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Indice
- 1. Il fatto
- 2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 sussiste nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria?
- 3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
- 4. Conclusioni: l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 sussiste nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria
1. Il fatto
Il Tribunale di Napoli affermava la responsabilità dell’imputato per il reato di cui agli artt. 30 e 31 legge 13 settembre 1982 n. 646 (omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali) con condanna del medesimo, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 8.000 di multa e con confisca della somma di Euro 734.966,75.
Dal canto suo, la Corte territoriale partenopea confermava la suddetta responsabilità.
Orbene, a fronte di tale “doppia conforme”, il difensore dell’accusato ricorreva per Cassazione il quale, tra i motivi ivi addotti, deduceva vizio di motivazione in riferimento alla intervenuta affermazione di responsabilità e alla statuizione di confisca.
In particolare, secondo il ricorrente, sarebbe mancata la motivazione in punto di offensività in concreto della condotta, osservandosi a tal proposito come le questioni di legittimità costituzionale delle norme incriminatrici, proposte nel 2001 dal Tribunale di Trapani, fossero state sì dichiarate inammissibili illo tempore per difetto di rilevanza, ma erano (e sono tutt’ora) comunque fondate dal momento che, contrasta con il principio di proporzionalità della pena, la previsione di un obbligo di comunicazione, sanzionato penalmente, anche quando manca una concreta offensività della omissione come, nel caso di specie, l’ipotesi in cui l’incremento patrimoniale non è stato occultato in quanto, provenendo da una successione ereditaria, era conoscibile, essendo stato dichiarato tramite atti pubblici.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come l’applicazione della confisca, anche a beni acquisiti legittimamente, abbia un carattere meramente punitivo, non essendo correlata all’accertamento della pericolosità del bene, tenuto oltre tutto conto che vi è una illegittimità, per disparità di trattamento in situazioni analoghe, rispetto alla confisca prevista per le violazioni di cui all’art. 12-sexies legge n. 306 del 1992, ora trasfuso nell’art. 240-bis cod. pen., nelle quali la dimostrazione della legittima provenienza del bene impedisce la confisca.
Nel dettaglio, il giudice di appello avrebbe omesso di verificare l’offensività in concreto della mancata comunicazione, benché tale verifica fosse stata chiesta con i motivi di appello, in ragione dei contenuti di Corte cost., sent. n. 99 del 2017, fermo restando che, tra l’altro, la Corte di secondo grado non avrebbe tenuto conto neppure della giurisprudenza di legittimità, che ha escluso dall’obbligo di comunicazione tutte le acquisizioni che non derivino da un impiego di fondi patrimoniali da parte del condannato.
Del resto, tale principio è stato applicato solo per escludere dall’obbligo di comunicazione i canoni di affitto degli immobili già di proprietà del ricorrente, ma anche la successione ereditaria è un incremento che non consegue ad un impiego di fondi patrimoniali. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 sussiste nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria?
La Sezione semplice assegnataria del suddetto ricorso, vale a dire la Sezione prima, lo rimetteva alle Sezioni Unite, in relazione alla questione se l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, evidenziandosi a tal proposito che, dall’analisi della giurisprudenza – costituzionale e di legittimità – poteva ricavarsi l’esistenza di un contrasto interpretativo.
In particolare, secondo l’orientamento interpretativo prevalente, al quale aveva aderito il giudice partenopeo, la norma sanziona l’omessa comunicazione anche nel caso di beni pervenuti per successione ereditaria o per acquisti soggetti ad una pubblicità legale effettivamente applicata, presentando anche tale condotta l’offensività richiesta, cioè l’idoneità a porre in pericolo il bene giuridico protetto che le Sez. U, nella pronuncia n. 16896 del 31/01/2019, hanno ribadito dover essere individuato nell’ordine pubblico (nel medesimo senso Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006; Sez. 5, n. 14996 del 25/02/2005; Sez. 5, n. 15220 del 08/02/2003; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001).
