La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 577 cod. pen.: vediamo come
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 577)
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Indice
1. Il fatto
La Corte d’Assise di Cagliari era chiamata a giudicare nell’ambito di un procedimento a carico di una persona imputata del delitto di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numero 1), cod. pen..
Orbene, all’esito del giudizio, questa Corte di Assise riteneva come la finalità di adeguare la pena al caso concreto avrebbe dovuto, nel caso in esame, essere raggiunta mediante un giudizio di prevalenza dell’attenuante della provocazione sull’aggravante del rapporto di coniugio, dovendo invece le attenuanti generiche essere considerate equivalenti rispetto a tale aggravante, ma a tale risultato non sarebbe stato però possibile pervenire stante il disposto dell’art. 577, terzo comma, cod. pen..
Ciò posto, in un altro procedimento, invece, se la Corte d’Assise di Torino aveva assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato, ritenendo integrata la scriminante della legittima difesa, investito dell’appello da parte del pubblico ministero, la Corte d’Assise di Appello, sempre della medesima città, riteneva invece di dover affermare la penale responsabilità di una persona accusata di omicidio volontario, non reputando sussistente la legittima difesa, nemmeno nella forma putativa.
Pur tuttavia, anche in tale caso, in punto di dosimetria della pena, pur ritenendo configurabili le circostanze attenuanti generiche, l’attenuante del vizio parziale di mente (art. 89 cod. pen.) e l’attenuante consistente nello stato d’ira in conseguenza del fatto ingiusto altrui da doversi reputare prevalenti rispetto all’aggravante di cui al primo comma dell’art. 577 cod. pen., la Corte d’Assise d’Appello di Torino, tuttavia, riteneva possibile ciò solo in relazione al solo vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen..
Ciò posto, in un altro procedimento ancora, sempre pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Torino, le parti avevano dichiarato di concordare sull’accoglimento dei motivi di appello del pubblico ministero, con rinuncia ai motivi della difesa ai sensi art. 599-bis, comma 1, del codice di procedura penale, indicando al giudice una pena rideterminata in sei anni, due mesi e venti giorni di reclusione, ritenute sussistenti le attenuanti cui agli artt. 62, primo comma, numero 1) (per aver agito l’imputata per motivi di particolare valore morale, identificati nella volontà di difendere il figlio), 62, primo comma, numero 2) (provocazione “per accumulo”) e 62-bis cod. pen. (attenuanti generiche), tutte prevalenti rispetto all’aggravante del rapporto di coniugio.
Orbene, anche in tale caso, se questi giudici di seconde cure riferivano anzitutto di reputare ammissibile e astrattamente meritevole di accoglimento il concordato formulato in udienza, ricorrendo i presupposti applicativi degli istituti giuridici coinvolti ed essendo la pena congrua rispetto al fatto, tuttavia, costoro evidenziavano come fossero tenuti ad operare una verifica circa la legalità della pena concordata – intendendosi per “pena illegale” quella che «si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale perché è diversa per genere per specie o per quantità da quella positivamente prevista» (si citavano: Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 14 luglio 2022-12 gennaio 2023, n. 877 e sezione sesta penale, sentenza 18 maggio-16 giugno 2022, n. 23614) e tale verifica avrebbe dovuto avere, nel caso di specie, esito negativo.
La pena concordata dalle parti avrebbe dovuto infatti ritenersi illegale, perché inferiore al minimo edittale previsto dalla legge per l’omicidio ai danni del coniuge, così come risultante dalla disposizione censurata.
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2. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione
La Corte d’Assise di Cagliari, in riferimento al procedimento suesposto, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, inserito dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro il coniuge, dall’art. 577 comma 1 n. 1) c.p.».
In particolare, il giudice a quo era addivenuto a sollevare le suddette questioni, evidenziando prima di tutto che la disposizione censurata è stata introdotta dalla legge n. 69 del 2019, la cui complessiva ratio di tutela sarebbe individuabile nella «necessità di offrire una risposta severa dell’ordinamento rispetto a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l’azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell’uccisione della donna da parte del suo compagno».
Ciò posto, per il giudice rimettente, a fronte di siffatto quadro normativo, sarebbe stato però «fondamentale distinguere tra uccisioni di donne e femminicidi: non ogni omicidio di donna rientra in tale particolare, seppur ricorrente, fattispecie» e, di conseguenza, sarebbe altresì necessario chiedersi «se l’articolo 577, n. 3), cod. pen. non sia stato frutto di una risposta sanzionatoria che […] rischia di coinvolgere fenomeni di portata assai diversa», come del resto molto diversi sono i rapporti familiari ricompresi nel catalogo di cui all’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen.
Ciò difatti comporterebbe, per il giudice a quo, il rischio che l’aggravamento di pena operi in una situazione diametralmente opposta rispetto a quelle che il legislatore intendeva sanzionare con particolare rigore visto che «il soggetto che ha commesso l’omicidio nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto della vittima era anche quello che, nel corso della convivenza coniugale, per concordanti risultanze testimoniali, aveva subito in plurime occasioni le aggressioni e gli scatti collerici del coniuge e, nonostante ciò, non lo aveva abbandonato, ma protetto sotto ogni aspetto, persino da azioni autolesionistiche».
Da ciò se ne faceva conseguire come il caso in esame non avrebbe quindi «nulla a che fare con una vicenda di sopraffazione di genere», costituendo invece «il drammatico sbocco di una storia familiare afflitta da una carica di sofferenza e frustrazione, ben descritta dai testimoni escussi».
