Orientamenti giurisprudenziali in materia di libertà d’organizzazione del datore di lavoro nel conflitto al di fuori dei servizi pubblici essenziali.

Redazione 15/07/03
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inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2003
di avv. Salvatore Dimartino
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Le forme di lotta sindacale costituiscono certamente la cartina di tornasole dello stato delle relazioni industriali, tanto all’interno di una singola azienda quanto, a livello più generale, di un sistema industriale.
Se ciò è vero, è evidente che il contenimento de gli effetti dello sciopero da parte del datore di lavoro ( comunemente identificato come crumiraggio ) atteso l’evidente interesse dei lavoratori di non vedere vanificati gli effetti della protesta, costituisce probabilmente il momento più forte della dialettica quotidiana che caratterizza il rapporto di lavoro.
Il fenomeno non ha avuto eccessiva rilevanza da un punto di vista giurisprudenziale; né, risultano, particolari approfondimenti in materia sul piano dottrinario[1].
Ciò, probabilmente, è dovuto al nostro sistema di relazioni sindacali, che, salvo particolari momenti[2], dagli anni ’70 ad oggi a differenza che in altri paesi[3], è stato caratterizzato da un apprezzabile rispetto reciproco del ruolo di ciascuna parte e che, negli anni ’90, a seguito degli accordi interconfederali del luglio 1993, ha di fatto segnato il passaggio dal conflitto alla concertazione, i cui effetti positivi, nel momento in cui ci si appresta a riscrivere nuove regole, non possono essere sottovalutati.
Non può infatti farsi a meno di osservare come il dibattito sulle riforme del rapporto di lavoro ( dall’accesso al lavoro alle garanzie dei lavoratori ) e la perdurante crisi economica ( che sta impietosamente colpendo il sistema industriale ) abbiano determinato un inasprimento delle relazioni industriali, che hanno sempre più spesso assunto i colori e le forme del conflitto piuttosto che della concertazione ( che pure nel corso degli anni ‘90 aveva dato buoni frutti ).
Questa situazione, ha evidentemente riportato d’attualità il tema dello sciopero e dei mezzi di tutela del datore di lavoro degli spazi di libertà d’iniziativa economica che l’art. 41 della Costituzione gli riconosce.
In quest’ottica, l’esame della giurisprudenza sull’argomento, mira perciò ad individuare le possibili linee evolutive della materia. L’analisi è tuttavia limitata ai settori produttivi diversi da quelli dei servizi pubblici essenziali di cui alla L. 146/90,per la peculiarità di questo settore produttivo ove l’ordinamento tende a “ … contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati “ quali il diritto alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione, e nei quali è presente come soggetto ulteriore, oltre al datore di lavoro ed ai lavoratori anche quali soggetti organizzati collettivamente, la Commissione per la relazioni sindacali nei servizi pubblici essenziali ( comunemente detta Commissione di garanzia ).
Occorre subito dire come mai nessuno abbia dubitato del diritto del datore di lavoro di porre in essere opportune contromisure a difesa dei propri interessi, a differenza dei lavoratori che hanno visto il riconoscimento del diritto allo sciopero in maniera ben più travagliata[4].
Nella sua elaborazione la giurisprudenza sembra preferire un atteggiamento pragmatico – talvolta anche a costo di qualche incoerenza – tendente alla ricerca di un punto di equilibrio tra due posizioni ugualmente meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.
Queste prospettive di un contemperamento tra il diritto di sciopero e la libertà sindacale ( costituzionalmente garantiti anche in negativo ) da un canto e la libertà d’impresa, anch’essa costituzionalmente garantita, viene utilizzata dalla stessa Corte Costituzionale.
Osserva il giudice delle leggi[5] come “…….. pronunciando su norme positivamente incidenti sull’esercizio dello sciopero dei dipendenti pubblici, nel riconoscere anche a questi ultimi il diritto di sciopero ( sent. n. 31 del 1969 e 222 del 1976 ) ( la Corte Costituzionale ndr ) ne ha peraltro messo in rilievo le possibili interferenze con interessi e servizi << essenziali >> e le conseguenti delimitazioni in ordine all’esercizio del diritto stesso. A maggior ragione, non può contestarsi le legittimità di misure ( dettate, in via generale, per supplire alla mancanza e all’impedimento degli ufficiali giudiziari, degli ufficiali giudiziari, dei cancellieri o dei segretari ) che, senza in nulla coartare la libertà del lavoratore il quale abbia inteso scioperare, a contenere gli effetti dannosi dello sciopero stesso;…. La tutela di interessi coinvolti dallo sciopero viene ricercata mediante misure ( normative ed organizzative ) diverse dall’intervento sul diritto stesso; una violazione dell’art. 40 Cost. appare perciò esclusa in radice. Parimenti infondata è la censura di violazione del principio d’uguaglianza, … “.
Appare evidente come il giudice delle leggi si sia preoccupato principalmente di focalizzare il punto centrale della vicenda, ovverosia quello dei rapporti tra diritto di sciopero e di libertà sindacale dei lavoratori, libertà d’organizzazione dell’imprenditore ( e tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti nel settore dei servizi pubblici essenziali ).
All’interno di questo solco si muove pure la giurisprudenza di merito e di legittimità, senza, pur tuttavia, non poche distinzioni tra la prima[6] – orientata a tutelare il diritto di sciopero e la libertà sindacale in modo più ampio e prevalente sulla libertà d’iniziativa economica – e la seconda – orientata in senso opposto – tendente a rafforzare e ad ampliare gli spazi per il datore di lavoro.
