Perche’ e (soprattutto) come e’ possibile modificare la legislazione sugli stupefacenti

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PREMESSA
 
La L. 49 del 2006, che ha innovato parzialmente, ma anche radicalmente, il regime penale della materia concernente le sostanze stupefacenti, è entrata in vigore da oltre 6 mesi.
Pare a chi scrive opportuna (se non necessaria), quindi, qualche libera riflessione per verificare la stato di salute di una normativa, che per i temi che involge, non si può non definire uno degli archetipi, se non il principale archetipo, del settore penalistico italiano.
E’, infatti, indubbio che non si possa circoscrivere la valutazione sul tema al solo intervento legislativo che si riferisca strictu sensu alla repressione penale di tutti quei comportamenti connessi con la sola diffusione degli stupefacenti, cioè previsti dal t.u. del 1990.
L’esperienza forense e giurisprudenziale spiccatamente maturata, in special modo negli ultimi trenta anni, ha, infatti, dimostrato come una precipua parte della commissione di reati nel nostro paese sia legata direttamente od indirettamente al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Si pensi, ad esempio, alla circostanza che molti gravi delitti contro il patrimonio trovano la loro genesi nella condizione di tossicodipendenza dei loro autori, che taluni di questi fatti criminosi – nell’alveo della loro commissione – degenerano in altrettanto gravi episodi penalmente rilevanti contro la persona.
Si pensi, anche, poi, all’ormai endemico fenomeno delle stragi del sabato sera, che vede protagonisti giovani che si pongono al volante non solo sotto l’effetto dell’alcool, ma, numerose volte, dopo avere assunto quantitativi importanti di droghe sintetiche.
Le conseguenze che derivano dagli incidenti stradali, cagionati in simili frangenti sono enormi sia sotto l’indubbio profilo morale, che in relazione ai cd. costi sociali che ne conseguono.
Tale complessiva situazione, senza dubbio, si aggrava costantemente, sia per la sempre maggiore diffusione nel tessuto sociale di condotte prettamente anomiche (si pensi alla progressiva e continua riduzione dell’età di primo approccio alle droghe da parte dei giovanissimi ed al fatto che sempre più personaggi insospettabili – colletti bianchi – rientrano nel concetto di assuntori di stupefacenti), sia per la sofisticata evoluzione degli strumenti di raffinazione di materia prime, elaborazione, composizione e sintesi di nuovi composti e reagenti di natura chimica, che vengono posti in circolazione.
Quest’ultimo aspetto appare particolarmente inquietante (non che i primi due non lo siano) perché attesta come le organizzazioni criminali abbiano compreso, molto prima di molti miopi e ciarlieri governanti la necessità e l’opportunità di investire sul piano scientifico per giungere a sempre nuove evoluzioni di prodotti in grado di rispondere ad esigenze di un bacino di utenza sempre in costante “evoluzione”.
Si tratta, quindi, di un aspetto che appare sintomatico di un salto di qualità sul piano dell’eccezionale pericolosità che talune organizzazioni criminose di vertice (e non certo da oggi) hanno oramai assunto.
In questo contesto, gli interventi normativi, sin qui operati, hanno dimostrato la loro inadeguatezza sia perché incapaci di rispondere efficacemente ai costanti bisogni dei tempi (sempre in corso di modificazione) sia perché non hanno tenuto in conto e compreso una elementare verità e cioè che negli ultimi 16 anni la progressiva evoluzione di una vera emergenza droga (o questione droga che dir si voglia) avrebbe dovuto richiedere un intervento correttivo – sul piano normativo – che permettesse:
1.     che l’impianto del dpr 309/90 non si manifestasse, già nel giro di pochi anni dalla sua promulgazione, sostanzialmente inadeguato alle modifiche delle situazioni di fatto,
2.     che la normativa in tema di stupefacenti contenesse in sé i germi di una lungimiranza legislativa, la quale permettesse di fornire risposte serie e sempre attuali sia sul piano della prevenzione, che su quello della repressione di condotte illecite, prevedendo (ovviamente in limiti ragionevoli) possibili ipotesi future di comportamenti devianti.
La metodologia con la quale dal 1993, [data del referendum abrogativo la dose media giornaliera e dell’introduzione del concetto di libertà condizionata (a taluni parametri) di detenere sostanze stupefacenti] il legislatore è intervento (od ha omesso di intervenire) è sintomatica di una colpevole sottovalutazione del problema.
Per venire ai giorni odierni la stessa sistematica della L. 49/06, come più volte ho avuto modo di sottolineare, dimostra come si preferisca un superficiale intervento di rattoppo su un tessuto preesistente già male in arnese (una sorte di veste di Arlecchino) ad un intervento profondo, magari impopolare, ma che tenti di risolvere alle radici le contraddizioni che quotidianamente emergono nell’applicazione forense della legge.
Tale stile è perfettamente in sintonia con la consuetudine di promulgare leggi sull’onda emozionale di fatti di notewvole risonanza e, comunque, sull’indefettibile presupposto dell’emergenza.
Stupisce, infatti, che il Parlamento ed il Governo che sono sempre (a prescindere dalla loro matrice partitocratrica) composti da avvocati ed ex-magistrati, e si corroborano di tanti magistrati che affollano le segreterie dei Ministeri (in special modo ovviamente quello della Giustizia che parrebbe contarne da solo 90) non sentano la necessità di monitorare in concreto (e non a livello di proclami) la situazione della giustizia di base e, soprattutto, e verificare i criteri applicativi, i problemi interpretativi, le contraddizioni che insorgono e continueranno ad insorgere in materia di stupefacenti.
Da professionista del diritto che opera in una realtà, qual è Rimini, certamente di dimensioni quantitative medie, ma che indubbiamente sul piano qualitativo – in ordine alla varietà e complessità di tematiche penalmente rilevanti – non ha, forse, purtroppo, nulla a che invidiare alle grandi città ed alle metropoli, reputo ormai, al di là degli slogan (di cui tutti i Governi fanno uso a piene mani ed anche questo non fa certo eccezione) che si imponga la necessità di ripensare le linee guida della legislazione vigente.
 Dal mio punto di vista, che attiene strettamente alla disciplina penalistica (tralascio, infatti, aspetti organizzativi, terapeutici e preventivi che non sono di mia competenza) credo che le direttrici di marcia per intervenire efficacemente sull’attuale legislazione in materia di stupefacenti possano essere le seguenti.
 
