Obbligo di mantenimento da parte dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni che rifiutano lavori non adeguati

Redazione 30/04/02
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(nota a Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, Sentenza 3 aprile 2002 n. 4765).
Di Alberto Sagna
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1- L’obbligazione di mantenimento nei confronti dei figli nati dal matrimonio rappresenta un munus che trae il suo sorgere direttamente ed in via immediata dal rapporto di filiazione che prescinde dalla titolarità della potestà genitoriale ed affonda, piuttosto, le sue solide radici nella affermazione di responsabilità per il solo fatto della procreazione, secondo il disposto dell’ art. 30 comma 1 Cost.
Eguale obbligo è posto a carico dei genitori in casi di riconoscimento del figlio naturale, in quanto tale atto comporta l’ assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima, ivi compreso l’ obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ ultima, a norma dell’ art. 317 bis cod. civ., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. secondo il disposto dell’ art. 30 comma 1 Cost. [1]
L’elaborazione giurisprudenziale ha creato un vero e proprio principio di diritto vivente volto alla tutela della prole in base al quale viene assimilata la posizione del figlio divenuto maggiorenne, ma tuttora dipendente non per sua colpa dai genitori, a quella del figlio minore, imponendo, pertanto, di ravvisare la protrazione dell’ obbligo di mantenimento, oltre che di educazione e di istruzione, fino al momento in cui il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, con una appropriata collocazione nel contesto sociale, ovvero escludendolo qualora versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l’esercizio di un’ idonea attività lavorativa, o per avere detta attività ingiustificatamente rifiutato.[2]
Si è, altresì, osservato che con il raggiungimento della maggiore età, ove il figlio tuttora economicamente dipendente continui a vivere con il genitore che ne era affidatario a seguito di separazione personale dei coniugi, resta invariata la situazione di fatto oggetto di regolamentazione, e più specificatamente restano identiche le modalità di adempimento all’obbligazione di mantenimento da parte del genitore convivente, e che la pretesa di quest’ ultimo di ricevere dall’altro il contributo a suo carico trova ragione non solo o non tanto nell’interesse patrimoniale del medesimo a non anticipare la quota della prestazione gravante sull’ altro, ma anche e soprattutto nel munus a lui spettante di provvedere direttamente ed in modo completo al mantenimento, alla formazione ed all’istruzione del figlio.
Dal complesso normativo dell’ art. 155 c.c. in tema di separazione personale e dell’ art. 6 della legge n. 898 del 1970, modificato dall’ art. 11 della legge n. 74 del 1987, emerge chiaramente la volontà del legislatore che il nuovo assetto del nucleo familiare residuo a seguito della separazione o del divorzio sia dettato, in modo unitario e globale, anche per l’ evidente connessione e reciproca influenza – pur nella diversità delle finalità e dei presupposti – tra statuizioni concernenti l’ affidamento dei figli minori, la determinazione dell’ assegno in favore dei figli, siano essi minorenni o maggiori d’ età, e l’assegnazione della casa familiare.
Un ulteriore argomento in tal senso è stato desunto dall’ art. 148 comma 2 c.c. – certamente applicabile anche nell’ ipotesi in cui il ricorso negli oneri riguardi figli maggiorenni – il quale prevede che il presidente del tribunale possa ordinare con decreto che una quota dei redditi dell’ obbligato sia versata direttamente all’ altro coniuge, in tal modo apprestando, in una situazione di patologia della convivenza familiare, uno strumento di tutela (anche) preventiva in favore di detto coniuge per l’adempimento degli obblighi facenti capo al primo.
Sul piano pratico occorre rilevare che la negazione della legittimazione del genitore convivente con il raggiungimento della maggiore età del figlio potrebbe comportare un’ interruzione delle prestazioni da parte del genitore non convivente, atteso che il figlio maggiorenne, non legittimato ad avvalersi della statuizione emessa in favore del genitore convivente, sarebbe costretto a promuovere un nuovo giudizio nei confronti dell’ altro.
Occorre, infine, precisare che la legittimazione del genitore convivente con il figlio maggiore di età non indipendente, in quanto fondata sulla continuità dei doveri gravanti su uno dei genitori nella persistenza della situazione di convivenza, non si sovrappone, ma concorre con la diversa legittimazione del figlio maggiorenne, che ha proprie radici nella titolarità del diritto al mantenimento, risolvendosi i problemi determinati dalla coesistenza di entrambe sulla base dei principi in tema di solidarietà attiva.
In mancanza di una diretta ed esplicita richiesta della stessa figlia di essere destinataria del pagamento[3], dunque, permane l’ obbligo del mantenimento a carico del genitore non affidatario del figlio maggiorenne ed il corrispondente diritto iure proprio alla percezione del relativo assegno della madre già affidataria; è bene precisare che eventuali modifiche del quantum dovuto non possono essere adottate nel corso di un giudizio di opposizione all’ esecuzione bensì a mezzo l’ apposita procedura di cui all’ art. 710 c.p.c. a causa della sua specialità in ordine alla “modificabilità dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi”.