Questa diverso punto di vista tra giurisprudenza di merito e legittimità, ricorre in un caso, ormai piuttosto risalente nel tempo, allorquando la Suprema Corte fu investita della questione da un’azienda di credito che, a fronte della proclamazione di un sciopero indetto in vista del rinnovo del contratto collettivo di categoria, aveva diversamente organizzato l’orario di lavoro giornaliero e settimanale dei dipendenti non aderenti allo stesso, ed era perciò stata condannata in tutte le fasi di merito del giudizio ritenendosi che ciò avrebbe costituito crumiraggio ( nella fattispecie interno ), meritevole di censura ex art. 28 St. Lav., che invece garantirebbe al lavoratore “ … non solo l’esercizio dei diritto di sciopero, ma anche il conseguimento degli effetti dannosi per il datore di lavoro, con lo stesso perseguiti, con corrispondente obbligo del datore di lavoro di astenersi da qualsivoglia comportamento inteso ad ostacolarne la realizzazione “[7].
La Corte di Cassazione[8] ha ritenuto piuttosto che “ … se il diritto di sciopero direttamente attribuito ai lavoratori dalla Costituzione di per se comporta – trattandosi di mezzo di autotutela specificamente ordinato a condizionare le determinazioni del datore di lavoro attraverso la provocazione di una diminuzione dei suoi profitti – la legittimità ( … ) della produzione di danni a carico del predetto, la soggezione di questi ad una tale forma di pressione certamente non esclude il suo diritto – postulato, anzi, dal carattere conflittuale del rapporto dialettico entro cui l’esercizio dell’autotutela si pone – di avvalersi di ogni mezzo legale che possa – senza impedire tale esercizio – evitarne o attenuarne gli effetti nocivi. È pertanto senz’altro da escludere che, come dal tribunale si afferma, sussista << a carico del datore di lavoro un dovere di astenersi da quegli atti da cui consegua la vanificazione della lotta sindacale >> ed è per contro da ritenersi legittimo il ricorso, beninteso per le vie legali, all’impiego di personale, anche esterno all’azienda, non scioperante, la cui volontaria collaborazione costituisce oltretutto fruizione di una libertà assicurata dai principi fondamentali della Costituzione, con la particolare accentuazione conferita in materia del disposto del suo articolo 4, e necessario risvolto dello stesso diritto di sciopero. … il fatto di aver preteso la prestazione di lavoro straordinario al di fuori, in assunto, delle situazioni al riguardo previste dal contratto collettivo non potrebbe di per sè costituire comportamento antisindacale, ben potendo tale pretesa trovare naturale correttivo nel rifiuto da parte degli interpellati delle prestazioni richieste, la possibilità di ravvisare nel caso un tale comportamento viene a porsi in esclusiva dipendenza dell’effettiva sussistenza, secondo quanto sostenuto dai sindacati, a mezzi di coartazione, ancorchè indiretta, della volontà degli aderenti alla richiesta “.
Non può non cogliersi in tutto ciò – pur nella prospettiva di riportare entro corretti ambiti il diritto di sciopero che nell’ottica dei giudici di merito presupporrebbe quasi un onere di collaborazione del datore di lavoro alla buona riuscita dello sciopero di cui non v’è riscontro nell’attuale ordinamento – una certa contraddittorietà interna.
Da un canto infatti si afferma il diritto del datore di lavoro di “ … avvalersi di ogni mezzo legale che possa – senza impedire tale esercizio – evitarne o attenuarne gli effetti nocivi … “ dello sciopero, e dall’altro si ammette la possibilità di “ … di aver preteso la prestazione di lavoro straordinario al di fuori, in assunto, delle situazioni al riguardo previste dal contratto collettivo … “.
Se, infatti, appare condivisibile l’affermazione che il diritto di sciopero non può implicare alcuna limitazione alla libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro, allo stesso modo dovrà ammettersi che la libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro non potrà implicare alcuna limitazione al diritto di sciopero che non sia legale.
Si tratta di individuare allora un ambito omogeneo di legalità tra le due posizioni che, così come nell’interesse generale tutela la libertà d’iniziativa economica da quelle forme di sciopero ( che perciò sono illegali ) allorquando impediscano il funzionamento dell’azienda od espongano a grave pregiudizio la sua produttività, ovvero altri diritti e/o beni costituzionalmente garantiti, dall’altro lato tuteli il diritto di sciopero e la libertà sindacale e ne garantisca il loro esercizio, ancora una volta nell’interesse generale, da interferenze della libertà datoriale contra legem, tanto in conflitto con interessi individuali quanto con interessi collettivi.
Non avendo altrimenti senso il richiamo “ alle vie legali “.
Una tale impostazione, presenta il vantaggio, di individuare degli spazi di intervento per il legislatore che, in un’ottica de iure condendo, volesse intervenire per ampliare le ipotesi di ricorso a lavoratori esterni per sostituire gli scioperanti ( ciò che è invece vietata da tutta la normativa in materia di lavoro a termine ).
Un’analoga impostazione si ritrova in una sentenza di poco successiva sempre della stessa Corte di Cassazione[9], che ammette come “… nel vigente ordinamento e alla stregua della odierna realtà delle relazioni del mondo del lavoro e delle prassi attuative del diritto di sciopero riconosciuto dall’art. 40 della Costituzione, l’esercizio di tale diritto non conosce limitazioni per quanto concerne la sua spettanza a tutte le categorie dei lavoratori privati e pubblici ( … ) e le modalità del suo esercizio ( … ), laddove il solo limite << esterno >> è costituito dalla non possibilità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzionamento o da comprometterne gravemente la stessa produttività così come di atti che provochino pregiudizio a fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto quale quello alla vita e all’incolumità personale altrui “[10].
In quest’occasione la Corte si preoccupa anche di definire i limiti di legittimità dell’agire dell’imprenditore nel conflitto, ed in particolare della legittimità del ricorso al cd. “ crumiraggio “ esterno, ovvero dei rapporti tra tutela della libertà sindacale e del diritto di sciopero da una parte e tutela della libertà imprenditoriale, nel caso delle “ comandate “ disposte dal datore di lavoro in violazione di eventuali interessi di diretta od indiretta rilevanza collettiva ( attraverso modifiche all’orario di lavoro, ricorso al lavoro straordinario di personale assunto part time, ovvero adibizione di personale a mansioni inferiori per sostituire personale assente per sciopero, senza alcun espresso accordo con le organizzazioni sindacali dei lavoratori ).