Ebbene, per questa Sezione, tali decisioni muovono dalla natura del bene giuridico protetto dalla norma, identificato nella tutela dell’ordine pubblico, che richiede un controllo tempestivo delle variazioni del patrimonio di un soggetto ritenuto pericoloso in quanto condannato per reati espressivi di un particolare allarme sociale (Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015, secondo cui “l’obbligo permette l’esercizio di un controllo patrimoniale più penetrante e analitico nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose, onde accertare per tempo se le variazioni patrimoniali dipendono o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite” e Sez. 6, n. 31817 del 03/08/2009, secondo il quale “l’obbligo di comunicazione costituisce una misura di prevenzione di natura patrimoniale volta a esercitare un controllo preventivo e costante sui beni dei condannati o degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o camorristico, al fine di accertare ogni forma di illecito arricchimento”) in guisa tale che, sulla base di tale premessa, si argomenta nel senso che l’oggetto di tale controllo, ed anche la sua finalità, siano la verifica dell’eventuale disponibilità di beni che possano derivare dall’attività criminosa precedente o da collegamenti ancora in essere con detta attività, ovvero di movimenti finanziari che possano far sorgere il sospetto di una circolazione di beni o denaro aventi una provenienza non lecita dato che le movimentazioni di beni e denaro realizzate da soggetti destinatari di misura di prevenzione o condannati per particolari reati possono creare problemi di ordine pubblico e legittimare l’intervento dello Stato che, nel caso della condotta qui sanzionata, non si limita al controllo sulle varie operazioni, ma giunge alla ablazione del bene o della somma.
Ciò posto, un diverso orientamento evidenzia invece come, in caso di successione ereditaria, vi sia un aspetto che tende ad escludere l’integrazione della ratio della incriminazione, atteso che l’incremento patrimoniale “non richiede alcuna iniziativa dell’agente” e viene comunque disvelato attraverso una forma di pubblicità legale, con la conseguente esclusione del dolo (Sez. 5, n. 3079 del 17/1/2005), fermo restando che, oltre al fatto che la tesi del necessario “dolo di occultamento” – che sarebbe incompatibile con tutte le ipotesi di registrazione dell’atto a contenuto patrimoniale – è stata sostenuta anche da Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, ripresa, in epoca posteriore, da Sez. 1 n. 6334 del 14/01/2010, questa opzione esegetica è stata oltre tutto estesa a tutte le ipotesi di atti soggetti ad una specifica forma di pubblicità legale (Sez. 5, n. 25974 del 21/05/2013 e Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012).
Orbene, a fronte di un orientamento prevalente orientato nel senso della punibilità delle condotte omissive correlate al fenomeno della successione ereditaria – anche nel caso di avvenuta denunzia di successione a fini fiscali – la Sezione remittente evidenziava due aspetti bisognosi di approfondimento da parte delle Sezioni Unite ai fini della soluzione del contrasto.
Il primo era rappresentato dalla evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività in concreto, anche lì dove il reato sia un reato di pericolo presunto, venendosi al riguardo richiamata Corte cost., sent. n. 99 del 2017, intervenuta sulla fattispecie qui in rilievo dal momento che, in detta decisione, pur confermandosi -sulla scia del diritto vivente – che l’esistenza di una forma di pubblicità legale dell’atto posto a monte dell’obbligo dichiarativo non esclude né punibilità né dolo, il giudice delle leggi ha affermato che l’eventuale scarto tra integrazione della fattispecie tipica e offensività “in concreto” della condotta è un aspetto che è compito del giudice comune verificare.
Il secondo profilo, reputato degno di approfondimento, riguardava l’elaborazione giurisprudenziale relativa a decisioni che, pur non vertendo sulla materia dei beni ricevuti per successione ereditaria, hanno fornito letture della fattispecie incriminatrice orientate alla valorizzazione del principio di offensività in concreto.
In particolare, Sez. 6, n. 17691 del 14/04/2016, ha sostenuto una tesi interpretativa che tende a ridurre l’ambito applicativo della norma incriminatrice, escludendolo nella ipotesi in cui l’omissione riguardi le somme ricavate a titolo di canone di affitto di terreni già in proprietà del soggetto tenuto alla comunicazione. Si osserva in particolare che la variazione patrimoniale “rilevante”, e soggetta a comunicazione ai sensi dell’art. 31, legge n. 646 del 1982, è solo quella “la cui acquisizione abbia comportato un impiego di fonti patrimoniali, o assunzione di corrispondenti obblighi da parte del condannato”, così come Sez. 1, n. 27723 del 02/05/2023, ha affermato che una particolare operazione del riscatto di azioni (con versamento sul conto dell’imputato del controvalore in denaro) non è atto soggetto a comunicazione, ai fini della disposizione in parola, non comportando una variazione rilevante e, soprattutto, non integrando una condotta idonea a porre in pericolo il bene protetto, trattandosi di decisioni che – secondo i contenuti della ordinanza di rimessione – avrebbero potuto trovare applicazione, in base ai principi espressi, anche all’ipotesi di successione ereditaria e che – in ogni caso – erano in grado di imporre una verifica della tenuta dell’orientamento prevalente.
