un., 20 dicembre 2007, n. 26810 la quale afferma: "In materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità". Si tratta comunque di una fonte di rango secondario.
[8]   Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 268
[9]   Cons. Naz. Forense 15-12-2006, n. 158
[10]ParereConsiglio nazionale forense 03-10-2001
[11] Secondo Cassazione civile, sez. III, 12 febbraio 2008, n. 3277: "La cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti, che può essere disposta anche nel corso del giudizio di legittimità, ex art. 89 c.p.c., va esclusa allorché l’uso di tali espressioni non risulti dettato da un passionale e incomposto intento dispregiativo e non riveli un intento offensivo nei confronti della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, sia preordinata a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni ovvero la fondatezza delle tesi contro di essa esposte".

Latorraca Vincenzo

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