In particolare si osserva “ … come allo stesso datore di lavoro non possa essere negato ( e, al postutto, il riferimento costituzionale si riscontra nell’art, 41, comma 1, della legge fondamentale ) di continuare lo svolgimento dell’attività aziendale mediante il personale dipendente che ancora resti a sua disposizione in quanto non partecipante allo sciopero e che venga temporaneamente adibito alle mansioni proprie degli scioperanti, … “, con il solo limite del ricorso a lavoratori esterni all’azienda.
Si ripropone, ancora una volta, un’impostazione discrasica e che non pone sullo stesso piano la tutela alla libertà d’iniziativa economica con il diritto di sciopero e la libertà sindacale, la prima tutelata anche contro pregiudizi indiretti e meramente potenziali, i secondi solo in quanto lesi direttamente dall’iniziativa datorile.
Per quanto l’art. 2103 cc non contenga un espresso divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori[11], non si può non cogliere la gravissima interferenza – al limite della stessa correttezza e buona fede contrattuale, ovvero dell’abuso datoriale di potere conformativo della prestazione lavorativa – di una tale iniziativa imprenditoriale con il diritto di sciopero o la libertà sindacale, nonché della elusione ( non tanto e/o non solo degli effetti ) del conflitto in sé considerato.
Cionondimeno, la giurisprudenza – soprattutto di legittimità – tende ad ammettere una tale risposta imprenditoriale allo sciopero, destando non poche perplessità.
Come si vede, la tesi si fonda sulla distinzione tra lesione diretta ( o se si vuole tipica ) di diritti individuali dei singoli lavoratori con conseguente legittima lesione indiretta ( o se si vuole atipica ) di diritti di rango collettivo, e lesione diretta ( o se si vuole tipica ) e perciò illegittima della libertà sindacale che del diritto di sciopero.
Si tratta di una ricostruzione delle posizioni in gioco che appare poco convincente, fondandosi essenzialmente su affermazioni di carattere definitorio utilizzate in maniera apodittica, che sembra provare troppo; ma che soprattutto, sotto profili del rapporto di lavoro del tutto affini ( fissazione del periodo di ferie, rifiuto della prestazione lavorativa ) non trova una soluzione pacifica, come si vedrà più avanti.
Essa, infatti, non tiene in adeguata considerazione il fatto che il legislatore, attraverso lo strumento dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, ha tutelato la libertà sindacale ed il diritto di sciopero in maniera teleologica, e non elencando le facoltà legittime e quelle illegittime del datore di lavoro.
A tal proposito non osservarsi che la tradizionale distinzione tra crumiraggio interno ed esterno, non tiene altresì conto dell’elemento soggettivo che, in chiave antisindacale, potrebbe sottostare alle possibili iniziative imprenditoriali di contenimento degli effetti del conflitto.
Ed allora, laddove fosse fornita adeguata prova processuale di un tale stato di cose, non si vede come il giudice potrebbe ritenere legittimo il comportamento del datore di lavoro.
E’ stato infatti altresì ammesso che[12] occorre che “ … il comportamento, perché possa definirsi antisindacale abbia prodotto o sia oggettivamente idoneo a produrre << il risultato che la legge intende impedire e, cioè la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero >>, sicché, per il caso in cui il risultato del comportamento dovesse conformarsi a quello che la legge intende proteggere, la condotta non potrebbe certo qualificarsi come antisindacale anche se, apparentemente, abbia in concreto limitato la libertà sindacale o il diritto di sciopero, ma, in realtà, sia dovuta all’esercizio di un non contestabile diritto del datore di lavoro, al quale non si contrapponga un opposto diritto dei lavoratori che sia valido a contrastare il primo, o all’adempimento di un dovere, imposto allo stesso datore di lavoro da una disposizione di legge dettata a tutela di diritti di pari o superiore dignità costituzionale. Da una tale premessa deve evidentemente farsi derivare che, attesa la voluta non specificazione delle condotte vietate dalla legge al datore di lavoro al fine di una piena tutela della attività sindacale, tra esse deve farsi rientrare qualsiasi comportamento, che sia idoneo ad arrecare pregiudizio, tra l’altro, alla piena e libera esplicazione, nell’ambito aziendale, dei compiti che l’ordinamento attribuisce alle rappresentanze dei lavoratori per assicurare gli interessi individuali e collettivi di questi ultimi, intendendo così garantirsi la protezione del diritto delle organizzazioni sindacali allo svolgimento della attività sindacale in azienda, diritto il cui contenuto è anch’esso atipico non facendosi riferimento, sotto il profilo oggettivo, a una sua definizione nell’articolo 14 dello Statuto dei lavoratori, …, derivandone che il concreto contenuto del diritto di attività sindacale, almeno nella parte in cui la stessa può comprimere il potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, è rinviata alle disposizioni di cui al titolo terzo dello stesso Statuto – che garantiscono i diritti alla informazione, alla concertazione e al proselitismo, da esercitarsi sempre assicurandosi il normale svolgimento della attività aziendale – salve più ampie previsioni eventualmente contenute nei contratti collettivi “.
Senza dire poi che, a nulla varrebbe far riferimento all’eventuale consenso dei lavoratori non scioperanti ed adibiti alle mansioni inferiori, essendo evidente che si tratta di diritti di rilevanza collettiva dei quali gli stessi non potrebbero disporre.