L’applicazione della disposizione censurata al caso di specie avrebbe presentato, dunque, «profili di illegittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza e alla funzione di proporzionalità e di rieducazione della pena».
Chiarito ciò, con riferimento specifico all’art. 3 Cost., il rimettente rilevava ancora che il negare, alla circostanza attenuante della provocazione, la possibilità di prevalere sull’aggravante del coniugio presenterebbe elementi di «ingiustificabile disarmonia» rispetto alla previsione legislativa che consente, invece, tale prevalenza nel caso della diversa circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale (art. 61, primo comma, numero 1, cod. pen.), «oggettivamente estranea anch’essa alla ratio dell’inasprimento introdotto dal “Codice Rosso”».
La Corte rimettente lamentava, infine, una violazione dell’art. 27 Cost., poiché una pena compresa fra ventuno e ventiquattro anni di reclusione risulterebbe assolutamente sproporzionata rispetto alla complessiva valutazione del fatto, impedendo al trattamento sanzionatorio di esplicare la propria funzione rieducativa, rammentandosi, a tal fine, il nutrito numero di sentenze in cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di deroghe all’ordinario giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., anche con riferimento a circostanze attenuanti comuni (erano citate le sentenze n. 55 del 2021, n. 73 del 2020, n. 205 del 2017, n. 74 del 2016, n. 105 e n. 106 del 2014, n. 251 del 2012), nonché alcune pronunce nelle quali sempre la Consulta aveva rimarcato come la pena debba essere adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018), e come tale disvalore dipenda anche dall’eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile (sentenza n. 73 del 2020).
Ciò posto, allo stesso modo, la Corte d’Assise di Appello di Torino sollevava in modo non dissimile questioni di legittimità costituzionale, dell’art. 577, terzo comma, cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro l’ascendente dall’art. 577 comma 1 n. 1) del codice penale».
Nel dettaglio, con riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni medesime, l’ordinanza denunciava il contrasto della disposizione censurata con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost..
Più in particolare, dopo aver rammentato la giurisprudenza costituzionale in materia di limiti al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., il giudice a quo appuntava le sue censure, anzitutto, sull’impossibilità di tener conto – nella graduazione della sanzione da infliggersi concretamente – della circostanza attenuante della provocazione «nel rispetto dell’esigenza di rango costituzionale di determinare una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo e sul suo grado di rimproverabilità».
Inoltre, sempre ad avviso di questo giudice rimettente, il divieto di prevalenza di cui all’art. 577, terzo comma, cod. pen. apparirebbe «ulteriormente distonico rispetto al sistema, ove si consideri il panorama socio-culturale nel quale si inseriva e la ratio che animava la norma che lo ha introdotto», identificata nella «necessità di offrire una risposta severa a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l’azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell’uccisione della donna da parte del suo compagno».
Quindi, poiché la disposizione censurata non consente al giudice la possibilità di valutare, in concreto, se l’omicidio sia stato effettivamente conseguenza di rapporti di forza diseguali o comunque asimmetrici tra agente e vittima, i limiti al bilanciamento di circostanze si applicherebbero anche in situazioni diametralmente opposte a quelle considerate dal legislatore.
Per di più, sempre per questo giudice a quo, la disposizione in esame sarebbe costituzionalmente illegittima anche nella parte in cui preclude la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, le quali rappresenterebbero «uno strumento di individualizzazione della risposta sanzionatoria lì dove sussistano – in positivo – elementi del fatto e della personalità, tali da rendere necessaria la mitigazione, non previsti espressamente da altra disposizione di legge» (citandosi a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 25 ottobre 2018-15 maggio 2019, n. 20808). Anche tali circostanze contribuirebbero, dunque, a quell’adeguamento della risposta punitiva al mandato costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. (citandosi all’uopo la sentenza della Consulta n. 183 del 2011).
Sempre la medesima Corte d’Assise d’Appello di Torino, sezione prima, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, cod. pen., con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro il coniuge dall’art. 577 comma 1 n. 1 del codice penale».
3. La soluzione adottata dalla Consulta
La Corte costituzionale, dopo avere proceduto ad una sintetica ricapitolazione del contesto normativo in cui le questioni summenzionate trovavano collocazione, riteneva come le questioni proposte fossero fondate per le seguenti ragioni.
Si osservava prima di tutto che il delitto di omicidio può essere connotato, nei singoli casi concreti, da livelli di gravità notevolmente differenziati fermo restando che, in conformità ai principi costituzionali di proporzionalità e individualizzazione della pena, il codice penale italiano consente in via generale di adeguare la pena dell’omicidio alla gravità della singola condotta, come accade – e in misura anche assai più marcata – in vari altri ordinamenti dalle comuni tradizioni giuridiche.
Orbene, tanto l’attenuante della provocazione, quanto le attenuanti generiche, per il Giudice delle leggi, sono strumenti essenziali a disposizione del giudice per adeguare la misura della pena alla concreta gravità del singolo fatto di omicidio mentre il divieto, stabilito dalla disposizione censurata, di applicare la diminuzione di pena prevista per queste due attenuanti nei casi di omicidi commessi in contesti familiari o para-familiari non si fonda su alcuna plausibile ragione giustificativa.
Anzi, tale divieto, sempre per la Corte costituzionale, deve ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., per plurime e concorrenti ragioni.
La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale che ne discende quindi non si pone in contrasto con la finalità complessiva perseguita dal legislatore del 2019 di rafforzare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, ma semplicemente evita che dalla legge n. 69 del 2019 discenda un effetto collaterale incongruo rispetto alla sua stessa ratio.