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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite – dopo avere delimitato la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale (nei seguenti termini: “Se l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria”) e proceduto ad una disamina della disposizione incriminatrice preveduta dagli artt. 30 e 31, legge 13 settembre 1982 n. 646 – evidenziavano come siffatto precetto normativo, per le sue particolari caratteristiche, avesse dato luogo nel corso del tempo a rilevanti questioni interpretative ed a dubbi di legittimità costituzionale, specie sul fronte della compatibilità con il principio di necessaria chiarezza e precisione della descrizione dell’illecito e con quello di necessaria offensività delle condotte di reato.
Ma, prima di passare ad esaminare lo specifico quesito posto dalla ordinanza di rimessione, per le Sezioni unite, occorre innanzitutto illustrare, sia pure in sintesi, i contenuti delle decisioni emesse nel corso del tempo dalla Corte costituzionale, in riferimento al rapporto tra il contenuto descrittivo della fattispecie de qua e il principio di necessaria offensività della condotta costituente reato, il che veniva fatto, ricordando in primo luogo- sia pure a grandi linee – la stessa evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività, sia in chiave di criterio generale posto, in rapporto alle scelte del costituente, a presidio della selezione dei fatti “meritevoli di punizione”, che in chiave di parametro alla cui stregua il giudice è tenuto ad apprezzare la condotta concreta, pur se tipica, cui attribuire idoneità lesiva, con danno o messa in pericolo del bene protetto, e ciò era compiuto nei seguenti termini: “(…) Con la sentenza n. 189 del 1987 la Corte costituzionale dichiarava la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni incriminatrici contenute nella I. 24 giugno 1929 n. 1085 in tema di divieto di esposizione (senza autorizzazione delle autorità politiche locali) di bandiere estere. In detto contesto veniva rilevato che il fatto tipico, anche alla luce della esistenza di altre disposizioni incriminatrici in tema di vilipendio, era privo di ogni significatività e offensività, sicché la incriminazione della condotta era priva di ragionevolezza, per l’assenza di un “reale” bene giuridico tutelato: “il diritto penale costituisce, rispetto agli altri rami dell’ordinamento giuridico dello Stato, l’extrema ratio, il momento nel quale soltanto nell’impossibilità o nell’insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami è concesso al legislatore ordinario di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti beni del privato”. Con la sentenza n. 360 del 1995 la Corte costituzionale, nel dichiarare la infondatezza di più questioni relative alla rilevanza penale della condotta di coltivazione di piante da cui può essere estratta sostanza stupefacente, osservava, con riferimento al rapporto con il principio di offensività, che “la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come “pericolosa”, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che – come già rilevato – l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica – sottesa alla astratta fattispecie criminosa – di attentato al bene giuridico protetto”. Si tratta di una affermazione esegetica di estremo rilievo, da cui prendono spunto – manifestando continuità al principio – le decisioni posteriori sulla categoria dei reati a pericolo presunto e sulla doppia valenza del principio di offensività. Premessa, infatti, la precisa identificazione del bene giuridico protetto, e della sua obiettiva consistenza, anche il reato di pericolo presunto (presunzione ex lege) può risultare conforme al principio di materialità e di necessaria offensività (derivante dagli artt. 25 e 27 Cost.) se ed in quanto vi sia – alla base della incriminazione della condotta – una congrua e ragionevole applicazione di una massima di esperienza che ricolleghi alla condotta – qui apprezzata nella sua dimensione astratta – un evento di pericolo per il bene tutelato. Il possibile “scarto” tra la presunzione legislativa di esposizione a pericolo del bene protetto, ritenuta ragionevole, e la dimensione concreta del fatto (pur rientrante nella tipicità) viene affidato – nei reati a pericolo presunto – alla valutazione del giudice, in riferimento al secondo “versante” del principio di offensività. Ciò è affermato con nettezza dalla Corte costituzionale in numerose decisioni, che chiariscono la “doppia dimensione” e la “doppia valenza” del principio. Ciò è chiaramente esposto nella sentenza n. 263 del 2000 (sul reato militare di violata consegna). Una volta esclusa la irragionevolezza della incriminazione in astratto (vi è ragionevole presunzione di idoneità della condotta a porre in pericolo un bene giuridico meritevole di particolare protezione) la Corte costituzionale afferma, infatti, che “l’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è… compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L’articolo 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale””.