Ecco perché più convincente appare invece il percorso seguito da una recente giurisprudenza di merito[13] secondo cui “ … la dimensione lesiva del crumiraggio dev’essere ravvisata nel fatto che, con esso, il datore di lavoro ridimensiona gli effetti dello sciopero e, quindi, ne indebolisce la funzione. Tale conseguenza per l’azione sindacale non è però, in se, ancora sufficiente a far ritenere l’antisindacalità della condotta, perché il diritto di sciopero dev’essere contemperato con la libertà d’iniziativa economica, anch’essa di rango costituzionale in virtù dell’art. 41 Cost. Il contemperamento, peraltro, non può che essere realizzato attraverso l’ordinamento positivo e, in particolare, con l’affermazione che il datore di lavoro ha il diritto di limitare le conseguenze sfavorevoli dello sciopero, poiché ciò è espressione del carattere fisiologicamente conflittuale delle relazioni collettive ( giusta Cass. 13.3.1986 n. 1701 ), purchè ricorra ad istituti consentiti dall’ordinamento. … per cui il datore di lavoro può ridimensionale gli effetti dello sciopero solo attraverso le vie legali. … più, quindi, che rifarsi alla tradizionale impostazione giurisprudenziale secondo cui sarebbe illegittimo il crumiraggio esterno ( con l’utilizzo di lavoratori assunti ad hoc ), mentre non lo sarebbe quello interno, la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito dev’essere tracciata avuto riguardo alle norme di legge ed a quelle collettive che regolano il rapporto. Ciò, … è la diretta conseguenza dell’esistenza delle reciproche facoltà delle parti. Non è, infatti, che la violazione della normativa che regola il rapporto di lavoro individuale rende antisindacale ciò che non lo sarebbe stato, ma piuttosto il contrario, e cioè che ciò che comunque limitava sostanzialmente il diritto di sciopero, attraverso la mortificazione anche solo parziale dei suoi effetti, doveva essere sopportato sol perché espressione di una facoltà riconosciuta all’imprenditore. Laddove tale facoltà non vi sia ( poiché è proprio il datore di lavoro a violare la normativa che regola il rapporto ), non v’è più ragione di accettare la limitazione del diritto di cui all’art. 40 Cost. … si sciopera, …, per arrecare un sensibile disturbo e, dunque, l’effettività del diritto ne presuppone la pienezza degli effetti ed ogni qual volta il datore di lavoro ridimensiona tali effetti frustra il diritto di sciopero. Se legittimamente o non, poi, lo si deve stabilire proprio avuto riguardo al mezzo che egli utilizza per raggiungere tale scopo. Peraltro, per questa via si arriva comunque a dire che il crumiraggio esterno è sempre illegittimo, poiché realizza un’ipotesi di contratto a termine per scopi non consentiti ed al di fuori delle ipotesi previste; il crumiraggio interno, dal canto suo, normalmente non lo è, perché rappresenta un’ipotesi d’utilizzazione del personale da parte del datore di lavoro che normalmente non viola alcuna norma. Se, però, in concreto, si realizza attraverso una violazione di legge o dei contratti collettivi, anch’esso è illecito “.
Impostazione questa, che appare francamente più convincente e coerente sul piano logico giuridico, e che consente una ricostruzione unitaria, sul piano sistematico, del fenomeno che supera la tradizionale distinzione tra crumiraggio esterno e crumiraggio interno, per sostituirla con la distinzione tra esercizio di una facoltà legittima ed esercizio di una facoltà illegittima.
Del resto non può non cogliersi una qualche discrasia tra il diverso trattamento del crumiraggio esterno ( illegittimo ) e crumiraggio interno ( legittimo ), pur implicando entrambi la violazione di norme di legge, pur in presenza del medesimo elemento soggettivo antisindacale.
La necessità che la reazione imprenditoriale al diritto di sciopero sia sempre connotata da legittimità della stessa, a prescindere della natura individuale e/o collettiva della norma violata, non è una novità assoluta per la Corte di legittimità.
Di fronte al mancato reinserimento ed al rifiuto dell’offerta di prestazione dei lavoratori scioperanti ( in conformità ad un codice di autoregolamentazione ) con conseguente decurtazione della retribuzione in misura superiore e non proporzionale alla durata dello sciopero, era stata dichiarata la legittimità[14] del comportamento del datore di lavoro non potendo sussistere un’azione di repressione della condotta antisindacale che non comportasse anche la rimozione degli effetti di tale condotta e fosse limitata ad una mera declaratoria, svuotata dal contenuto suo proprio e non essendo legittimato il sindacato a far valere il diritto dei lavoratori alla retribuzione non percepita, malgrado l’offerta della prestazione, quando tale diritto non fosse strettamente collegato con il procedimento di repressione della condotta antisindacale.
La Corte[15], ha ritenuto piuttosto che una “ … in siffatta affermazione, si annida un vizio logico-giuridico, tanto quanto si esclude in via assoluta che al diritto di sciopero e-o alla attività e libertà sindacale possa attenersi ( …) attraverso comportamenti che incidono su posizioni soggettive del singolo lavoratore, quale il diritto alla retribuzione per le prestazioni offerte e non accettate senza motivo legittimo (art. 1206 c.c.). In altri termini, ben vero che << la condotta del datore di lavoro prevista da questa norma ( art. 28 Statuto lav. n.d. est. ) non può essere identificata con quella violatrice di meri interessi patrimoniali o morali dei singoli individui, ma deve estrinsecarsi in atti diretti ad impedire o a colpire o a limitare l’esercizio delle libertà o dello svolgimento delle attività sindacali e, pertanto, gli interessi collettivi di una larga sfera di lavoratori >> ( … ); ma da tale principio discendeva l’obbligo per il giudice del merito d’indagare se, attraverso il denunciato rifiuto del datore di lavoro, avente immediata incidenza sulla sfera soggettiva dei singoli lavoratori, non si ponesse in essere un atto diretto a colpire o a limitare l’esercizio della libertà e attività sindacale o del diritto di sciopero, posto che quel rifiuto si collegava e si motivava con l’effettuazione di uno sciopero proclamato dal sindacato e attuato in conformità delle norme di autoregolamentazione dallo stesso stabilite. Ciò implicava che il giudice del merito offrisse adeguata risposta al quesito se il comportamento dell’azienda ( … ) colpisse o meno il diritto di sciopero e-o l’attività sindacale. Essendo, infatti, la fattispecie sanzionata dalla norma una << fattispecie strutturalmente aperta >>, essa è integrata da ogni comportamento idoneo a ledere il bene tutelato, e quindi può venire ad esistenza anche in virtù di comportamenti lesivi di interessi di singoli individui, quando tali comportamenti siano << diretti a limitare l’esercizio della libertà nonché dei diritti di sciopero >> “.