Detto questo, i giudici di legittimità costituzionale, a questo punto della disamina, denotavano come ogni omicidio leda in maniera definitiva una vita umana e, poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, a loro avviso, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore, anche se, da sempre, il diritto penale distingue – nell’ambito degli omicidi punibili – tra fatti più e meno gravi.
Difatti, già dal punto di vista oggettivo, alcune condotte omicide sono specialmente gravi: chi uccide la propria vittima dopo averle inflitto sofferenze prolungate, ad esempio, aggiunge ulteriore dolore al male di per sé insito nell’atto omicida, ma è quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell’autore anziché da quello della vittima, che diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni.
Anzitutto, la morte di una persona può essere causata con dolo, con preterintenzione, con colpa e, se le conseguenze materiali dell’azione sono identiche, l’intensità di tale rimprovero è però assai differente in ciascuna di tali ipotesi.
Ciò posto, si evidenziava tra l’altro che, nell’ambito poi degli omicidi dolosi riconducibili alla figura delittuosa di cui all’art. 575 cod. pen., le condotte sostenute da dolo intenzionale e diretto sono certamente più gravi rispetto a quelle compiute con dolo soltanto eventuale, tenuto conto altresì del fatto che, a parità di intensità del dolo, i motivi, che hanno determinato l’autore all’azione omicida, così come le circostanze esterne nelle quali il proposito è maturato e la condotta è stata compiuta, incidono sul grado della rimproverabilità del suo autore, e dunque sulla misura della sua colpevolezza.
Quindi, per i giudici di legittimità costituzionale, l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide come quelle descritte dalle odierne ordinanze di rimessione, maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime; contesti, peraltro, di tale significatività da interrogare talvolta i giudici sulla possibile sussistenza della legittima difesa in capo agli autori dell’omicidio.
Orbene, a fronte di ciò, per la Corte, i gradi di colpevolezza così differenti, a loro volta, non possono non riflettersi nella misura della pena concretamente applicabile a chi abbia ucciso volontariamente un’altra persona, e ciò, anzitutto, per ragioni di ordine costituzionale.
La giurisprudenza della Consulta, invero, ha più volte sottolineato che il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., esige «che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo », il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 94 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).
D’altronde, il principio della “personalità” della responsabilità penale, sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost., richiede che la pena applicata a ciascun autore di reato costituisca «una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato» (sentenza n. 222 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).
Ciò posto, si denotava come, tra l’altro, il nostro sistema penale abbia, peraltro, da sempre previsto meccanismi che consentono di graduare la risposta sanzionatoria per gli omicidi dolosi in funzione della loro concreta gravità, visto che il codice penale prevede, per la forma base del delitto di omicidio volontario, un compasso edittale dai limiti particolarmente angusti, entro un minimo di ventuno e un massimo di ventiquattro anni, fermo restando che al delitto sono però applicabili tutte le circostanze aggravanti comuni (la cui presenza può innalzare il massimo sino a trent’anni) e quelle speciali previste dagli artt. 576 e 577 cod. pen., la più parte delle quali può comportare la pena dell’ergastolo, in caso di assenza di attenuanti, o di ritenuta prevalenza delle stesse aggravanti rispetto ad eventuali attenuanti.
Del resto, per altro verso, all’omicidio sono di regola applicabili tutte le circostanze attenuanti comuni di cui all’art. 62 cod. pen. nonché le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., sicché – in caso di ritenuta prevalenza di queste ultime – il giudice avrà la possibilità di infliggere una pena anche sensibilmente inferiore al minimo edittale di ventun anni di reclusione – più precisamente, sino a un minimo di quattordici anni ove riconosca un’unica attenuante; di nove anni e quattro mesi, ove ne riconosca due; di sei anni, due mesi e venti giorni, ove ne riconosca tre; e così via.
Attraverso il flessibile strumento del bilanciamento tra le circostanze, il nostro ordinamento consente dunque al giudice di commisurare una pena maggiormente calibrata rispetto all’intensità del disvalore della singola condotta omicida, nel rispetto dei principi costituzionali appena menzionati, nonché di tener conto di ulteriori circostanze che – pur non incidendo sul minor grado di disvalore oggettivo o soggettivo del fatto di reato – esprimono tuttavia una minore necessità di applicare una pena nei confronti del suo autore, in considerazione ad esempio della sua condotta successiva al reato mentre, grazie al complesso delle circostanze attenuanti applicabili all’omicidio e alla loro possibile prevalenza nel giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti, le soluzioni sanzionatorie cui può pervenire il giudice italiano si avvicinano almeno in parte, negli esiti, a quelle cui è possibile giungere in numerosi altri ordinamenti contemporanei, nei quali l’articolazione delle diverse figure di omicidio volontario e delle relative circostanze attenuanti consente una significativa modulazione della risposta sanzionatoria, in ragione della diversa gravità di ciascuna condotta omicida.
A mero titolo di esempio, in Germania, le forme più gravi di omicidio volontario sono qualificate come Mord e sono punibili con l’ergastolo (§ 211 StGB), mentre tutte le altre ipotesi sono classificate come Totschlag, quest’ultimo punibile nella forma base con la pena non inferiore a cinque anni di reclusione (§ 212 StGB), e nei «casi meno gravi» descritti dal § 213 StGB (comprendenti in particolare l’ipotesi della provocazione) con la reclusione da uno a dieci anni. In Francia, ove il principio costituzionale dell’individualizzazione della pena si oppone in via generale alla previsione legislativa di minimi edittali, la pena per l’assassinio può addirittura spaziare da un minimo – in questo caso eccezionalmente previsto – di due anni di reclusione sino, nel massimo, all’ergastolo (art. 221-3 del codice penale francese); mentre per le ipotesi ordinarie di omicidio è previsto unicamente il massimo di trent’anni di reclusione (art. 221-1), restando poi il giudice del tutto libero di individuare la pena da applicare nel caso concreto.