1. Giungere ad una norma che definisca esplicitamente il concetto di detenzione di sostanza stupefacente penalmente rilevante.
 
Una premessa è d’obbligo sul punto.
Chiunque ponga mano alla complessiva e dovuta riforma dovrà stabilire, preliminarmente ad ogni altra valutazione, se, in alternativa tra loro,
a)      esista un diritto della persona ad assumere stupefacenti, con conseguente impunità del soggetto che detenga stupefacente,
b)     esista una facoltà della persona ad assumere stupefacenti, con conseguente impunità del soggetto che detenga stupefacente a precise condizioni di natura oggettiva e soggettiva,
c)      esista un divieto assoluto per la persona di assumere stupefacenti, con conseguente punibilità, in sede penale, di tale condotta.
La risoluzione di tale premessa, che ho posto in termini di consapevole e voluta provocazione, appare indefettibile per procedere all’elaborazione normativa, in quanto all’opzione scelta dovrà corrispondere un chiaro orientamento legislativo.
A titolo personale credo si debbano escludere scelte, per così dire, estremistiche, cioè non mi pare praticabile né l’ipotesi di un diritto del singolo a drogarsi, né, tanto meno lo speculare divieto.
Si incorrerebbe, infatti, in entrambi i casi (che come detto paiono due facce della stessa medaglia) in un’evidente forzatura sistematica, posto che, così come non si può accettare la completa espropriazione del diritto del singolo all’autodeterminazione, appare chiaro che il limite all’esercizio di tale diritto riposa nei concetti di ordine pubblico e buon costume (oltre che nel fatto che la condotta non integri un reato).
Sicchè al di là della negative valutazioni etiche che si possono formulare relativamente alla condotta di assunzione di sostanze stupefacenti (ma non è questo il tema che si intende sviluppare in questa sede, giacchè esso attiene al campo della filosofia politica) è, comunque, indubbio che, pur non potendo vietare l’uso personale di sostanze stupefacenti, non si potrà affatto postulare l’esistenza di un correlativo diritto in proposito, attesi i riflessi negativi che possono indubbiamente derivare sulla salute dell’assuntore (specialmente per quanto concerne la droghe cd. pesanti).
Propendo, quindi, per una soluzione mediata e meditata che permetta al singolo di disporre come meglio ritiene del proprio destino, seppur non riconoscendogli una posizione garantita e tutelata dall’ordinamento giuridico, quale è quella che promana dall’esercizio di un diritto soggettivo.
Tale libertà di autodeterminazione, per essere realmente adeguata alla tematica in oggetto, dovrà, però, prevedere dei doverosi condizionamenti.
Siffatta affermazione sta a significare che il singolo possa detenere, senza incorrere in sanzioni penali, quantità variabili e non predeterminate di sostanze stupefacenti di qualsiasi tipologia, in presenza di specifici parametri soggettivi.
Consegue, quindi, sul piano strettamente penalistico, la necessità è che si deve prevedere (in ossequio all’indirizzo concretatosi con il referendum del 1993, [dpr 5 Giugno 1993 n. 171], che la mera e sola detenzione di stupefacenti, ancorchè non connessa ad altre condotte valutate come illecite (ad esempio quelle di cessione), vada considerata come ipotesi di reato (siccome ritenuta condotta prodromica all’eventuale spaccio) solamente in presenza di precisi elementi di fatto, che devono essere dimostrati e provati dall’accusa.
Questi possono essere la incapacità economica del soggetto a portare permettersi un quantitativo di stupefacenti, la circostanza di non essere assuntore della sostanza, l’eccessività del quantitativo rispetto a conclamate necessità personali del detentore, specifiche modalità della condotta detentiva, quali quella del frazionamento della droga o dell’occultamento della stessa in luoghi del tutto particolari, oppure l’aspetto ponderale della droga, giacchè taluni quantitativi appaiono ictu oculi incompatibili con l’uso personale[1], anche senza dovere effettivamente verificare il livello di intossicazione del soggetto.
L’individuazione di questi elementi paradigmatici appare fondamentale e si pone, inoltre, come modus procedendi che si allinea con le scelte di una giurisprudenza per lo più di merito (V. ex plurimis le sentenze del GUP di Rimini, del GUP e Tribunale di Nola del Tribunale di Verona), la quale in modo acuto e sensibile ha precisato
a)       che non vi possono essere presunzioni di colpevolezza in materia di detenzione stupefacenti,
b)      che la normativa in materia, quindi, non può derogare ai principi generali posti codicisticamente dagli artt. 187 e segg. c.p.p., in punto all’onere della prova della penale responsabilità del singolo,
c)       che, consegue, l’inammissibilità dell’inversione dell’onere della prova, che troppo spesso la giurisprudenza ha di fatto riconosciuto e fatto propria, addebitando ingiustamente alla difesa la dimostrazione della propria incolpevolezza,
d)       che, conclusivamente è e rimane sempre obbligo dell’accusa provare il postulato in base al quale si inizia la fase procedimentale e, se del caso, si da corso all’azione penale, mentre è posto a carico dell’indagato/imputato un mero onere di alligazione, e, al più l’onere di prova contraria. Certo è che in assenza di prova d’accusa dovrà essere dichiarata la non colpevolezza dell’imputato.
Sempre in tema, si impone, inoltre, che la detenzione, poi, debba essere ancorata al concetto civilistico di apprensione e disponibilità materiale del bene, di modo che non si abbiano storture quali ad esempio l’imputazione ad un soggetto della condotta di detenzione solamente sulla base di conversazioni telefoniche equivoche non suffragate da rinvenimenti materiali.
Questa scelta può apparire confliggente con la necessità di porre un freno e fornire una risposta dura e chiara al dilagare del fenomeno degli stupefacenti.
Giovi aprire una brevissima parentesi incidentale, per dimostrare che questo, se posto è, in realtà, di un falso problema.
La necessità di sanzionare condotte che appaiono indubitabilmente concretanti reati non può però tollerare un’esasperazione casistica del genere di quella attualmente vigente.
Nel sistema delineato dal dpr 309/90 e novellato dalla L. 49/06 appare una proliferazione di comportamenti di cui il legislatore prevede la sanzionabilità.
A fronte di situazioni effettivamente condivisivibili (coltivazione, fabbricazione, raffinazione, vendita, cessione gratuita, trasporto, importazione ed esportazione) ve ne sono altre (estrazione, offerta o messa in vendita, distribuzione, commercializzazione, procurare ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunque scopo) che paiono specificazioni inutili e cavillose.
Anzi, sia consentito dire che, probabilmente, il legislatore, invece, di perdere tempo alla costruzione di fantomatiche ipotesi di reato, meglio farebbe a delineare un sistema sanzionatorio che prevedesse pene differenti a seconda dei comportamenti.
Vale a dire che non guasterebbe affatto una differenziazione in punto a previsione di pena, quale conseguenza di un concreto giudizio di offensività che involga le singole condotte.
E’ indubbio, infatti che ben differente pericolosità possa essere rilevata fra detenere stupefacente e raffinare o fabbricare lo stesso; né pare scelta oculata ed adeguata quella cumulare le diverse condotte in una caleidoscopica previsione, quale è l’attuale, pur in presenza di una escursione rilevante fra il minimo ed il massimo di pena.
Quindi, previsione di reati specifici, in relazione a specifiche condotte con adeguate sanzioni ad hoc.
Per concludere l’argomento, quindi, la previsione normativa di ipotesi di reato che realmente possano avere una propria credibilità e concretezza, deve indurre ad una ricostruzione delle condotte oggetto di precetto e sanzione, che indivudui contegni muniti di effettiva offensività e che possano essere dimostrati in concreto, non peccando di apparenza.
 