Secondo la Corte, occorreva accertare, oltre che l’eventuale impossibilità ad utilizzare le prestazioni offertegli dai lavoratori durante i giorni del turno non interessati dallo sciopero, tenuto conto che, ove una tale impossibilità fosse risultata inesistente o si fosse trattato di mera difficoltà, il rifiuto del datore di lavoro si sarebbe configurato come esercizio di un inammissibile “ … controdiritto di serrata, di fronte al diritto costituzionalmente garantito di sciopero … “[16], ma anche che “ … non poteva prescindere dal previo accertamento della legittimità del comportamento in questione, postochè, ove questo fosse risultato illegittimo – sarebbe stata sufficiente la sua obiettiva idoneità a ledere il bene protetto per integrarne l’antisindacalità “.
Le lavorazioni a ciclo continuo costituiscono, per ovvie ragioni, un altro dei terreni di contrapposizione tra il diritto del lavoratore allo sciopero e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro.
L’orientamento giurisprudenziale sul punto appare consolidato, sia nel percorso logico giuridico, sia nelle affermazioni di principio.
E tuttavia talune sfumature sono pur sempre percepibili.
In ipotesi di sciopero a singhiozzo in un impianto a ciclo continuo, la Corte[17] ha ritenuto costantemente la legittimità del comportamento del datore di lavoro che aveva rifiuta la prestazione irregolare, essendo questa inutilizzabile ed anomala.
In particolare, premesso che la struttura aziendale costituisce presupposto essenziale per la stessa prestazione lavorativa, al punto che la “ … prestazione può essere legittimamente rifiutata, senza obbligo di corrispondere la relativa retribuzione, allorché, in ipotesi di sciopero parziale, ragioni connesse alla particolare tecnologia degli impianti – che il Giudice può sindacare solo se si rilevino irrazionale rispetto alla normale ed ordinata loro attività – abbiano indotto l’imprenditore a sospendere l’attività degli impianti medesimi. E ciò pur dovendosi dedurre e dimostrare – da parte del datore di lavoro – che l’astensione dei lavoratori si è tradotta non in una mera difficoltà, ma in una vera e propria impossibilità obiettiva, tale da costituire, ai sensi dell’art. 1256 c.c. motivo legittimo per il rifiuto della prestazione offerta durante le interruzioni dello sciopero (v. in tal senso, sent. 2179-79; 4212-79; 3290-83; 5186-83; 2696-84; 4292-84; 419-85; e da ultimo 61-86, nonché altra decisa il 3-4-1986 in causa Italcementi c. Mardegan e in corso di pubblicazione). Sotto tali profili, perciò, deve essere considerato che in presenza di una impossibilità o inadeguatezza della prestazione, che, in relazione al tipo ed alla natura della produzione aziendale, non essendo impiegata attivamente nelle mansioni determinate ed attribuite, venga appunto ad essere inutilizzabile e non più proficua, vengono in rilievo anche le perdite economiche della produzione industriale concernenti la distruzione o l’inefficienza del prodotto ottenuto ovvero l’assunzione di maggior oneri e costi, quali quelli inerenti alla sospensione o riattivazione del ciclo produttivo, od all’opposto mantenimento in funzione degli impianti a vuoto. Ma neppure, al riguardo può ritenersi che il datore di lavoro debba provvedere in modo assoluto e – come tale – sempre attuabile, ad una modificazione del ciclo produttivo, già programmato secondo le esigenze di funzionalità, efficienza, e rendimento di piena produttività dell’impresa, in connessione a dipendenze delle alterazioni del detto ciclo produttivo derivanti dalle modalità dello sciopero. In tal modo, infatti, verrebbe a farsi dipendere dalle stesse modalità dello sciopero non già la sola conseguenza di questo – che è la perdita dell’attività e del compenso utile economico per il blocco imposto dall’astensione lavorativa – ma addirittura la strutturazione, l’organizzazione e la funzionalità degli impianti e del connesso rendimento, con un’alterazione anormale e perciò illegittima del potere organizzativo dell’imprenditore “.
Con la conseguenza che in caso di sciopero a singhiozzo, a scacchiera ( o in qual si voglia altro modo articolato all’interno della a medesima unità produttiva ), non può ammettersi come elemento di legittimità dell’agire imprenditoriale la possibilità di evitare i danni conseguenti con una tempestiva modifica del programma produttivo essendo piuttosto evidente che la libertà di organizzazione dell’imprenditore ( garantitagli dall’art. 41 Cost. ) non tollera interferenze esterne.
Da quanto sopra esposto, si possono perciò ricavare i seguenti principi:
rilevanza della struttura tecnico produttiva ai fini dell’individuazione della prestazione lavorativa, e del correlato potere conformativo del datore di lavoro;
insindacabilità delle scelte tecnico produttive organizzative dell’imprenditore da parte del giudice, salvo il limite dell’irrazionalità delle stesse ( che darebbero perciò luogo ad un’ipotesi di abuso di potere );
onere della prova dell’irricevibilità e delle ragioni del rifiuto della prestazione lavorativa a carico del datore di lavoro;
impossibilità e/o inadeguatezza oggettiva della prestazione lavorativa;
rilevanza delle perdite industriali in termini di distruzione e/o inefficienza del prodotto, maggior oneri e/o costi di produzione;
assenza di obblighi di collaborazione a carico del datore di lavoro ( sulla buona riuscita dello sciopero ).