Precisato ciò, venendo più al merito della questione, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano come le due circostanze attenuanti oggetto delle odierne questioni – la provocazione e le attenuanti generiche – svolgano un ruolo essenziale per assicurare, anche nell’ordinamento italiano, che la pena per l’omicidio volontario possa essere convenientemente ridotta rispetto al generale minimo edittale di ventun anni di reclusione, in casi caratterizzati da una minore offensività del fatto o minore colpevolezza dell’autore, ovvero dalla presenza di ragioni significative che comunque rivelano un suo minor bisogno di pena.
In particolare, quanto alla provocazione, l’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. stabilisce che la pena per qualsiasi reato sia attenuata, qualora il colpevole abbia «agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui».
Ebbene, tale previsione si fonda sull’assunto della minore rimproverabilità di chi non agisca frigido pacatoque animo, bensì in un impeto d’ira che riduca le sue capacità di autocontrollo, ma solo a condizione che questo stato emotivo sia stato causato da un precedente «fatto ingiusto» compiuto dalla vittima stessa – anche in modo incolpevole, come accade quando quest’ultima sia una persona affetta da disturbi psichici (Cass., n. 14270 del 2012) –.
Il precedente fatto ingiusto della vittima, pur non giustificando di per sé la reazione in assenza di tutti gli estremi della legittima difesa, per la Consulta, la rende tuttavia meno censurabile.
Decisiva è, dunque, sempre il Giudice delle leggi, non soltanto l’intensità dell’emozione soggettivamente vissuta dall’autore, ma anche la ragione obiettiva (ovvero la “causa psicologica”) di tale emozione, facendosi presente a tal proposito che la costante giurisprudenza richiede un rapporto di obiettiva adeguatezza tra fatto ingiusto e reazione (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenze 16 febbraio-8 maggio 2023, n. 19150 e 27 marzo-16 maggio 2019, n. 21409), sì da poter escludere che il primo abbia costituito un mero pretesto per il compimento del reato, come accade ogni qualvolta la provocazione risulti del tutto incongrua rispetto all’entità della reazione (Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 19 gennaio-16 marzo 2022, n. 8945; nello stesso senso, sentenza 14 novembre 2013-9 gennaio 2014, n. 604).
Inoltre, come (reputato) correttamente rilevato dalle tre ordinanze di rimessione, la recente giurisprudenza di legittimità ritiene che il fatto ingiusto sia integrato non soltanto da una puntuale condotta dalla vittima che immediatamente preceda la reazione dell’autore del reato, ma anche da una serie di condotte prevaricatrici susseguitesi nel tempo che, cumulativamente considerate, siano in grado di spiegare la reazione del provocato; e ciò anche quando il singolo episodio scatenante, isolatamente considerato, non possa essere ritenuto adeguato a spiegare l’entità della reazione (Cass., n. 19150 del 2023; nello stesso senso: Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 maggio-7 giugno 2017, n. 28292; sezione quinta penale, sentenza 4 luglio-10 dicembre 2014, n. 51237; sezione prima penale, sentenza 8 ottobre-18 dicembre 2013, n. 51041; sezione prima penale, sentenza 13 gennaio-9 febbraio 2011, n. 4695), il che è di particolare rilievo nelle ipotesi di omicidio maturate in contesti domestici o comunque nell’ambito di relazioni affettive, in cui la causa dell’atto omicida è spesso da ricercarsi nella complessiva dinamica dei rapporti tra autore e vittima, piuttosto che nell’ultimo episodio che immediatamente scatena la sua reazione.
In questi contesti, accade in effetti, con una certa frequenza, che l’atto omicida sia compiuto in occasione dell’ennesima condotta aggressiva della vittima, ovvero subito dopo di essa, in esito a una lunga storia di abusi e maltrattamenti; e che la reazione ecceda a quel punto i limiti della legittima difesa – vuoi per difetto di necessità o proporzione della condotta rispetto all’aggressione, vuoi perché la stessa aggressione si sia in quel momento già esaurita –, ma resti connotata da una minore gravità rispetto alla generalità degli omicidi volontari, in considerazione tra l’altro del turbamento emotivo provocato nell’agente dalle condotte prevaricatrici compiute, a suo danno, dalla vittima.
Ciò posto, almeno altrettanto importante, per la Corte costituzionale, è il ruolo svolto dalle attenuanti generiche rispetto alla generalità degli omicidi, specie a fronte di una cornice sanzionatoria che prevede una soglia minima di pena detentiva tanto elevata.
Invero, anche le attenuanti generiche sono un istituto fortemente radicato nella storia del diritto penale italiano: già previste dal codice Zanardelli, esse furono temporaneamente abolite nel 1930, per essere reintrodotte – all’indomani della caduta del regime fascista – con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), anche allo scopo di temperare la generale asprezza delle pene previste dal codice Rocco. Esse, difatti, non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato.
Come si è osservato in dottrina, alle attenuanti generiche compete piuttosto l’essenziale funzione di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione, a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore – non tipizzabili ex ante dal legislatore in ragione della loro estrema varietà, e diverse da quelle che già integrano ipotesi “nominate” di attenuazione della pena – che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre.