2. Consequenzialmente alle osservazioni sin qui svolte, si deve pensare ad una duplice normativa a carattere processuale.
 
d)      Da un lato, appare necessario si addivenga a precisare sine dubbio l’ascrivibilità dell’onere della prova a carico dell’accusa, sulla base degli elementi descritti, nonché di altri che possano essere – di volta in volta – richiamati.
Come anticipato sopra, l’indagato e la sua difesa, titolare di un diritto di allegazione, ovviamente potranno formulare prove a contrario, ma va affermato senza mezzi termini che non sono ammesse deroghe al principio dell’onere della prova (artt. 192 e 273 c.p.p.).
e)      Dall’altro, si dovrà procedere ad una regolamentazione dell’intervento delle forze dell’ordine e, in special modo, in relazione all’esercizio del potere di arresto.
In buona sostanza si dovrà valutare se l’ipotesi della detenzione di stupefacenti (ove non ricorra ictu oculi l’uso personale e sia provata in concreta la destinazione allo spaccio) vada ricompresa nell’ambito dell’arresto obbligatorio o facoltativo e se sia possibile armonizzare la situazione attraverso il ricorso al criterio quantitativo, sicchè – ad esempio – l’arresto divenga obbligatorio solamente in caso di detenzione di un quantitativo di sostanza che ecceda un preciso limite ponderale.
 
3. Ritorno alla differenziazione fra droghe pesanti e droghe leggere.
 Se uno dei criteri fondamentali che animano il nostro sistema penale è quello, peraltro, più volte richiamato, dell’offensività della condotta, non vi è chi non veda come emerga ictu oculi radicale e notevole differenza di portata tra comportamenti materialmente simili, ove gli stessi abbiano, però, ad oggetto beni differenti.
La diffusione di droghe cd. leggere, quali hashish o marijuana, ancorché integrante un fenomeno che suscita allarme sociale e integra estrema di reato non può essere valutata allo stesso modo della diffusione e del dilagare di droghe ottenute per sintesi (extasy su tutte) o di droghe come la cocaina.
La circostanza che nessuna sostanza psicotropa possa avere riflessi positivi sull’organismo umano (al di là delle polemiche scientifiche sui possibili usi terapeutici ed analgesici di taluni derivati della canapa, che lo scrivente non intende affrontare in questa sede) non pare spiegazione appagante, posto che è evidente che gli effetti delle diverse sostanze sulla salute degli assuntori appaiono assolutamente differenti fra loro.
 
4. Rimodulazione del comma 5°dell’art. 73 che deve divenire un’ipotesi autonoma di reato e non essere più una mera circostanza attenuante.
 