L’insindacabilità ( ovvero la sindacabilità ) delle scelte aziendali, nei limiti di cui sopra, da parte del giudice è riaffermato in una sentenza[18], di poco successiva, con la quale è stato respinto il ricorso di un’azienda con lavorazione a ciclo continuo che in occasione di uno sciopero a singhiozzo di 1 ora dei propri dipendenti – preannunciato tempestivamente e dal quale erano stati espressamente esentati dalla partecipazione i lavoratori necessari a tenere in marcia l’impianto sia pure al minimo della sua capacità produttiva – aveva tuttavia preferito spegnere completamente l’impianto produttivo, così perdendo un’intera giornata di lavoro, ed era perciò stata condannata per comportamento antisindacale[19].
La Corte di Cassazione[20] ha ritenuto il giudizio del giudice di appello “ … esente da vizi logici od errori di fatto e, come tale, incensurabile in questa sede ha ritenuto che la fermata non trovava giustificazione neppure dal punto di vista economico, comportando essa, com’era incontroverso, un’inattività produttiva di ore 16+2, oltre lo stretto periodo di astensione degli scioperanti, mentre la << tenuta in veglia >>, a parità degli altri oneri connessi al logoramento degli impianti, permetteva di limitare alla sola durata dello sciopero ( un’ora ) l’interruzione dell’attività produttiva, con il modesto costo aggiuntivo del consumo energetico e della retribuzione del personale di vigilanza “.
Appare evidente nel pronunciamento sopra riportato come la Corte richieda al datore di lavoro di agire secondo razionalità evitando di abusare della propria posizione di supremazia all’interno dell’organizzazione aziendale.
Sempre in tema di comandata, la Corte[21] ha ritenuto legittimo il comportamento del datore di lavoro che, in occasione di uno sciopero in cementificio, aveva disposto la comandata di 24 dipendenti per mantenere acceso un altoforno al minimo regime di produzione anziché di 9 sufficienti a spegnere del tutto l’impianto.
La Corte, richiamato “ … l’insegnamento della Corte Costituzionale, ( secondo cui ndr ) il pregiudizio che i lavoratori possono arrecare al datore di lavoro con lo sciopero non può essere diverso o maggiore di quello che potrebbe derivare dalla sospensione pura e semplice dell’attività lavorativa… “, tenuto altresì conto di apposita consulenza tecnica che aveva accertato che lo spegnimento arreca pregiudizio al rivestimento refrattario del forno e che deve essere evitato quanto più possibile, e che in conseguenza lo sciopero dei lavoratori non avrebbe potuto arrecare quel danno, e che lo stesso non poteva essere posto alla stessa stregua di un’eventuale intervento di manutenzione ovvero un evento calamitoso, ha concluso nel senso che “ …il danno che il datore di lavoro deve subire in occasione di scioperi è quello derivante dalla mancata produzione, non può riguardare certamente gli impianti, che devono comunque, nell’interesse del datore di lavoro, dei lavoratori e della collettività, essere tutelati. … ( in quanto il datore di lavoro ndr ) non aveva disposto la comandata per ottenere una produzione anche durante lo sciopero, così boicottandolo, bensì al solo scopo di salvaguardare gli impianti “[22].
Ma le limitazioni all’autonomia datorile non riguardano solo le scelte per così dire di natura prettamente industriale, ma anche organizzative in senso più ampio, ammettendosi anche limitazioni ai poteri derivanti dall’art. 2109 cc, in materia di ferie.
La Corte[23], investita da un datore di lavoro, che in occasione di uno sciopero nazionale di categoria in occasione di un rinnovo contrattuale, aveva unilateralmente posto in ferie i lavoratori sulla scorta della necessità di preservare la produttività degli impianti, ha ritenuto che “ … il diritto di sciopero non ha altri limiti, attesa la genericità della sua nozione comune, presupposta dal precetto costituzionale (art. 40), e la mancanza di una legge attuativa di questo, se non quelli meramente esterni, che si rinvengono in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti su un piano prioritario, come il diritto alla vita o all’incolumità personale, o quanto meno paritario, come il diritto alla libertà di iniziativa economica la cui illegittima lesione può ravvisarsi esclusivamente in quelle forme di sciopero idonee a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la produttività dell’azienda. … questa stessa Corte (5.11.1985, n. 5378), nel caso di impianto produttivo non di lunga o indefinibile durata ma destinato ad essere utilizzato a ciclo continuo e soggetto, per sua natura, a fermate periodiche ed a conseguenti riavviamenti che ne abbreviano la vita, ha affermato sì che nel concetto di ammortamento (che fa parte del rischio d’impresa) rientrano gli arresti determinati da necessità di manutenzione dell’impianto medesimo e di comprovata ragione, e non anche quelli per sciopero, ma ha anche chiarito che tali ultimi arresti sono illeciti solo se protratti e reiterati. Ha inoltre affermato (24.1.1981, n. 568), in tema di condotta antisindacale del datore di lavoro, che l’esercizio di un diritto da parte di questi può risolversi in uno strumento di torto giuridico ove, in relazione alle concrete modalità del suo svolgimento, e segnatamente dall’atteggiamento subiettivo nonché dalle finalità perseguite, esso si concreti in un abuso del diritto stesso. Tali principi di diritto sono non trasgrediti, ma condivisi ed applicati dalla sentenza del Pretore di Bergamo allorché rileva che la fermata in più, a fronte delle sessanta fermate annue degli impianti per le festività ordinarie assumeva carattere di marginale modestia sotto un profilo numerico e di sostanza; che la decisione dei dipendenti di astenersi dal lavoro fu dovuta alla necessità di aderire ad uno sciopero a carattere nazionale, volto a pregiudicare la produzione nazionale e non la produttività di quell’unica azienda; che invece la condotta tenuta dalla società era apparsa non rivolta alla tutela degli impianti, ma diretta a dissuadere le maestranze dall’aderire allo sciopero; che il datore di lavoro può avere il diritto di fissare le ferie dei dipendenti secondo le esigenze dell’imprese, ma che il principio, di per sè giusto, non deve essere stravolto, nè, soprattutto, strumentalizzato ad altri fini “ .[24]
Com’è facile notare, la Corte, di fronte ad un comportamento datoriale, manifestamente antisindacale, non si pone il problema della libertà dell’imprenditore garantita dall’art. 41 Cost., ma censura le sue scelte ritenendole illegittime ex art. 28 Cost., anche a costo di estendere il proprio controllo al merito delle stesse, anche quando queste di fondino su un diritto dell’imprenditore ( di fissare le ferie dei dipendenti ), preoccupandosi di verificare che in questo modo l’imprenditore non strumentalizzi le proprie prerogative a fini diversi.