Chiarito ciò, si notava inoltre come, a integrare le attenuanti generiche, possano essere, anzitutto, circostanze espressive di una minore offensività o di una minore colpevolezza del fatto, quest’ultima in ragione della particolare intensità e comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commetterlo, ovvero della presenza di anomale circostanze concomitanti alla sua condotta, in grado di limitare significativamente la sua libertà.
In secondo luogo, l’art. 62-bis cod. pen. consente al giudice di valorizzare tutti gli ulteriori parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. (Cass., n. 20808 del 2019), comprese le circostanze sopravvenute al fatto di reato, o comunque inerenti alla persona dell’autore, che siano indicative di una sua minore pericolosità, o che comunque la rendano meno meritevole e bisognosa di pena, e su tale profilo la Corte costituzionale ha richiamato l’attenzione con la sentenza n. 183 del 2011, con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una modifica dell’art. 62-bis cod. pen., operata nel 2005, con la quale si precludeva in effetti al giudice di tenere conto, ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, della «condotta susseguente al reato» da parte del condannato recidivo reiterato: previsione che è stata in quell’occasione ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e di funzione rieducativa della pena di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., i quali impongono che – nella commisurazione della pena, e in particolare in sede di valutazione della sussistenza delle attenuanti generiche – debba poter «assumere rilevanza […] una condotta, successiva al reato, indicativa di una positiva evoluzione in atto della personalità del condannato» (punto 7 del Considerato in diritto).
Più in generale, come spesso sottolineato dalla dottrina, le attenuanti generiche costituiscono il luogo privilegiato in cui possono trovare spazio, nella fase di determinazione giudiziale della pena, considerazioni di equità e di umana “compassione” nei confronti dell’autore del reato, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca del fatto, o versa al momento della condanna: dall’immaturità connessa alla giovane età dell’autore o alla sua età particolarmente avanzata, alla presenza di disturbi della personalità che non attingano la soglia del vizio parziale di mente, a traumi subiti nella propria storia personale, a condizioni economiche o sociali particolarmente disagiate, ovvero a condotte successive come l’immediata e spontanea autodenuncia, la piena collaborazione processuale, le attività di studio o lavoro intraprese nell’attesa del processo.
L’attenta e puntuale considerazione di tutti questi e molti altri simili fattori, d’altronde, è particolarmente importante nei processi per omicidio volontario, dove il legislatore italiano ha non a caso stabilito che il processo si svolga di regola innanzi a una corte a composizione mista, in cui i giudici popolari sono anch’essi chiamati ad apprezzare e “pesare”, ai fini della determinazione della risposta sanzionatoria, le ragioni che hanno indotto l’imputato ad agire, le circostanze nelle quali ha agito, e i singoli elementi che compongono la sua personalità.
Una valutazione, questa, che, per il Giudice delle leggi, ha sede naturale proprio nell’art. 62-bis cod. pen., e nella quale l’esperienza di vita del giudicante conta più delle indicazioni del legislatore, il quale si confessa, anzi, incapace di tipizzare tutte le possibili sfaccettature della realtà, affidando direttamente al giudice il compito di cogliere i segni di una comune umanità anche in chi abbia compiuto un delitto così grave come l’omicidio.
Orbene, a questo punto della disamina, i giudici di legittimità costituzionale rilevavano come la disposizione in questa sede censurata determini una drastica limitazione del potere del giudice di calibrare la pena al disvalore effettivo del fatto compiuto, precludendogli di considerare prevalenti tanto la provocazione, quanto le attenuanti generiche, rispetto all’aggravante dell’avere commesso il fatto in un contesto familiare o para-familiare, pur non essendo però agevole individuare la ratio di un tale assoluto divieto.
Infatti, l’attuale terzo comma dell’art. 577 cod. pen. è stato introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto “Codice Rosso”), mirante nel suo complesso – come risulta dalla stessa denominazione ufficiale della legge – al rafforzamento della «tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», come definite dalle pertinenti convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria e il cui rispetto il legislatore si proponeva di garantire – prima fra tutte, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (cosiddetta “Convenzione di Istanbul”), ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011).
L’art. 3 di tale convenzione definisce, in particolare, la «violenza nei confronti delle donne» come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata»; e identifica la «violenza domestica» in «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».
Ebbene, in coerenza con questo generale scopo di tutela, il “Codice Rosso” arricchisce ulteriormente l’arsenale di misure volte non solo ad assicurare severe sanzioni penali a carico degli autori di vittime di violenza contro le donne o di violenza familiare – in particolare attraverso l’innalzamento delle pene previste per il delitto di maltrattamenti in famiglia –, ma anche a potenziare gli strumenti idonei a consentire un’efficace e tempestiva protezione delle vittime da parte della forza pubblica: ad esempio, attraverso la possibilità di utilizzare strumenti di controllo elettronico nei confronti delle persone sottoposte alla misura cautelare del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen.; la previsione, all’art. 387-bis cod. pen., del delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; la subordinazione della sospensione condizionale della pena per reati in materia di violenza contro le donne o domestica alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (art. 165 cod. pen.); misure di formazione specifica per gli addetti ai lavori nella lotta contro la violenza domestica e di genere (art. 5 della legge n. 69 del 2019).
Ciò posto, per quanto concerne specificamente il terzo comma dell’art. 577 cod. pen., oggetto delle censure dei rimettenti, il Giudice delle leggi osservava come la sua introduzione sia dovuta all’emendamento n. 6.104, approvato nella seduta della Camera dei deputati nella nuova formulazione n. 01.04, e poi approvato senza modifiche dal Senato.