Orbene, una volta concluso siffatto excursus giurisprudenziale, tirando le somme su tali aspetti, ad avviso degli Ermellini, per rispondere al parametro costituzionale del “diritto penale del fatto” derivante dal testo dell’art. 25 secondo comma Cost., era necessario che il principio di offensività operi in modo ininterrotto, dal momento della produzione legislativa a quello della applicazione concreta, trattandosi di valore irrinunziabile dell’intero sistema penale, stimandosi all’uopo di particolare interesse a tal riguardo, tra le pronunzie della Corte costituzionale, quanto postulato nella sentenza n. 354 del 2002 con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 688, secondo comma, cod. pen., che incriminava la ubriachezza manifesta in luogo pubblico se il fatto risultava commesso da chi ha riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o la incolumità individuale visto che qui, ad essere dichiarata incostituzionale, è la scelta del legislatore di ritenere punibile la condizione di ubriachezza “solo se” commessa da soggetti già condannati per una determinata tipologia di condotte: “la disposizione censurata è affetta dagli ulteriori vizi, anch’essi denunciati dal remittente, derivanti dalla violazione dei principi costituzionali di legalità della pena e di orientamento della pena stessa all’emenda del condannato, tanto più se si considera che l’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale.
Invero, divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale.
Del resto, il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza, per i giudici di piazza Cavour, rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell’intento del legislatore, finisce col punire non tanto l’ubriachezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all’articolo 688 del codice penale, vale a dire una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio della medesima Corte costituzionale.
Oltre a ciò, veniva altresì osservato che tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale.
Ebbene, per i giudici di legittimità ordinaria, ciò che si trae da detta decisione è che deve esservi un collegamento funzionale tra una precedente condanna e una condotta posteriore elevata a reato, posto che, in assenza di tale nesso, la incriminazione sarebbe il frutto di una mera qualità personale di condannato, che non può essere un “marchio indelebile” e non può giustificare la disparità di trattamento con il resto dei consociati, notandosi al contempo come tali principi siano stati ulteriormente ribaditi dalle sentenze n. 139 del 2023 (in tema di porto degli strumenti indicati nell’art. 4, primo comma, legge n. 110 del 1975), n. 28 del 2024 (in tema di invasione di edifici, che richiama il dovere del giudice di verificare in concreto la attitudine lesiva del comportamento incriminato), legge n. 149 del 2024 (in riferimento alla comparazione delle circostanze ed applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.).
Di particolare rilievo appariva infine, per la Corte di legittimità, la precisazione operata nella sentenza n. 139 del 2023, lì dove si afferma che in rapporto ai reati di pericolo presunto il giudice comune, per dare attuazione al principio di offensività, “deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno”.
Detto questo, a tale punto della disamina, le Sezioni unite rilevavano come, al parametro dell’offensività, occorresse rifarsi anche al fine di orientare i poteri valutativi del giudice in relazione alla condotta sussumibile in una fattispecie di pericolo presunto dato che al giudice spetta individuare il possibile scarto tra la presunzione operata dal legislatore (condotta idonea ad esporre a pericolo il bene protetto) e la realtà fenomenica (condotta inidonea a manifestare, in concreto, simile attitudine lesiva), ferma restando la integrazione della fattispecie tipica e considerato che l’esposizione a pericolo del bene protetto richiede sempre e comunque la identificazione – quantomeno – di una “ragionevole possibilità di produzione del danno” in rapporto ad un bene giuridico dotato della necessaria concretezza e previamente delimitato, trattandosi, peraltro, di un inquadramento dogmatico richiamato in più occasioni dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024; Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019; Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013; Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007) anche in rapporto alla adesione ad interpretazioni che ne valorizzino il contenuto e le ricadute in punto di tipicità (cfr. Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, in riferimento al reato di cui all’art. 7 D.L. 28 gennaio 2019 n. 4).
Particolarmente rilevanti inoltre appaiono, sempre per le Sezioni unite, sul tema, le considerazioni svolte da Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024 che, nell’analizzare il rapporto tra le diverse fattispecie incriminatrici di cui all’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645 e art. 2, comma 1, D.L. 26 aprile 1993, n. 122, ha testualmente ricordato come: “quantomeno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un “pericolo concreto” ed un “pericolo astratto o presunto” finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente, una volta che si prenda contestualmente atto di come… anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività”.