Risulta allora evidente, così come già anticipato, l’assoluta irrilevanza – ai fini dell’individuazione di un ambito dia legittimità della libertà imprenditoriale – della distinzione tra lesione di situazioni soggettive di carattere individuale e lesione di situazione soggettive di carattere collettivo, essendo piuttosto preferibile distinguere tra esercizio di facoltà legittime ed esercizio di facoltà illegittime da parte dell’imprenditore in caso di conflitto.
Ad analoghe conclusioni si perviene esaminando la sentenza successiva.
La Corte[25] ha anche precisato i limiti dell’utilizzabilità della prestazione lavorativa, e la legittimità dell’eventuale rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro, precisando che l’astensione “ non può più ritenersi come comportamento conforme alle regole contrattuali sopraddette, quando non sia proficuamente utilizzabile nella preesistente organizzazione dell’azienda e nella sua potenzialità produttiva e comporti oneri e spese maggiori di quelle ricollegabili direttamente all’esercizio del diritto di sciopero, comprese quelle relative alle spese generali e gli ammortamenti, rientranti come tali nelle aspettative di tale esercizio, in quanto inevitabile conseguenza ed anzi elemento caratterizzante dello strumento di pressione (Cass. n. 2840 del 1984). Infatti è la struttura dell’impresa, in cui è inserita, che costituisce il presupposto e la ragione essenziale della prestazione lavorativa. Conseguentemente in tal caso il datore di lavoro, che ha il diritto di organizzare l’impresa (art. 41 Cost, 2082 e 2086 c.c.) anche per quanto riguarda la particolare tecnologia e il funzionamento degli impianti nonché di rifiutare ogni prestazione incompatibile con la predisposta organizzazione (sent. 1460, 2094, 2104 c.c.), non incorre in mora accipiendi ove non accetti la prestazione irregolare offertagli ed è liberato dall’obbligo di corrispondere la correlativa retribuzione, determinandosi una sopravvenuta impossibilità delle contrapposte obbligazioni (fra le altre v.: Cass. n. 4893 del 1978, 2179 del 1979, 2934 del 1982, 3167 e 3290 del 1983, 4292 del 1984, n. 61 del 1986 e conformi). Incombe al datore di lavoro l’onere di provare che l’astensione lavorativa si è tradotta non in una mera difficoltà ma in una vera e propria impossibilità obiettiva, tale da costituire ai sensi dell’art. 1265 c.c. motivo legittimo per il rifiuto della prestazione “.
Sotto altro profilo, la conclusioni della giurisprudenza non appaiono condivisibili, estendendo il controllo delle scelte imprenditoriali anche al merito delle stesse, come risulta dall’esame di una recente vicenda.
In occasione di uno sciopero a scacchiera degli operai di un’acciaieria, i lavoratori del terzo turno di un reparto a monte di quello che aveva scioperato erano stati posti in libertà ( mentre avevano lavorato quelli dei due turni precedenti ) e perciò avevano chiesto la condanna del datore di lavoro al pagamento della retribuzione.
Il Pretore prima, ed il Tribunale in appello[26] avevano condannato il datore di lavoro ritenendo che l’impossibilità ad adempiere del datore di lavoro poteva essere ravvisata solo quando la necessità di operare variazioni al ciclo produttivo comportassero la possibilità di danni agli impianti produttivi ovvero spese tali da rendere la prestazione del tutto antieconomica.
Il giudice di legittimità[27], adito dal datore di lavoro, richiama le affermazioni di principio sopra esposte sulla legittimità del rifiuto del datore di lavoro di accettare la prestazione lavorativa in caso di impossibilità oggettiva o di sua inutilizzabilità alla stregua dell’organizzazione aziendale conseguente alla sua libertà di autodeterminazione salvo poi affermare, con una qualche invasione di campo che “ … il giudice di merito avrebbe dovuto verificare la sussistenza dei presupposti di un legittimo rifiuto delle prestazioni offerte dai lavoratori tenendo conto dello specifico contesto organizzativo in cui queste dovevano inserirsi, ma escludendo un onere per l’imprenditore di apportare modificazioni sostanziali alla struttura produttiva tali da incidere sulla tecnologia degli impianti; detti presupposti non avrebbero potuto essere peraltro ravvisati se l’utilizzazione delle prestazioni in questione avesse richiesto solo una variazione di modalità contingenti di programmazione, attinenti alla distribuzione dei ritmi produttivi, senza costi tali da impedire la realizzazione dell’utilità economica finale cui è rivolta l’organizzazione dell’attività dell’azienda “.

avv. Salvatore DIMARTINO
Note:
[1] Per la dottrina più recente si veda PERA, << Diritto del Lavoro >>; CARINGI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU << Diritto Sindacale >>; SANTONI, << Lo sciopero >>.
[2]Si pensi alle ristrutturazioni nelle grandi imprese, all’inizio degli anni ’80.
[3] Si ricordi la vicenda dei minatori inglesi della prima metà degli anni ’80, con scioperi tanto duri e prolungati nel tempo, con altrettanto dure prese di posizione sia dalla parte datoriale, con interventi, ai limiti della repressione da parte delle forze dell’ordine.