Questo mi pare uno dei punti nodali sui quali un’eventuale riforma deve incidere senza ipocrisie e senza incertezze.
Se è vero che la specifica previsione dell’ipotesi lieve è stato un elemento di importante e qualificata novità introdotto dal dpr 309/90, e se è altrettanto indubitabile che la scopo della norma relativa, il comma 5° dell’art. 73, era quella di superare le difficoltà interpretative insorte sotto l’imperio della L. 685/75 in relazione all’art. 72, si impone il dovere di dare finalmente contorni precisi a tale istituto.
Come ho avuto modo di sostenere più volte, il comma 5° dell’art. 73 non può vedere relegata la propria funzione al rango di mera circostanza attenuante, come, allo stato, sancito dalla giurisprudenza e da un’ambigua struttura giuridica lessicale della norma in questione.
La classificazione nel senso prevalente, infatti, è sempre apparso svilente l’effettiva portata della norma.
Si pensi, infatti, alla circostanza che la lieve entità – quale circostanza attenuante – è sempre stata soggetto al giudizio di bilanciamento rispetto alle aggravanti eventualmente contestate, con la ovvia conseguenza che in caso di valutazione di prevalenza di queste ultime, la pena da infliggere al caso concreto doveva rientrare nell’ambito di quella prevista dal comma 1 (e dopo la novella del febbraio anche dal comma 1 bis) dell’art. 73, con evidente aggravamento del trattamento sanzionatorio.
Un simile risultato, che già sollevava giuridica ripulsa, è stato sensibilmente accentuato con l’entrata in vigore della L. 251/05, la famigerata ex-Cirielli.
Sono noti taluni effetti aberranti e distorti che il nuovo art. 69 comma 4° c.p. ha provocato.
Tra questi (a causa della patente miopia del legislatore, incapace di raccordare armonicamente gli interventi normativi) il fatto che in forza del presunto divieto del giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto all’aggravante di cui all’art. 99 comma 4° c.p., l’attenuante del comma 5° non possa dispiegare alcun effetto ed esista solo sulla carta, non rilevando né punto, né poco in termini di pena effettiva.
Sarebbe troppo lungo, noioso ed ozioso approfondire il tema specifico in relazione alla ex-Cirielli, ma il richiamo alla discrasia venutasi così a creare è illuminante, nel senso di dare certamente fiato alle minoritarie trombe di chi, come lo scrivente, non si rassegna al declassamento di un’ipotesi autonoma di reato in mera circostanza aggravatrice lo stesso[2].
Certo è che, per qualificare l’istituto in questione come circostanza del reato, non pare sufficiente quell’osservazione, sviluppata in giurisprudenza, per cui i fatti descritti nel comma 5° appaiono i medesimi descritti nella fattispecie base di cui ai commi 1 ed 1 bis dell’art. 73, sicchè la ritenuta minore offensività del fatto non apparirebbe decisiva per una valutazione di autonomia della ipotesi di lieve entità a quella base.
Molti e contrari argomenti potrebbero essere spesi, ma ritengo che la qualificazione giuridica dell’art. 73/5° quale reato autonomo ed indipendente debba conseguire ad una scelta di politica legislativa, che miri a distinguere sul piano ontologico, naturalistico e giuridico condotte di modesto e non eccessivo rilievo ed allarme sociale, poste in essere da tossicomani o da assuntori rispetto a condotte di elevata e significativa pericolosità che si ricolleghino con un’attività di traffico di stupefacenti professionali, continuative e svincolate da una situazione di bisogno del singolo.
Vale a dire che deve essere codificata (sotto ogni profilo) la differenza fattuale fra l’individuo che svolga con continuità attività illecita di acquisto, cessione (et similia) di droga, ma che – in qualche modo – sia compulsato da una condizione di tossicodipendenza personale, e l’individuo che agisce in virtù di evidenti dinamiche criminali svincolate dalle condizioni personali testè descritte e, comunque, operi manifestando una pericolosità sociale indubbia ed elevata.
L’ipotesi lieve deve, quindi, assumere la funzione di raccordo fra la situazione vissuta da chi assuma droga senza spacciarla e chi, invece, traffichi con una attività imprenditoriale, ancorchè rudimentale.
E’ evidente che il criterio principale per identificare una condotta come rientrante nella previsione del comma 5° dell’art. 73 dpr 309/90 dovrà essere quello ponderale, il quale dovrà essere armonizzato con i criteri residuali specificati nel testo della norma, che a parere di chi scrive non merita mutamenti o modificazioni.
Sotto questo profilo, quindi, la giurisprudenza che si è venuta a formare risulta del tutto condivisibile.
Basti ricordare ex plurimis Cass. pen., sez. VI, 29 aprile 1996, Santi, Cass. Pen., 1997, 2237, Giust. Pen., 1997, II, 314 ed anche Cass. pen., sez. VI, 5 dicembre 1996, n. 281, Bernardini, Riv. Pen., 1997, 397 che sostiene “Perchè possa configurarsi l’attenuante di cui all’art. 73, comma 5 t.u. n. 309 del 1990, è necessario non solo che la quantità della sostanza stupefacente non superi la soglia della modica quantità, ma anche che il fatto nel suo insieme presenti connotati tali da poter essere definito di lieve entità, vale a dire di minore offensività per la collettività. Ne consegue che, pur rimanendo la quantità dello stupefacente l’elemento maggiormente significativo, gli elementi indicati nel comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 vanno considerati globalmente, sicchè solo dal bilanciamento e dalla valutazione globale (e quindi anche compensativa) di essi si può definire un’offensività del fatto reato, tale da risultare ostativa della configurabilità di quel carattere di lieve entità, richiesto per l’applicazione del trattamento sanzionatorio più favorevole per il responsabile”.
 