Tanto premesso, in merito al reato di pericolo presunto e al principio di offensività, codeste Sezioni reputavano necessario analizzare anche le decisioni della Corte costituzionale intervenute in modo specifico sulla condotta di reato oggetto del presente giudizio, il che veniva effettuato nei seguenti termini: “La prima decisione è – in ordine cronologico – la sentenza n. 442 del 2001, con cui viene dichiarata la inammissibilità della questione relativa all’art. 30 e la manifesta infondatezza della questione relativa all’art. 31 legge 13 settembre 1982 n. 646. In detta sentenza si afferma che la incriminazione non contiene aspetti di evidente irragionevolezza, ove si tenga conto della possibilità per il giudice comune “di escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione”. Viene dunque indicata la strada della più attenta verifica della ricorrenza – nei casi concreti -dell’elemento psicologico del reato. La seconda decisione di rilievo, ovvero la sentenza n. 81 del 2014, interviene a distanza di tredici anni dalla prima. Qui la Corte costituzionale si sofferma sulla natura del reato e sulla intervenuta evoluzione del diritto vivente, in particolare prendendo atto del progressivo superamento – da parte della giurisprudenza di legittimità – della tesi del necessario “dolo di occultamento”. Ciò rende non più possibile – nel caso di omessa comunicazione di atti pubblici soggetti a registrazione – l’importazione delle considerazioni espresse con la decisione n. 442 del 2001, in precedenza ricordata, pur richiamandosi gli “indubbi profili di criticità” del paradigma punitivo oggetto dell’incidente di legittimità costituzionale, non superabili attraverso le prospettazioni – eccessivamente creative – del giudice remittente. Si tratta, dunque, di una decisione che lascia inalterato l’assetto legislativo e che si limita a constatare come la tesi della necessaria caratterizzazione del dolo in termini di specificità sia stata accantonata nel panorama giurisprudenziale. Con la terza decisione, ovvero la sentenza n. 99 del 2017, lo scrutinio di costituzionalità si incentra in modo espresso sul rapporto tra il contenuto della incriminazione e le ricadute del principio di offensività. Il Giudice delle leggi riferisce la ratio di tutela al bene giuridico dell’ordine pubblico, in chiave di potenziale attivazione di un doveroso controllo sulle cause della variazione, funzionalmente correlato alla condizione (di pericolosità) del soggetto cui è imposto il dovere comunicativo. Ciò posto, non viene ritenuto sussistente alcun deficit di ragionevolezza secondo il parametro della offensività “in astratto”, atteso che “occorre un monitoraggio costante sui beni delle persone pericolose gravate dal legislatore dell’obbligo in questione; monitoraggio che non può essere assicurato dalla registrazione e dalla trascrizione degli atti che determinano le variazioni patrimoniali”. Trattandosi, tuttavia, di reato di pericolo presunto, viene ribadito il necessario controllo del giudice sulla offensività della specifica condotta oggetto di giudizio giacché, “sempre che non si possa escludere il dolo, spetta… al giudice comune il compito di allineare il fatto oggetto del giudizio al canone dell’offensività “in concreto”, in quanto compete a questo giudice verificare se la singola condotta, rappresentata nel caso in esame dalla omessa comunicazione, risulta assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità”. Ciò che maggiormente interessa rilevare è che in simile, delicato, equilibrio la Corte costituzionale muove – in tutte le decisioni intervenute sul tema – da una considerazione di base: la pericolosità soggettiva, derivante dal pregresso accertamento dello specifico reato (o della condizione di destinatario della misura di prevenzione) è ciò che giustifica la previsione dell’obbligo comunicativo della variazione, che altrimenti risulterebbe non conforme ai principi costituzionali (cfr. sent. n. 354 del 2002, cit.). Dunque, risulta costituzionalmente legittima, in tale chiave, la diversificazione di trattamento tra il comune cittadino (non gravato da alcun dovere di comunicazione dei propri movimenti economici superiori a una data soglia) e il soggetto condannato per un reato di criminalità organizzata (o destinatario della misura di prevenzione personale), atteso che l’obbligo di comunicazione – imposto solo al secondo – si ricollega alla pregressa manifestazione di pericolosità ed ha un contenuto potenzialmente “utile” a fini di tutela dell’ordine pubblico economico”.