Ciò posto la giurisprudenza ha correttamente sottolineato come in ipotesi di obbligo di mantenimento la solidarietà attiva, a differenza di quella passiva, non si presume (arg. a contrario ex art. 1292 c.c.) ma abbisogna di un esplicito titolo (o di un’ apposita disposizione normativa) ed inoltre, deve considerarsi che la causa dell’ adempimento (relativo all’ assegno) nei confronti dell’ altro coniuge, già affidatario, è diversa dalla causa dell’ adempimento nei confronti del figlio (divenuto maggiorenne), diversi essendo i relativi interessi: l’ affidatario è portatore dell’ interesse al rimborso di quanto spende per il figlio, quest’ ultimo ha invece diretto interesse al mantenimento[4].
Ne deriva che, stante l’ indisponibilità del relativo diritto, che può essere disconosciuto solo in sede della richiamata procedura ex art. 710 c.p.c., finalizzata all’ accertamento dei presupposti di fatto dell’ autosufficienza economica dei figli, non sembra possibile ritenere ammissibile e valida, in ipotesi, un’esplicita rinuncia del figlio al mantenimento peraltro non opponibile al genitore affidatario in quanto autonoma destinataria dell’ assegno.
Tale ragionamento porta a concludere che, nell’ ipotesi in cui al mantenimento di un figlio legittimo o anche naturale, abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall’ art. 148 cod. civ., richiamato dall’ art. 261 cod. civ., che prevede l’ azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’ obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota”.
2- Non sembra, dunque, possibile oggettivizzare un momento preciso in cui ritenere cessato l’obbligo al mantenimento, considerato il fine di tale dovere in quello di permettere al figlio di iniziare autonomamente la sua vita, con le conoscenze e gli strumenti appresi.
D’altra parte l’ordinamento non può tollerare e premiare la pigrizia, l’inerzia del figlio maggiorenne, ma anzi la stessa costituzione richiede ogni sforzo utile e necessario per lavorare o per trovare un lavoro.
Non qualsiasi occasione di lavoro può però ritenersi sufficiente per esonerare il genitore dal mantenimento, anche in presenza di un rifiuto del figlio, ma solo quando possa considerarsi idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del figlio ed il suo rifiuto quindi privo di un’ accettabile giustificazione.
In tal ultimo caso il figlio maggiorenne gode di un autentico “diritto di non lavorare” a condizioni diverse dalle legittime aspettative di occupare il posto o svolgere l’ attività più corrispondente alle proprie possibilità ed alla propria scelta, avvalorato dal dettato dell’ art. 4 Cost. per cui “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’ attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”[5].
L’ obbligo di mantenimento, dunque, non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma persiste finché il genitore o i genitori interessati dimostrino concretamente che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato da loro posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente. Tale principio, rapportato alla tematica relativa alla ripartizione dell’onere della prova in sede processuale, comporta che, configurandosi il conseguimento dell’indipendenza economica quale fatto estintivo di una obbligazione «ex lege», sia a carico del genitore che deduca la cessazione del diritto del figlio ad essere mantenuto la dimostrazione che questi è divenuto autosufficiente, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da un suo atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato, e non già all’altro genitore (od al figlio) dimostrare il persistere dello stato di insufficienza economica[6] (vedi sul punto
3- Sulla base dei parametri di riferimento suindicati deve escludersi, in via generale, che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia.
La Cassazione nella decisione in esame ha, peraltro, preso in considerazione due punti di riferimento:
A) l’essere il richiedente figlio di professionisti di elevato livello, il che sul piano degli obblighi di mantenimento scaturenti dalla separazione comporta un attenta analisi dei profili patrimoniali dei coniugi intesa ad evidenziare il dispendioso tenore di vita assicuratogli in passato nel contesto di vita familiare comune.
B) L’essere il figlio laureato in giurisprudenza e,quindi, ancora impegnato a completare la sua formazione nella prospettiva di un inserimento professionale adeguato alle sue aspirazioni ed alle sue potenzialità.
In conclusione, si è ricorsi all’ utilizzo dello strumento qualificante del fatto notorio per dar corpo al quadro probatorio che esonora il richiedente da ogni colpa o negligenza, sottolineando come costituisca fatto ampiamente conosciuto alla generalità dei consociati che i figli di un certo ceto sociale, stanno a casa per completare il ciclo di studi universitari e continuano tale beata permanenza “riccamente spesata” non solo sino a quando non solo abbiano ottenuto il titolo abilitativo per l’esercizio, ad esempio, della professione di avvocato, medico, ingegnere o architetto, ma anche quando siano in attesa, una volta conseguita l’abilitazione, di occupare un posto dignitoso, corrispondente alle aspettative e, aggiungiamo noi, remunerato, posto che è altrettanto notorio come il praticantato, o la prima occupazione sia in molto casi svolto gratuitamente o quasi.