5. Definizione di parametri precisi inerenti la circostanza dell’ingente quantità.
 
Corollario alle osservazioni sviluppate al punto precedente è quello della necessità che vengano definiti in modo preciso anche i contorni del concetto di ingente quantità.
Non è, infatti, più tollerabile una patente disparità di giudizio in relazione a fatti ed episodi tra loro simili, situazione che cagiona nei Tribunali una discontinua ed ondivaga applicazione dell’aggravante in questione.
Chi scrive è consapevole che non esista affatto una ricetta magica ed assoluta per potere tratteggiare l’aggravante in questione.
Si tratta di prospettare e discutere una soluzione che possa fronteggiare nel modo più efficace possibile (o meno inefficace possibile) situazione concernenti il traffico e le condotte attinenti ad importanti quantitativi di stupefacente.
Ciò non di meno, ritengo che sia necessario porre un “minimo steccato sanzionatorio”, cioè una piattaforma ponderale a partire dalla quale si possa configurare l’aggravante in parola, perchè le teorie attualmente vigenti (sia quella “nominalistica”, che quella della “saturazione”) non paiono poter assolvere ad una funzione di soddisfacimento dell’esigenza di certezza dei parametri applicativi dell’aggravante di cui all’art. 80 comma 2° dpr 309/90.
A ben vedere, si deve sottolineare che certamente si fa preferire, dopo alcune oscillazioni ed incertezze, la teoria della staturazione del mercato, in quanto più assonante al concetto di reale e concreto bacino di utenza.
Ciò nonostante, pur nella preferenza contigente di tale criterio rsipetto all’altro, chi scrive è persuaso della fallacità ed impalpabilità dello stesso.
Troppe volte è stato assolutamente difficoltoso individuare l’esatto bacino di utenza destinatario dello stupefacente, onde inferire da siffatto elemento la effettiva sussistenza e pertinenza dell’aggravante al caso di specie.
Si potrebbe obbiettare che l’individuazione di scaglioni ponderali, oltre i quali contestare oggettivamente l’aggravante dell’ingente quantità potrebbe “facilitare” il compito di organizzazioni criminose o di singoli malviventi, che tratterebbero di volta, in volta, partite di droga inferiori per non incorrere nella fattispecie aggravata.
L’osservazione ha un suo pregio puramente teorico e se formulata in concreto tradisce – a parere di chi scrive – un’approssimativa conoscenza delle dinamiche criminose. Ad essa, infatti, si può agevolmente opporre che un simile dedotto pericolo si può, al più, correre solo in sporadiche occasioni attinenti a situazioni locali e contigenti.
Vale a dire che lo spacciatore di medio livello potrà anche talora prestare attenzione al pericolo del superamento di un certo limite ponderale, ma non è pensabile che organizzazioni criminose, dedite a traffici rilevanti e continuativi, possano per tale ragione limitare i quantitativi trasportati, in quanto ogni trasporto comporta un tipo di organizzazione piuttosto articolata, non spendibile per modesti quantitativi di stupefacente.
         Prova confortante a sostegno di quanto si va affermando è quella che si desume dall’esame del T.U. 309/90.
La normativa, infatti, con l’inasprimento delle pene per le condotte di cui all’art. 73 – che sostituiva il vecchio art. 71 della L. 685/75 -, non ha, diversamente dagli auspici formulati, affatto rivestito un argine contenitivo, tale da dissuadere i singoli e le organizzazioni, soprattutto, in relazione all’aspetto ponderale delle cessioni o delle condotte illecite.
Questa osservazione incontrovertibile e non contestabile, quindi, deve indurre a valutazioni di politica giudiziaria realistiche e scevre da voli pindarici.
In buona sostanza, preso atto che proprio l’indeterminatezza dei criteri definitori il campo di applicabilità dell’aggravante in questione è elemento che mina la credibilità e l’efficacia delle legge, si deve addivenire ad un corretto compromesso, che, quantomeno, sgombri l’ambito della quotidianità forense da mutevoli e contrastanti interpretazioni.