Orbene, pur se dai lavori preparatori non è emerso l’intendimento dei proponenti dell’emendamento. è evidente, per la Corte, come il legislatore abbia inteso, in via generale, inasprire ulteriormente la risposta sanzionatoria contro gli omicidi commessi all’interno di relazioni familiari o affettive, specie a danno delle donne e comunque dei soggetti più vulnerabili all’interno di tali contesti, limitando il potere del giudice di determinare la pena per tali omicidi – punibili con l’ergastolo in assenza di circostanze attenuanti – al di sotto dei ventun anni di reclusione, fermo restando che si è ipotizzato in dottrina che la selezione delle sole quattro circostanze attenuanti sottratte al divieto di bilanciamento sia dovuta al timore che il giudice possa troppo generosamente riconoscere e ritenere prevalenti altre attenuanti, e in particolare la provocazione ovvero le attenuanti generiche; e ciò specialmente in situazioni in cui l’autore dell’omicidio agisca in preda al turbamento emotivo provocato da circostanze come la gelosia nei confronti del partner, il rifiuto di accettare la conclusione di una relazione, un distorto senso di possesso nei confronti della vittima, o ancora – in particolari contesti socio-culturali – il timore del “disonore” ricadente su se stesso e sulla propria famiglia, derivante da comportamenti a suo avviso inappropriati della vittima.
Chiarito ciò, sul punto, occorre però rilevare, per la Consulta, che simili preoccupazioni non trovano riscontro nella giurisprudenza di legittimità, che è invece compatta nel rigettare allegazioni difensive miranti al riconoscimento della provocazione in casi come quelli ora menzionati. In queste ipotesi, infatti, si ritiene che difetti in radice un “fatto ingiusto” della vittima (Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenze 14-luglio-22 settembre 2023, n. 38755, 3 marzo-10 giugno 2021, n. 23031 e 25 settembre-13 dicembre 2017, n. 55741), o che comunque sussista una grave e macroscopica incongruenza fra il fatto scatenante e la reazione (Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 4 luglio-10 dicembre 2014, n. 51237) atteso che la tendenza della giurisprudenza di legittimità è, semmai, quella di riconoscere in simili ipotesi la circostanza aggravante dei futili motivi (in questo senso, Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 giugno-3 novembre 2021, n. 39323; nello stesso senso, sentenza 21 maggio-30 ottobre 2019, n. 44319), tanto più se si considera che è d’altra parte da escludere che il mero dato psicologico di un forte turbamento emotivo possa essere ritenuto sufficiente a esprimere un minor contenuto di colpevolezza in capo all’autore di una simile condotta, e giustificare pertanto, di per sé, il riconoscimento delle attenuanti generiche (sul punto, Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 novembre 2019-24 gennaio 2020, n. 2962) poichè l’intensità della spinta psicologica non è decisiva ai fini del giudizio di minore colpevolezza, ma la valutazione in termini di umana comprensibilità delle ragioni che spingono il soggetto ad agire, seppure in maniera contraria alla legge penale, il che non potrebbe certo ipotizzarsi, alla luce dell’attuale sensibilità sociale e giuridica, in casi come quelli poc’anzi menzionati.
Dunque, in assenza di ogni plausibile ratio giustificativa, ulteriore rispetto alla generica volontà di assicurare un trattamento sanzionatorio particolarmente severo per tutti i casi di omicidio commesso nell’ambito di relazioni familiari o affettive, la disposizione censurata, per la Corte costituzionale, non supera il vaglio di legittimità costituzionale sollecitato dai giudici a quibus.
Infatti, se è ben vero che, come la Consulta ha più volte affermato in via di principio, non può ritenersi precluso al legislatore introdurre deroghe al regime del bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen., nell’esercizio della propria discrezionalità (sentenza n. 143 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto; sentenza n. 205 del 2017, punto 4 del Considerato in diritto), tuttavia, le eventuali deroghe al criterio generale di cui ai primi tre commi dell’art. 69 cod. pen. non debbono risultare in contrasto con i principi costituzionali, il che, per il Giudice delle leggi, invece, accade con la disposizione ora censurata, sotto più concorrenti profili.
Invero, l’art. 577, terzo comma, cod. pen. viola, in primo luogo, il principio di eguaglianza davanti alla legge di cui all’art. 3 Cost., che vieta non solo irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, ma anche irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni tra loro dissimili (in questo senso, in materia di sanzioni penali, già la sentenza n. 26 del 1979, punto 1 del Considerato in diritto), fermo restando che, in materia di commisurazione della pena, tale divieto deve essere altresì letto alla luce del principio di “personalità” della responsabilità penale sancito dall’art. 27, primo comma, Cost., il quale esige che la pena costituisca una risposta il più possibile “individualizzata” rispetto alla situazione del singolo condannato.
In effetti, come rilevato dalla difesa dell’imputato in uno dei procedimenti summenzionati, la disposizione censurata impone al giudice di applicare – ove non sussista alcuna delle circostanze sottratte al divieto di bilanciamento – una pena non inferiore a ventun anni di reclusione per tutti i fatti di omicidio commessi all’interno di contesti familiari e affettivi, indipendentemente dal grado di colpevolezza dei loro autori, oltre che dal grado di pericolosità degli autori medesimi; con ciò impedendo che le differenze di disvalore soggettivo tra più fatti di omicidio, e tra i diversi livelli di pericolosità di più autori, possano concretamente riflettersi nella misura della pena a ciascuno applicabile.