4 Come negli altri Paesi europei, così in Italia la prima legislazione sullo sciopero fu di natura repressiva. Il divieto penale delle coalizioni operaie e dello sciopero, sancito dalla legge Le Chapelier del 1791 e riconfermato dal Codice penale del 1810, fu esteso da Napoleone ai territori italiani occupati dalle truppe francesi. Si deve infatti arrivare al 1890 prima che il delitto di sciopero venga abolito e venga quindi riconosciuta ai lavoratori la libertà di sciopero, intesa come un aspetto particolare della libertà di associazione. Dopo il colpo di stato del 3-1-1925, il regime fascista soppresse la libertà di associazione sindacale, e con essa la libertà di sciopero. Nella legislazione italiana lo sciopero tornò ad essere considerato un delitto fino alla caduta del regime fascista. Le norme contenute nelle leggi speciali del 1926, relative al divieto di sciopero e alla giurisdizione sui conflitti collettivi di lavoro, furono poi inserite rispettivamente nel nuovo Codice penale del 1930 e nel nuovo Codice di procedura civile del 1943. Sotto il titolo “ Dei delitti contro l’ economia pubblica, l’ industria e il commercio “ il Codice penale del 1930 configurò quattro ipotesi di sciopero penalmente sanzionate: sciopero per fini contrattuali (art. 502); sciopero per fini non contrattuali, cioè per fine politico (art. 503); sciopero per coazione alla pubblica autorità (art. 504); sciopero a scopo di solidarietà o di protesta (art. 505 ).
5 C. Cost. sent. n. 125 del 23.07.1980.
6 Ex multis Trib. Milano, 02/07/1999 in Riv. Critica Dir. Lav., 1999, 811; Pret. Trento, 07/07/1992 iin Riv. Critica Dir. Lav., 1993, 101; Pret. Borgo, 22/04/1989 in Riv. Giur. Lav., 1990, II, 195; Pret. Milano, 12/11/1987 in Lavoro 80, 1988, 102; Pret. Firenze, 01/07/1987 in Toscana Lavoro Giur., 1987, 457; Pret. Milano, 07/02/1987 in Lavoro 80, 1987, 368; Pret. Venezia Mestre, 30/01/1986 in Lavoro 80, 1986, 388;
Pretura di Aversa 11-04-1979 in Riv. giur. lav., 1980, n. 6- 7, parte II, pag. 721; Pretura di Bologna 02-04-1987 in Lav. 80, 1987, n. 4, pag. 978; Pretura di Bologna 04-08-1983 in Lav. e prev. oggi, 1983, n. 10, pag. 2104; Pretura di Bologna 14-05-1988 in Lav. 80, 1989, n. 2, pag. 386; Pretura di Foggia 30-07-1976 in Dir. lav., 1977, n. 3-4, parte II, pag. 254. Contra Corte d’appello di Lecce 22-04-1978 In Or. giur. lav., 1978, n. 2, pag. 342; Pret. Cecina, 08/06/1989 in Toscana Lavoro Giur., 1989, 687; Pretura di Foggia 30-07-1976 in Dir. lav., 1977, n. 3-4, parte II, pag. 254; Tribunale di Lodi 16-03-1987 in In Or. giur. lav., 1988, n. 4, pag. 96.
7 Così Trib. Bologna 15.12.1980
8 Cass. Civ. Sez. Lav. 13.03.1986 n. 1701
9 Cass. Civ. Sez. Lav. 16.11.1987 n. 8401
10 La Corte, incidentalmente richiama il proprio precedente orientamento per definire i limiti all’attività di proselitismo in occasione dello sciopero precisando che “ …se legittimo è il comportamento del prestatore di lavoro scioperante consistente nel persuadere gli altri dipendenti a scioperare o nel muovere critiche o rimproveri a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione (il che, si osserva, integra al postutto anche gli estremi di una consentita condotta positiva) “.
11 Ex multis Cass. Civ. Sez. Lav. 08.06.2001; Cass. Civ. Sez. Lav. 25.02. 1998 n. 2045.
12 Cass. Civ. 01.12.1999 n. 13383
13 Trib. Grosseto 11.01.2002; idem Trib. Venezia 07.07.2002 ( entrambe non risultano edite ). In senso favorevole al crumiraggio interno – sia pure in materia di servizi pubblici essenziali, si è recentemente pronunciata Cass. Civ. Sez. Lav. 04.07.2002 n. 9709; contra Trib. Caltagirone decr. 26.09.2002 in Foro It.
14 Trib. Roma 22.02.1986 ( inedita )
15 Cass. Civ. Sez. Lav. 08.05.1990 n. 3780
[16] Cass. Civ. Sez. Lav. 08.05.1990 . 3780
17Cass. Civ. Sez. Lav. 07.02.1987 n. 1331
18 Cass. Civ. Sez. Lav. 04.03.1987 n. 2282
19 Trib. Gorizia 01.12.1983 ( inedita )
20 Cass. Civ. Sez. Lav. 04.03.1987 n. 2282
21 Cass. Civ. Sez. Lav. 24.04.1986 n. 2899
22 Cass. Civ. Sez. Lav. 24.04.1986 n. 2899
23 Cass. Civ. Sez. Lav. 14.02.1990 n. 1067 , preceduta, in senso esattamente identico, da Cass. Civ. Sez. Lav.04.12.1989.
24 Non solo, ma nel caso di specie l’autonomia organizzativa datoriale viene limitata anche sotto taluni profili inerenti lo stesso diritto di proprietà, limitando il diritto del datore di lavoro di vietare l’accesso agli impianti, ritenendosi che “ Orbene, la fissazione dei ritmi e dei carichi di lavoro, rientrando questi nel più generale concetto delle << condizioni di lavoro >> (articolo 2087 del codice civile), certamente non può ritenersi sottratta alle materie nelle quali le rappresentanze sindacali abbiano il diritto di interloquire e di esercitare poi il loro doveroso controllo per il rispetto, da parte del datore di lavoro, di applicazione dei criteri concertati “ ( Cass. Civ. Sez. Lav. 01.12.1999 n. 13383 ).
25 Cass. Civ. Sez. Lav. 11.01.1988 n. 84
26 Trib. Vicenza 13.03.1995 ( inedita )
27 Cass. Civ. Sez. Lav. 01.09.1997 n. 8273

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