Terminata siffatta analisi, gli Ermellini notavano come la giurisprudenza di legittimità, sinteticamente rievocata in parte narrativa, si sia incentrata per molto tempo sul tema del dolo, deducendo contestualmente come le decisioni più recenti si siano confrontate con i principi enunciati dalla sentenza n. 99 del 2017 della Corte costituzionale.
Ciò posto, si evidenziava però come, nella giurisprudenza di legittimità, non siano controversi la natura di reato di pericolo presunto e la identificazione del bene giuridico protetto in quello dell’ordine pubblico economico, in ragione della pericolosità del soggetto destinatario di condanna per determinate ipotesi di reato o di misura di prevenzione personale definitiva mentre, al contrario, è mancata una compiuta analisi dei principi espressi dalla Corte costituzionale in tema di doverosa verifica della offensività in concreto dei reati di pericolo presunto.
Orbene, per i giudici di piazza Cavour, è proprio da questi principi che occorre partire per fornire risposta al quesito interpretativo.
In effetti, l’offensività in concreto riguarda il rapporto tra la condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice e la effettiva lesione, o messa in pericolo, del bene giuridico protetto, trattandosi, quanto alla verifica di offensività in concreto, di un profilo logicamente e giuridicamente successivo rispetto alla verifica degli elementi costitutivi del reato; la inoffensività presuppone infatti l’integrazione della fattispecie tipica e del relativo coefficiente di colpevolezza.
Oltre a ciò, era oltre rimarcato il fatto che, in assenza di indici testuali specifici, deve ritenersi definitivamente superato l’orientamento interpretativo che evocava la necessità del “dolo di occultamento” (tesi risalente a Sez. 1, n. 10024 del 11/03/2002) dal momento che il reato in esame, ai fini della sua integrazione, necessita del solo dolo generico, la cui prova non è diversa in caso di omissione della comunicazione di atti sottoposti ad un regime di pubblicità legale (cfr. tra le altre, Sez. 2 n. 4667 del 19/11/2010; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010; Sez. 1, n. 37408 del 25/10/2006) atteso che il regime di pubblicità non garantisce l’effettiva conoscenza della variazione in capo all’organo di polizia titolare del potere di verificare la liceità delle fonti patrimoniali impiegate dal soggetto “pericoloso”.
Ebbene, ad avviso della Corte di legittimità, è indubbio che l’omessa comunicazione può riguardare anche atti soggetti a forme di pubblicità legale, tra cui i trasferimenti immobiliari e le stesse variazioni derivanti da fenomeni successori, atteso che la norma, nel suo tenore letterale e nella sua lettura sistematica e teleologica, non distingue le diverse tipologie di atti e, dunque, la prova non è diversa.
L’orientamento prevalente, condiviso sul punto dal Collegio, ritiene dunque ininfluente, rispetto alla prova del dolo, la particolare modalità con cui si è realizzata la acquisizione patrimoniale, ferma restando la ovvia necessità di evitare forme presuntive di accertamento dell’elemento psicologico del reato (dolus in re ipsa), tenuto conto altresì del fatto che la Sez. 6, nella decisione n. 24874 del 30/10/2014, adotta una definizione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali in termini di “effetto legale tipico di una condanna per fatti di mafia o della imposizione di una misura di prevenzione personale”, al fine di specificare come l’eventuale errore sulla esistenza dell’obbligo si traduce in errore sul precetto e non sul fatto.
Orbene, tale affermazione, condivisa dalle Sezioni unite, toglie rilievo a ulteriori questioni relative alla ricorrenza – anche nel caso oggetto della presente decisione – del dolo, così come, allo stesso tempo, la presunzione ex lege circa l’idoneità astratta della condotta di omessa comunicazione delle variazioni – da parte delle categorie di soggetti già indicate – ad esporre a pericolo il bene giuridico protetto, non esime tuttavia il giudice dalla verifica in concreto della effettiva attitudine lesiva della condotta, al fine di superare il possibile scarto tra presunzione legislativa e realtà fenomenica, secondo le linee esegetiche in precedenza esposte, meritando di dovesse richiamata in tal senso quanto asserito dalla Sez. 3, nella pronuncia n. 50299 del 27/10/2023, che, in coerenza con il dictum della Corte costituzionale (sent. n. 99 del 2017), ha ritenuto necessaria la verifica “in concreto” della offensività della singola omissione, evidenziando come – specie nel caso di atti sottoposti a regime di pubblicità – il giudice del merito sia tenuto a fornire una motivazione “in positivo” che non si limiti alla verifica del dolo generico ma che investa il tema della idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto.