L’immediata impiegabilità nel mondo professionale con alta redditività economica non ha dunque alcun valore. Quali i rischi di siffatta impostazione ?
In realtà siffatta impostazione, letta in termini troppo assoluti, sembra eccessivamente “buonista”, immensamente fiduciosa cioè dell’estrema correttezza delle parti in gioco.
E’ lecito domandarsi come sia possibile per un genitore provare rigorosamente che l’offerta di lavoro che il figlio ha rifiutato non era economicamente adeguata, quasi che, tanto per dirne una, vi sia o vi debba essere una traccia scritta dei colloqui svolti in un’ azienda potenzialmente interessata e delle relative proposte economiche; o, ancora, che dire dei casi in cui il figlio riferisca di essere stato semplicemente scartato perché non corrispondente ai profili aziendali, magari, ciò non corrisponda alla realtà.
Appare evidente che la falla di questo sistema sta nell’addossare al genitore un difficilissimo e assai gravoso onere probatorio ovvero, più realisticamente, occorre prendere atto della necessità di valorizzare maggiormente, valutando caso per caso, quel limite esonerativo dall’obbligo di mantenimento costituito dal fatto che se un genitore si è sempre concretamente attivato nel corso degli anni per rendere il figlio economicamente autosufficiente, il non averne tratto profitto da parte del medesimo per scelte quantomeno logicamente discutibili- in quanto calate nel contesto sociale, economico, culturale della ambiente in cui vive- non può comportare la permanenza di una vera e propria rendita parassitaria.
Se si vuol dire che c’è un limite cronologico di tollerabilità del carico economico assunto sin dalla nascita i paletti vanno, dunque, ben fissati attentamente caso per caso: un figlio trentacinquenne che ancora non sia laureato, quand’anche in medicina o ingegneria, non può sempre pretendere di essere mantenuto dai genitori, perché ciò non significa continuare a perseguire le proprie aspirazioni, ma è chiaro indice di una colpevole trascuratezza negli studi, di un’evidente lassismo, di una libera e molto discutibile scelta da parte di un soggetto che non ha saputo o voluto trarre profitto delle ricche possibilità di lavoro offertegli con adeguata e ben pagata istruzione scolastica, prima universitaria, poi.
Emerge, allora, la piena ed incisiva sindacabilità delle scelte del figlio, non solo per valutare le sue aspirazioni …., ma anche per verificare se, secondo un efficace detto “ ci sta marciando o meno” in una troppo comoda situazione, essendo censurabili rifiuti immotivati e irragionevoli !!
Fatto estintivo di una obbligazione ex legge, quale è quella del mantenimento dei figli, diviene allora non solo la prova della raggiunta autosufficienza economica ma anche, alternativamente, la decisiva circostanza che siano state concretamente poste in essere tutte le condizioni per permettere al figlio di divenire tale, anche se quest’ultimo per cattiva volontà non ne abbia approfittato.
Ne consegue che il genitore il quale contesti la sussistenza del proprio obbligo di mantenimento nei confronti di figli maggiorenni che non svolgono attività lavorativa retribuita, è tenuto a fornire la prova della condotta colpevole del figlio che persista in un atteggiamento d’ inerzia nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudini e la sua professionalità, ovvero di comodo rifiuto di corrispondenti occasioni di lavoro.
A chiusura va, però, detto che, talvolta, valutando caso per caso, può escludersi la responsabilità di figlio per non aver lavorato quando ciò dipenda dalla situazione del mercato di lavoro caratterizzato da uno stato di disoccupazione come quello attuale nel Mezzogiorno d’ Italia, ove la mancanza d’ impiego giovanile raggiunge percentuali notevolmente superiori a quelle delle restanti zone della penisola, sì da caratterizzarsi quasi come endemica.
Avv. Alberto Sagna

Note:
[1] Cfr. Cass. 18-02-1999, n. 1353.
[2] Cfr. Cass. 1992 n. 13126;Cass. 1991 n. 7295; Cass. 1990 n. 12212; Cass. 1988 n. 4373; Cass. 1987 n. 3570.
[3] Cfr. Cass. 5874/81 e Cass.6215/94.
[4] Cfr. Cass. n. 3409/94.
[5] Cfr. Cass. 4616/1998.
[6] Cfr. Cass. 2289/01; Cass. 91909/99; Cass.2670/98; Cass. 7990/96; Cass.8383/96; Cass.13126/92; Cass.7295/91; Cass. 12212/90; Cass.475/90.

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