La considerazione che precede evidenzia quindi, in secondo luogo, una irragionevole disparità di trattamento tra gli omicidi commessi all’interno di contesti familiari e affettivi e la generalità degli omicidi volontari, ai quali il divieto di prevalenza delle attenuanti previsto dalla disposizione censurata non è applicabile: ciò che ridonda in un ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 Cost. dato che non v’è, per la Corte, alcuna ragione plausibile per considerare sempre e necessariamente più grave un fatto riconducibile a questa specifica tipologia di omicidi rispetto a ogni altra condotta omicida, non cogliendo nel segno, sotto questo profilo, l’argomento speso – nelle proprie difese scritte e in udienza – dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la particolare gravità degli omicidi intrafamiliari deriverebbe, in sostanza, dalla violazione del divieto ancestrale di versare sangue all’interno della propria stirpe.
All’argomento della intrinseca maggiore gravità degli omicidi intrafamiliari – o comunque commessi all’interno di relazioni affettive – può in effetti agevolmente replicarsi che proprio in questi contesti non infrequentemente maturano tensioni, risentimenti, frustrazioni determinati da comportamenti aggressivi di taluno dei protagonisti della relazione, che sono alla base della reazione omicida.
La disposizione censurata risulta, in terzo luogo, sempre per la Consulta, intrinsecamente irragionevole, in violazione ancora dell’art. 3 Cost., nella misura in cui prevede che una sola circostanza aggravante – per quanto significativa, come il rapporto familiare o affettivo tra autore e vittima – abbia l’effetto di impedire un giudizio di prevalenza di una pluralità di circostanze attenuanti, e ciò anche a fronte di situazioni emblematiche come quelle oggetto dei tre giudizi a quibus, nei quali l’atto omicida è maturato in contesti familiari caratterizzati dal gravissimo disagio, e anzi dall’acuta sofferenza, in cui da anni versavano gli autori del reato per effetto dei comportamenti aggressivi delle rispettive vittime.
Autori, peraltro, rispetto ai quali difficilmente potrebbero invocarsi significative ragioni di natura specialpreventiva tali da giustificare una loro prolungata detenzione, come dimostra il fatto che in almeno due dei casi oggetto dei procedimenti principali non risulta siano mai state adottate misure cautelari custodiali nei confronti dei rispettivi imputati, sull’evidente presupposto dell’assenza di una qualsivoglia loro pericolosità sociale.
In effetti, tutti questi elementi, che il giudice è di solito tenuto a considerare per calibrare la risposta sanzionatoria, vengono qui condannati all’invisibilità, per effetto di una disposizione che consente – soltanto – di neutralizzare il disvalore stigmatizzato, in via generale, dall’unica circostanza del rapporto familiare o affettivo tra autore e vittima.
In quarto luogo, sempre ad avviso della Corte, la disposizione censurata produce – almeno rispetto a una parte dei casi compresi nel suo ambito applicativo – risultati incoerenti rispetto al proprio stesso scopo di tutela: ciò che integra un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 Cost. della disposizione, sotto il profilo della sua irrazionalità intrinseca (sentenze n. 186 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto, e n. 166 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto).
Come nella sostanza sottolineano tutte le ordinanze di rimessione, alla luce dell’impianto complessivo della legge n. 69 del 2019, difatti, è verosimile che il legislatore abbia inteso, con il nuovo ultimo comma dell’art. 577 cod. pen., assicurare una più energica reazione sanzionatoria contro soggetti già autori di maltrattamenti e prevaricazioni nei confronti di persone vulnerabili a loro legate da relazioni familiari e affettive, i quali – al culmine di una spirale di violenza – uccidano queste stesse persone, fermo restando che i casi oggetto dei giudizi a quibus sono invece relativi a situazioni in cui è il soggetto che ha subìto per anni comportamenti aggressivi a compiere l’atto omicida, per effetto di una improvvisa perdita di autocontrollo causata dalla serie innumerevole di prevaricazioni cui era stato sottoposto.
Ciò determina, dunque, per la Corte costituzionale, rispetto a casi come quelli oggetto dei giudizi a quibus, una sorta di eterogenesi dei fini perseguiti dal legislatore, nel senso che la disposizione censurata finisce, in simili casi, per aggravare la risposta sanzionatoria a carico dei soggetti più vulnerabili all’interno di relazioni familiari o affettive, che per anni abbiano subito comportamenti aggressivi e prevaricatori; e dunque ridonda a danno proprio di quelle persone che il complessivo impianto della legge n. 69 del 2019 vorrebbe invece più efficacemente proteggere.
Infine, come parimenti denunciato da tutte le ordinanze di rimessione (e come già rilevato in sede di lavori preparatori: verbale della seduta del 2 aprile 2019, nonché parere espresso dall’Unione delle Camere penali nel corso dell’audizione svoltasi l’11 giugno 2019 avanti alla Commissione 2ª, Giustizia, del Senato), per i giudici di legittimità costituzionale, la disposizione censurata viola il principio di proporzionalità delle pene, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.; principio che la Consulta ha in ormai numerose occasioni ritenuto vulnerato dal divieto, strutturalmente analogo, di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante della recidiva reiterata sancito dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. (per una recente ampia ricognizione di questa giurisprudenza, sentenza n. 94 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto; nonché, successivamente, sentenze n. 141 del 2023 e n. 188 del 2023).