Se quindi si risale alla ratio della disposizione incriminatrice (cioè: la realizzazione di un doveroso monitoraggio sulle iniziative patrimoniali del soggetto riconosciuto come pericoloso) e alla più precisa individuazione del bene giuridico oggetto di tutela, ovvero l’ordine pubblico inteso, sul versante economico, come assenza di alterazioni della libertà di concorrenza e della libertà di iniziativa a causa dell’agire di organizzazioni di stampo mafioso o assimilabili, per le Sezioni unite, è evidente che l’aver omesso di comunicare l’acquisizione di beni a titolo successorio, pur rientrando nella astratta dimensione tipica (trattandosi pur sempre di una variazione della consistenza patrimoniale), può essere ritenuto, in concreto, inoffensivo e dunque non punibile.
In altre parole, la carenza di offensività in concreto, in rapporto alla specifica norma incriminatrice oggetto del giudizio, si realizza nei casi in cui la movimentazione patrimoniale ictu oculi non sia ricollegabile alla pericolosità latente del soggetto raggiunto dall’obbligo, in modo tale che l’avvertita necessità, di riempire di contenuti la indicazione fornita da Corte cost., sent. n. 99 del 2017, va realizzata attraverso un esercizio motivazionale che verifichi in modo puntuale ed espresso se la omissione – pur aderente al paradigma della tipicità – non abbia alcuna attitudine offensiva in concreto, fermo restando che, visto che la verifica della concreta offensività della specifica condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali è sempre doverosa, da parte del giudice del merito, trattandosi del punto di equilibrio di una fattispecie incriminatrice che presenta, sin dalla sua introduzione, degli “indubbi profili di criticità” (cfr. Corte cost., sent. n. 81 del 2014), va da sé che l’offensività in concreto della omissione deve elevarsi a contenuto necessario e indefettibile della motivazione, che espliciti anche mediante un giudizio controfattuale l’attitudine offensiva della omissione astrattamente punibile, in quanto posta in essere da una persona ritenuta – per gli esiti giudiziari pregressi – portatrice di una “latente pericolosità”.
Ebbene, sulla base delle considerazioni sinora svolte, per la Cassazione, non è possibile individuare “categorie di atti” di rilevo patrimoniale “sottratti” in quanto tali all’ambito applicativo della disposizione incriminatrice, che il legislatore non ha voluto circoscrivere a specifiche tipologie posto che tale conclusione, oltre ad essere rispettosa del tenore letterale della disposizione, tiene conto della variabilità delle situazioni di fatto, che impediscono di impostare la risposta al quesito in termini “categoriali”.
Non vi è quindi dubbio, per la Corte di legittimità, che il fenomeno della successione ereditaria può atteggiarsi in forme giuridiche sensibilmente diverse e può avere ad oggetto compendi patrimoniali di diversa entità in ordine ai quali la verifica della assenza di condizionamenti – pregressi all’evento morte – sulla “composizione e derivazione” di quanto caduto in successione è doverosa anche per i riflessi sulla concreta offensività della condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulavano il seguente principio di diritto: “L’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto”.
4. Conclusioni: l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 sussiste nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria
La decisione in esame è di sicuro interesse in quanto, con essa, le Sezioni unite hanno risolto il seguente contrasto giurisprudenziale: “Se l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria”.
Come appena visto, difatti, si fornisce una risposta positiva a siffatto quesito sempreché, però, il giudice verifichi, con un’adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto.
Pertanto, per effetto di tale arresto giurisprudenza, l’obbligo di comunicazione, così come richiesto dall’art. 30, co. 1, legge n. 646 del 1982 – (ossia quello consistente nel comunicare – da parte di coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero per il delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione – per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14 fermo restando che analogo obbligo di comunicazione sussiste per questi medesimi soggetti, entro il 31 gennaio di ciascun anno, in merito alle variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14) – sussiste sì pure nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria ma, nel qual caso, il giudice deve accertare, fornendo una motivazione adeguata, se la condotta contestata sia concretamente idonea a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, secondo il principio di offensività in concreto.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta sorga un obbligo di questo genere in presenza di siffatta acquisizione.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, perché fa chiarezza su tale tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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