Protesta d’innocenza, rimanere in silenzio o non collaborare e attenuanti

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La protesta d’innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria non sempre osta ai fini della concessione delle attenuanti generiche

     Indice

  1. La questione
  2. La soluzione adottata dalla Cassazione
  3. Conclusioni

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 62-bis)

1. La questione

La Corte di Appello di Torino confermava una pronuncia emessa in primo grado, dichiarando l’imputato colpevole del reato di furto aggravato.

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione da parte della difesa dell’accusata la quale, tra i motivi addotti, adduceva il vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche.


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2. La soluzione adottata dalla Cassazione 

La Suprema Corte riteneva il motivo succitato infondato.

In particolare, gli Ermellini rilevavano innanzitutto come il diniego delle attenuanti generiche fosse stato adeguatamente e logicamente motivato dalla Corte territoriale che, dopo avere correttamente evidenziato che l’incensuratezza non è più sufficiente per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, aveva messo in rilievo le modalità della condotta (realizzata avvalendosi di mezzo fraudolento), il disinteresse mostrato nel processo, le pendenze risultanti a carico della ricorrente per fatti realizzati in maniera analoga (mezzo fraudolento costituito da una borsa schermata come nel caso di specie), che giustificano quindi la pena inflitta, ritenuta proporzionata anche con riferimento alla personalità della ricorrente (pena peraltro già inflitta, secondo il giudice di secondo grado, con particolare mitezza, essendo stata l’imputata a seguito di giudizio abbreviato condannata alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione ed euro 94 di multa previo riconoscimento delle attenuanti di cui all’art. 62 n. 4 e 6 cod. pen. valutate prevalenti rispetto all’aggravante contestata).

Oltre a ciò, i giudici di seconde cure avevano altresì precisato come il contegno immediatamente ammissivo dell’imputata fosse stato del tutto irrilevante a fronte dell’arresto in flagranza che rendeva palese la sua responsabilità e del fatto che la stessa, pur nel corretto esercizio di un suo diritto, si fosse limitata a delle dichiarazioni spontanee senza offrire alcun contributo ai fini della individuazione del complice che era riuscito a fuggire.

Di conseguenza, ad avviso del Supremo Consesso, la Corte di Appello attraverso tali argomenti, rappresentati in conseguenza di quanto indicato nell’atto di appello dalla difesa, non aveva dunque inteso fondare la mancata attenuazione della pena sul comportamento processuale dell’imputata che di per sé non era ovviamente sindacabile, ma unicamente indicare le ragioni che impediscono di valorizzare in senso positivo il comportamento complessivamente tenuto dalla medesima (laddove il risarcimento era stato già considerato ai fini del riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen.) posto che, in tema di circostanze attenuanti generiche, se la confessione dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può essere valutata come elemento favorevole ai fini della concessione del beneficio, di contro, la protesta d’innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria, pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l’efficacia delle prove di reità (Sez. 5, n, n. 32422 del 24/09/2020, Sez. 3, n. 50565 del 29/10/2015), ma è altrettanto vero che, nel caso di specie, come premesso, il diniego delle attenuanti generiche non si fondava sulla mancanza di una confessione piena da parte dell’imputata che era stata chiamata in causa unicamente per rispondere al motivo di appello che faceva leva sul comportamento ammissivo della stessa e per spiegare, quindi, il motivo per il quale tale comportamento non potesse assurgere a elemento positivo di valutazione.

In altri termini, nulla toglie che la mancata concessione delle attenuanti generiche possa fondarsi anche sulla constatazione dell’assenza di elementi positivi a tal fine valorizzabili ed in tale ottica si evidenzi il comportamento non collaborativo dell’imputato, potendo una siffatta affermazione essere intesa nel senso che ove posto in essere un atteggiamento diverso esso ben avrebbe potuto essere preso in considerazione; la negazione sul rilievo della mancata collaborazione si risolve piuttosto nella constatazione della mancanza di elementi favorevoli all’imputato e ciò comportava l’applicabilità del principio, elaborato in sede nomofilattica, secondo il quale, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento – come avvenuto nel caso di specie – a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014).

3. Conclusioni

La decisione in commento desta un certo interesse essendo ivi chiarito che, in tema di circostanze attenuanti generiche, se la confessione dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può essere valutata come elemento favorevole ai fini della concessione del beneficio, di contro, la protesta d’innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria, pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l’efficacia delle prove di reità.

Pur tuttavia, è comunque sconsigliabile, in chiave difensiva, sostenere il mancato riconoscimento del beneficio di cui all’art. 62-bis cod. pen. solo perché il giudice ha unicamente preso in considerazione unicamente tale circostanza dal momento che, come puntualmente rilevato sempre in tale pronuncia, la mancata collaborazione può rappresentare un valido indice sintomatico da cui inferire la mancanza di elementi favorevoli all’imputato ai fini del riconoscimento del beneficio de quo e ciò può quindi comportare l’applicabilità del principio, elaborato in sede nomofilattica, secondo il quale, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento – come avvenuto nel caso di specie – a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014).

Ad avviso di chi scrive, nell’invocare il riconoscimento di questa diminuente di pena, non è sufficiente fare riferimento a tale comportamento “passivo” dell’imputato, occorrendo invece addurre altri elementi, di segno positivo, per ottenere la concessione delle attenuanti generiche.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica sotto il profilo processuale, non può che essere positivo.

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