Nel dettaglio, in questi precedenti, si è in particolare affermato che il principio di proporzionalità delle pene è violato laddove il divieto legislativo di bilanciamento tra circostanze impedisca al giudice di attribuire adeguato rilievo, sul piano della commisurazione della sanzione, a circostanze attenuanti espressive, oltre che di una minore offensività, di una minore colpevolezza dell’autore, che è componente essenziale per la determinazione del disvalore complessivo del fatto di reato (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nonché, rispetto alla diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., parimenti espressiva di un ridotto disvalore soggettivo del fatto, sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto), oltre ad essere stato evidenziato come il vulnus in parola non possa ritenersi di per sé escluso quando il divieto di prevalenza si riferisca a una circostanza a effetto comune, comportante come tale una riduzione sino a un terzo della pena base, dal momento che «l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base […] ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno» (ancora, sentenza n. 73 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), il che ha condotto sempre la Corte costituzionale, in ormai numerose occasioni, a dichiarare costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. a varie circostanze attenuanti a effetto comune (si vedano, oltre alla sentenza n. 73 del 2020 appena citata, le sentenze n. 141 del 2023, n. 143 e n. 55 del 2021).
In coerenza con questi precedenti, anche in questo caso, pertanto, il Giudice delle leggi ritiene come non possa che ritenersi violato il principio di proporzionalità della pena, dal momento che l’attenuante della provocazione è intrinsecamente indicativa di una minore colpevolezza dell’autore e le attenuanti generiche sono anch’esse idonee a intercettare ulteriori elementi – distinti da quelli già valorizzabili agli effetti della provocazione – essi pure, nella più parte di casi, indicativi di una minore colpevolezza, come la giovane età della vittima e l’eventuale immaturo sviluppo della sua sfera emotiva, ovvero disturbi della personalità (eventualmente anche ingenerati da situazioni familiari di grave disagio) ancora non idonei ad assurgere a un vizio parziale di mente, tenuto conto altresì del fatto che lo sbarramento determinato dalla disposizione censurata produce, d’altra parte, l’effetto di impedire agli imputati in tali procedimenti di beneficiare di una, e talvolta anche di due, attenuazioni di pena pari ciascuna a un terzo della pena: il che, rispetto a un delitto punito nella forma base con la pena minima di ventun anni di reclusione – non riducibili per effetto della scelta del giudizio abbreviato, preclusa oggi dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. –, è suscettibile di tradursi in numerosi anni di reclusione in più rispetto a quanto risulterebbe dall’applicazione dell’ordinaria disciplina di cui all’art. 69 cod. pen.
D’altronde, per i giudici di legittimità costituzionale, l’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale non contraddice in alcun modo la legittima, ed anzi certamente apprezzabile, finalità di tutela perseguita dal legislatore con l’approvazione del “Codice Rosso”, avvenuta sulla base di un consenso trasversale raggiunto tra le forze politiche nel 2019.
Se, infatti, le statistiche annue sui femminicidi, sulle quali ha insistito l’Avvocatura generale dello Stato negli atti di intervento e nella discussione orale, dimostrano in effetti la necessità per il legislatore di intervenire con misure incisive, preventive e repressive, per contrastare efficacemente questo drammatico fenomeno, nonché la generalità dei fenomeni di violenza e abusi commessi nell’ambito di relazioni familiari e affettive, ciò che le ordinanze di rimessione hanno posto in discussione è, però, la risposta sanzionatoria manifestamente sproporzionata che l’introduzione dell’art. 577, terzo comma, Cost. provoca rispetto a casi del tutto eterogenei rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore: casi, cioè, in cui è proprio la persona vulnerabile, vittima di reiterati comportamenti aggressivi all’interno del proprio contesto familiare, a compiere alla fine un atto omicida, sospinta dall’esasperazione per una situazione percepita come non più tollerabile.
Una tale risposta, quindi, per la Consulta, costituisce un effetto collaterale, di natura per così dire “preterintenzionale”, prodotto da una disposizione pure sostenuta da una finalità legittima, che tuttavia, nell’impatto con la varietà dei casi reali, determina anche risultati incongrui rispetto a quella stessa finalità (per un caso simile in materia di misura della pena, sentenza n. 68 del 2012, punto 3 del Considerato in diritto; più in generale sull’eccesso nel perseguimento di fini legittimi da parte del legislatore, sentenze n. 184 del 2013, punto 6.5. del Considerato in diritto, e n. 20 del 2019, punto 5.4. del Considerato in diritto).
Sempre per la Corte costituzionale, il rimedio a tale vizio non può che essere il ripristino dei poteri discrezionali del giudice (analogamente, sentenza n. 102 del 2020, punto 5.4. del Considerato in diritto), sì da evitare che il divieto di prevalenza delle attenuanti operi in casi non coerenti rispetto alla ratio della disposizione stessa.
Più precisamente, la soluzione “naturale” è quella di lasciare che si riespandano, per effetto dell’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale, quei poteri di cui dispongono normalmente, in forza della previsione generale di cui all’art. 69 cod. pen., le Corti d’Assise: al cui prudente apprezzamento – “tecnico” e “umano” allo stesso tempo – il legislatore del 2019 ha scelto di affidare la generalità dei procedimenti per gli omicidi astrattamente punibili con la pena dell’ergastolo (sull’impianto complessivo della legge 12 aprile 2019, n. 33, recante «Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo», sentenza n. 260 del 2020, nonché – su profili più specifici – sentenza n. 207 del 2022 e ordinanza n. 214 del 2021).
La Consulta, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen..
4. Conclusioni
Con la decisione in esame, la Corte costituzionale, come appena visto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen..
Dunque, per effetto di tale pronuncia, sarà possibile adesso per il giudice riconoscere la prevalenza delle attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen. sulle aggravanti prevedute dall’art. 577, co. 1, cod. pen..
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, ad avviso di chi scrive, non può che essere positivo in quanto fondato su un’articolata motivazione, a sua volta, basata su solide argomentazioni giuridiche.
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