In questo senso, quindi, la scelta di stabilire uno spartiacque fra l’ipotesi ordinaria e quella aggravata, basato esclusivamente sull’individuazione di un predeterminato dato ponderale, mi pare l’unica soluzione apprezzabile.
Credo che, una volta adottato tale orientamento, non si possa, però, prescindere da una ulteriore quanto necessaria specificazione metodologica.
Sono, infatti, persuaso che, per poter seriamente ed effettivamente ipotizzare a carico dell’indagato/imputato l’aggravante di cui all’art. 80/2°, si debba avere riguardo al principio attivo contenuto nel compendio illecito e non già al quantitativo complessivo della sostanza di taglio.
Tale opzione deriva dalla necessità di introdurre un parametro di effettività, tramite il quale si possa valutare la reale offensività della condotta del soggetto in relazione alla tipologia ed alle caratteristiche dello stupefacente. E’, infatti, opportuno evitare il rischio di cadere nel paradosso di configurare a carico dell’inquisito l’ingente quantità, in presenza di un compendio rilevante sul complessivo piano ponderale, ma, al contempo, poco significativo per quanto attiene specificatamente alla vera e propria sostanza stupefacente, che è il vero e proprio elemento drogante.
D’altro canto mi pare che si debba connotare di coerenza ed unitarietà la articolata disciplina in subjecta materia, se è vero che il principio attivo drogante della sostanza appare parametro che, secondo il legislatore, rileva in maniera assoluta, in relazione ai limiti di punibilità della condotta di detenzione ed importazione introdotti dalla L. 49/06.
Penso, quindi, che la contestazione dell’aggravante in questione configuri una scelta procedimentale, che può avvenire efficacemente da parte dell’accusa, anche (e soprattutto) in medias res, cioè dopo il conferimento dell’incarico di consulenza tecnica sulla sostanza stupefacente ed il deposito del relativo elaborato.
Va, infatti, sottolineato come il ritardare la contestazione della circostanza aggravante in esame ad un momento processuale di piena indagine preliminare non può affatto pregiudicare la stessa, ma, semmai, arricchirla e completarla appieno.
Alla circostanza dell’ingente quantità, infatti, sono ricollegabili due effetti e cioè
1.     quello relativo alla durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 303 co. 1 c.p.p.,
2.     quello dell’eventuale aumento del quantum di pena infliggibile a seguito della definizione del giudizio.
E’ nozione di quotidiana esperienza forense quella per cui la rimodulazione del termine di custodia cautelare, a prescindere dalla concreta forma adottata (detenzione carceraria o arresti domiciliari, oppure altro) può (e deve) avvenire in dipendenza di una nuova contestazione di reato nei confronti dell’indagato.
Ciò è possibile nella fase delle indagini preliminari, purchè quest’ultima non appaia disancorata da concreti elementi d’accusa sopravvenuti in limine e non si appalesi come puramente strumentale a favorire la permanenza del soggetto in vinculis, in presenza dello spirare dell’effettivo termine massimo custodiale (cfr. Trib. Trapani, 04-03-1992 X. Y.Arch. Nuova Proc. Pen., 1992, 734).
Ergo, le valutazione testè ricordate confermano, al di là di ogni dubbio , che nessun pregiudizio né per la difesa, né per la funzione di accertamento della sussistenza del reato proprio dell’accusa, può essere ritenuto ove l’aggravante non venga contestata in origine dall’accusa, ma subentri in una fase successiva e dopo la raccolta di elementi sul punto.
Deriva, quindi, come anticipato, che il posticipare all’esito della fase peritale (peraltro consueta e doverosa) l’eventuale contestazione dell’aggravante in questione sulla scorta di una quantificazione del principio attivo contenuto nella sostanza stupefacente (previa definizione dei limiti relativi a siffatto parametro), mi pare una scelta giuridicamente equilibrata e seria.
 
