Per la Cassazione il diritto a un equo processo è da intendersi esclusivamente in favore delle parti del processo

Tommaso Gioia 20/04/21
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Con l’ordinanza n. 2310 del 2 febbraio 2021, la VI sezione della Corte di Cassazione (1) ha chiarito ulteriormente una questione che è già stata oggetto di diverse pronunce. Infatti, già altri casi hanno indotto gli ermellini a pronunciarsi sull’efficacia della c.d. legge Pinto nei confronti di quei soggetti che, benchè danneggiati dalle lungaggini processuali causate dalla macchina della giustizia italiana, non ne abbiano preso parte.

Nel caso esaminato dalla sentenza, la questione assume particolare rilevanza poiché il ricorrente ha giustificato il mancato e tempestivo intervento in un procedimento esecutivo (a cui aveva il diritto di partecipare in qualità di creditore) per una mera scelta difensiva.

SOMMARIO:

  1. Il fatto
  2. La normativa di riferimento
  3. Motivi del ricorso
  4. La decisione della Corte di Cassazione
  5. Deduzioni conclusive

 

La vicenda ha origine da una procedura esecutiva che ha avuto inizio in data 2 agosto 2004. L’attuale ricorrente, ulteriore e diverso creditore dell’esecutato, a seguito di una precisa scelta difensiva concordata con il proprio legale, decideva di non intervenire tempestivamente all’interno della nascenda procedura concorsuale, avviata da altro creditore. Attendendo “esternamente” i risvolti del procedimento, lo stesso diventava esecutivo per mancata impugnazione, da parte dell’esecutato, soltanto in data 29 maggio 2016.

A questo punto, il creditore che fino ad allora non era intervenuto, ha deciso di agire con ricorso dinanzi alla competente autorità giudiziaria per chiedere il ristoro economico previsto ex lege a causa della irragionevole durata del processo asserendo contestualmente che, sebbene non intervenuto materialmente nel processo, nelle sue qualità di fideiussore del debitore principale, dovesse comunque essere ritenuto come parte danneggiata in ragione della eccessiva durata del procedimento.

Il giudice di prime cure, sottolineando che il ricorrente non essendo stato per sua scelta parte attiva del procedimento, rigettava con decreto la domanda da lui proposta. Al rigetto decretato dal giudice di prima facie seguiva appello dinanzi alla Corte di Appello territorialmente competente che, confermando quanto dedotto dal giudice di prime cure, rigettava nuovamente l’impugnazione proposta dal ricorrente.

All’ulteriore rigetto decretato nel giudizio di appello seguiva ricorso per Cassazione.

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2. La normativa di riferimento

Come accennato nel libello introduttivo, l’originario ricorso è stato introdotto utilizzando come ubi consistam la c.d. legge pinto,  ovvero la l. n. 89 del 2001. Il predetto dettato normativo prevede che qualora la durata di un processo ecceda i tre anni in primo grado, i due anni in secondo grado e di un anno nel giudizio di legittimità, le parti processuali sono legittimate ad intraprendere una azione giudiziaria finalizzata all’ottenimento di un risarcimento da parte dello Stato, che dovrà essere calcolato sulla base di ogni anno di effettivo ritardo.

Come approfondimento meno confacente al caso in esame, va comunque doverosamente precisato che in realtà il calcolo non assume la forma di un basilare computo matematico, ovvero anni in eccesso moltiplicati per la somma prevista ex lege, ma dovrà in concreto essere valutata di volta in volta l’attività processuale che ha condotto al raggiungimento di un termine ritenuto irragionevole. In altre parole bisogna constatare se effettivamente la colpa è da attribuirsi alla macchina della giustizia così come “disegnata” dallo Stato o se le lungaggini processuali possano dipendere da atti che, in relazione al contesto processuale, avrebbero dovuto effettivamente esercitarsi.

Per concludere il focus sulla normativa in esame, va altresì precisato che la citata legge è stata introdotta dal legislatore per cercare di ossequiare il principio enunciato all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, ovvero il principio secondo cui le cause debbano essere trattate entro un termine di tempo ragionevole.

Per giurisprudenza costante, la quantificazione dell’indennizzo oscillava da un minimo di euro 500,00 ad un massimo di euro 1.500,00 per ogni anno di ritardo. Ora, a seguito della riforma adoperata dalla legge di stabilità del 2016, l’indennizzo liquidato dal giudice a titolo di equa riparazione va da un minimo di euro 400,00 a un massimo di euro 800 per ciascun anno o frazione ultrasemestrale di anno in cui il processo ha ecceduto la durata ragionevole. Ad ogni modo, è possibile prevedere, in determinati casi, un importo maggiore o minore che non superi, però, il valore della causa o quello del diritto accertato dal giudice se inferiore.

3. I motivi del ricorso

Il ricorrente ha inteso proporre ricorso per Cassazione sulla base di due motivi. Con un primo motivo si ha lamentato la violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che il ricorrente non fosse parte coinvolta nel procedimento.

Con un secondo motivo si è lamentata la violazione della L. n. 89 del 2001, articolo 2, comma 2-sexies (legge Pinto), in relazione all’articolo 360 c.p.c., poiché i giudici di secondo grado avrebbero erroneamente ritenuto che il mancato intervento all’interno del procedimento esecutivo fosse in realtà dovuto ad uno scarso interesse da parte del ricorrente.

4. La decisione della Corte di Cassazione

Gli ermellini, richiamando alcune interpretazioni già fornite dalla medesima Corte, hanno sancito che: “Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, specificamente richiamato dall’art. 2 della l. n. 89 del 2001, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle “parti” del processo – sia esso di cognizione o di esecuzione – nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche di soggetti che siano ad esso rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo”.

Nella prosecuzione del ragionamento logico-giuridico che condurrà al rigetto del ricorso, i giudici della Suprema Corte hanno dato rilievo anche alla figura giuridica del ricorrente, che per il caso concreto era quella di fideiussore.
La figura del fideiussore non è ritenuta parte indispensabile per l’avvio di una esecuzione immobiliare. Egli potrà al massimo intervenire. Poi, avendo il ricorrente ritenuto che il mancato intervento è da attribuirsi ad una scelta difensiva, ha ammesso di averlo fatto consapevolmente e, per questo, non curante del fatto che con suo intervento avrebbe potuto avanzare istanze ed essere presente nell’intera procedura.

Sul secondo motivo del ricorso, essendo stato assorbito dal primo, non è seguita ulteriore analisi.

5. Deduzioni conclusive

Sebbene nel caso esaminato dalla Corte pare abbastanza lineare il ragionamento adottato dalla Corte, in realtà l’eccezione in sé non è da ritenersi come totalmente infondata. Sono innumerevoli i casi in cui dalla irragionevole durata del processo vengano colpite anche parti terze rispetto alla causa. Si pensi all’ipotesi non poco comune in cui dalle lungaggini processuali vi siano dei patimenti di carattere psicologico e patrimoniale da parte di familiari del solo legittimato ad agire processualmente. Si presagisce, pertanto, che sebbene vi siano già state diverse pronunce sul punto, la Suprema Corte continuerà comunque ad essere sollecitata da parte di quei cittadini coinvolti solo indirettamente da  un procedimento giudiziario.

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