6. Riformulazione del sistema delle sanzioni amministrative.
 
La previsione di una sistema di sanzioni amministrative trova, allo stato attuale, ragione e presupposto nella considerazione che non può essere codificato, neppure per implicito, riconosciuto un diritto del singolo soggetto o delal collettività a drogarsi.
Certo è che il complesso normativo attuale, previsto dagli artt. 75 e 75 bis dpr 309/90 (così come modificato il primo ed introdotto il secondo dalla L. 49/06) altro non è che la concretizzazione di un sistema punitivo parallelo a quello penale e, per certi versi, spiccatamente repressivo, pur in assenza di un fatto-reato.
E allora ci si deve porre la domanda se serva effettivamente ( e possa essere utile) una risposta di questo genere nei confronti di coloro che siano assuntori di droga, ma non autori di reati, oppure se l’opera di dissuasione e prevenzione debba percorrere altre strade.
Nessuno può avere la ricetta assoluta o la bacchetta magica, ma credo che, al di là di proposte più o meno fantasiose captate qua e là, occorranno in concreto, soluzioni semplici e chiare.
Penso, quindi, ad una rielaborazione dell’attuale normativa, di cui si potrebbero tenere ferme talune sanzioni amministrative, ma solo in casi di fenomeni di recidiva.
In via del tutto sommaria ed esemplificativa, reputo del tutto ingiusto che un soggetto, che venga trovato, per la prima volta, in possesso di stupefacente, senza che la sua condotta integri reato, debba essere immediatamente sanzionato, seppur in via amministrativa.
L’intervento di natura amministrativa, incidente sulla possibilità del singolo di esercitare talune sue legittime prerogative, dovrebbe intervenire – appunto – in caso di episodi siginficativi di recidiva (in relazione, quindi, alla posizione di una persona che, già in precedenza fermata, venga nuovamente trovata in possesso di stupefacenti, senza subire denunzia penale).
L’eventuale provvedimento dovrebbe avere effetto provvisoriamente esecutivo, pur in pendenza della riconosciuta possibilità per il singolo di azionare un agile e rapido sistema di ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento della P.A. .
Le indicazioni sin qui fornite devono intendersi come di massima, in quanto non mette conto addentrarsi in questa fase in una giungla procedurale.
Va, comunque, sottolineato che si ritiene opportuno sollecitare l’adozione di un doppio binario, che si articoli, da un lato, nella prevenzione rispetto all’uso di stupefacenti (senza inutili interventi paternalistici come erano i colloqui in Prefettura, vigenti anche nel t.u. 309/90) e dall’altro, anche in chiare inziative di ammonizione del soggetto (non di vera e propria punizione), in presenza di casi di reiterazione di condotte che inducano a rinvenire una situazione di perdurante e continuativa assunzione di stupefacenti.
In quest’ultimo caso, reputo che si debba preliminarmente dare corso ad una rapida procedura di verifica medico-legale delle condizioni psicofisiche dell’interessato (da esuarirsi in tempi brevissimi), all’esito della quale gli organi amministrativi (i quali però devono essere adeguatamente preparati con specifiche competenze e conoscenze) decidono se il soggetto possa mantenere la patente, il porto d’armi, il passaporto ed altre autorizzazioni di pubblica sicurezza.
 
7. Guida in stato di intossicazione da stupefacenti
 
Si tratta di una previsione già contenuta nell’art. 187 CdS.
Credo, però, che non possa essere ritenuta appagante una soluzione che mira a fronteggiare e definire, solo con pene obbiettivamente modeste, il problema degli effetti indotti del porsi alla guida in inadatte condizioni psicofisiche (assolutamente importante per le ricadute sociali in termini di lutti e dolore, nonchè per i costi economici che la collettività deve sopportare, quale conseguenze dirette di tanti incidenti stradali).
E’ evidente che la natura del reato in questione da contravvenzionale dovrebbe essere mutata in quella di delitto e che la previsione normativa in questione, attualmente inserita all’interno del Codice della Strada, dovrebbe appartenere organicamente al Codice Penale.
Queste due scelte non hanno significato prettamente formale, ma, invece, dovrebbero essere adottate proprio al fine di dare un segnale inequivoco di volontà di tutela sia del singolo che della collettività, ergo involgere il problema nella sua materialità.
La sanzione in relazione a tale reato deve essere, quindi, aumentata sensibilmente, sia per risultare adeguata e proporzionale alla gravità del fatto, sia perchè che le pene attuali non assolvono affatto ad una funzione di deterrenza e dissuasione del cittadino.
Reputo, inoltre, che non sia più sufficente la generica previsione dell’art. 93 c.p. .
Esso, sotto la rubrica “fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti”, si richiama al disposto dell’art. 92 c.p. (che si riferisce all’ubriachezza volontaria, colposa o preordinata) e stabilisce, sopratutto, un generico aumento della pena prevista per il reato commesso in ipotesi di preordinazione dello stato di intossicazione.
Tale norma può certamente essere mantenuta, quale clausola di salvagurdia, ma ritengo che il codice penale debba prevedere una circostanza aggravante ad effetto speciale, soprattutto operativa in relazione al delitto di omicidio colposo (con attenzione ai fatti conseguenti alla circolazione stradale), in base alla quale la pena possa essere quantificata in termini differenti rispetto al delitto di omicidio colposo, laddove venga dimostrato che l’autore del reato, al momento dei fatti, aveva assunto sostanze stupefacenti.
 
7. Il vincolo dell’arresto domiciliare quale viatico per l’accesso alla comunità.
 
Da ultimo una brevissima notazione in relazione all’art. 89 dpr 309/90, modificata dall’art 4 sexies della L. 49/06.
Allo stato, la legge prevede che il soggetto possa ottenere il ricovero in comunità o l’accesso ad un regime terapeutico di day-hospital solamente nella forma degli arresti domiciliari.
Si tratta di una previsione che ha indubbiamente aggravato il regime previgente che ammetteva l’accesso in comunità od il trattamento terapeutico extramoenia non vincolandolo ad una condizione di sottoposizione ad una misura gradata del tipo degli arresti domiciliari.
L’indagato/imputato, infatti, ben poteva accedere al trattamento, qualunque esso fosse, anche con la rimessione in libertà.
Come si è detto più volte la norma tradisce il mancato raccordo con il comma 5 bis dell’art. 284 c.p.p. che vieta la concessione degli arresti domiciliari a colui che sia stato condananto nei 5 anni precedenti al fatto oggetto del procedimento, per evasione.
Non si ocmprende, quindi, se prevalga quest’ultima norma, con divieto assoluto di deroghe, oppure se la stessa possa subire la prevalenza della lex specialis.
Siamo dinanzi ad un’ulteriore dimostrazione si disarticolazione normativa, cui è necessario porre urgente rimedio.
 
 
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Questi mi paiono i temi di maggior peso e che meritano un articolato sviluppo.
I miei, allo stato sono pensieri in libertà, una articolazione sistematica richiederà tempo ed organizzazione
 
Rimini, lì 20 Settembre 2006
 
Carlo Alberto Zaina
 


[1]           Non si potrà certo ritenere che la detenzione di quantitativi pari a centinaia di grammi, se non addirittura a chili di droga possa apparire come finalizzata all’uso personale e giovarsi della condizione di non punibilità.
[2]           Mi permetto di rinviare al mio testo LA NUOVA DISCIPLINA PENALE DELLE SOSTANZE STUPEFACENTI, Ed. Maggioli, 2006, per una trattazione di maggiore profondità del tema in questione.

Zaina Carlo Alberto

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