NULLITA’, INUTILIZZABILITA’, INAMMISSIBILITA’ DELLE PROVE PENALI

Redazione 06/12/00
Di G.Trovato

E’ ormai universalmente condivisa la ricostruzione dottrinaria secondo la quale l’attività probatoria, ossia il complesso degli atti attraverso cui il giudice acquisisce al processo i risultati di un’indagine, si svolge lungo varie fasi successive: quella della ricerca ed allegazione, ossia della richiesta di ammissione, che è di norma esclusivamente rimessa alle parti, tranne i limitati casi di ammissione di prove ex officio; quella della ammissione propriamente detta, ossia dell’emanazione del provvedimento del giudice che dispone l’introduzione del mezzo di prova o del mezzo di ricerca della prova nel dibattimento; quella della assunzione, termine con il quale si definisce la materiale attività di espletamento del mezzo, ed, infine, quella della valutazione, consistente nell’apprezzamento ad opera del giudicante del significato e degli effetti da attribuire a ciascuno di quelli.
Ancora vivamente controverso, invece, è il problema dell’individuazione delle conseguenze da far discendere dalla mancata osservanza, ad opera della parte, delle formalità di allegazione della prova che eventualmente siano prescritte dal codice. La questione è stata variamente risolta con riferimento all’interpretazione dell’articolo 468 c.p.p., ma merita di essere trattata in generale, posto che anche in altri articoli del codice di rito sono imposte regole all’attività probatoria delle parti (si pensi all’articolo 79, all’articolo 85 ed all’art. 89, in materia di facoltà di presentazione delle liste dei testimoni ad opera della parte civile, del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria; all’articolo 493, 1° e 2° comma ed all’articolo 495, 3° comma, in materia di ammissione delle prove all’apertura del dibattimento e nel corso dell’istruzione dibattimentale).
“Il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza all’ammissione delle prove”, recita l’art. 495 c.p.p., ed in tale decisione egli deve essere guidato, in primo luogo, dall’art. 190, e pertanto escludere le “prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”. Mentre il giudizio di superfluità attiene, come è intuibile, ad un momento successivo all’ammissione, in quanto solo ad istruzione probatoria già in parte espletata potrà ritenersi ormai acquisito un elemento di fatto e quindi sovrabbondante l’ulteriore prova sul punto(con possibilità per il giudice, allora, di far uso del potere di revoca sancito nello stesso articolo 190 e nell’art. 495 ultimo comma), il giudizio di rilevanza e quello di ammissibilità della prova necessariamente precedono quel momento e postulano una valutazione ex ante sia della astratta legittimità del mezzo di prova o del mezzo di ricerca della prova sia, poi, della conducenza alla decisione finale del risultato di essi. Ammissibilità in astratto e rilevanza sono quindi gli unici due parametri che devono guidare il giudicante nella delimitazione del thema probandum.
Quel che non sembra del tutto chiaro, appunto, è il senso e l’interpretazione da dare al concetto di inammissibilità della prova e, quindi, il ruolo che al giudice deve essere riconosciuto in questa fase.

La giurisprudenza di legittimità pressoché unanime, infatti, ritiene che l’inammissibilità discenda anche dalla mancata osservanza delle formalità o dei termini di allegazione e, comunque, sia sempre prescritta a pena di inutilizzabilità della prova in concreto eventualmente raccolta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio dal giudice, in ogni fase del processo[1].
Proprio quest’ultima sembra però affermazione poco rispondente allo spirito del nuovo codice, almeno a fronte delle forme meno rilevanti di irregolarità, quali possono essere il mancato rispetto del termine , e non solo l’allargamento del tema di prova ad ambiti non esplicitati nella fase della allegazione.

Per giustificare siffatta conclusione, occorre prendere le mosse dalla trattazione delle categorie generali di invalidità degli atti e delle prove. E quindi dall’articolo 606, lettera c) del codice di procedura penale, il quale consente il ricorso per cassazione in ogni caso si violazione di norme stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza.

Il codice di rito, invero, prevede solo per gli atti processuali delle forme di nullità, che possono accademicamente ricondursi alle patologie generali della nullità e dell’annullabilità dell’atto giuridico.
Gli articoli 178 e 179 definiscono generali ed assolute le nullità afferenti alla capacità ed alla regolare composizione del giudice, quelle relative all’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero, quelle derivanti dalla omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del difensore di lui nei casi in cui la presenza ne sia obbligatoria, nonché le altre espressamente indicate come tali in specifiche disposizioni di legge. Esse sono insanabili e rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Generali, ma non assolute sono le rimanenti nullità elencate nell’art. 178, e consistenti nella omessa citazione della parte offesa e nei casi meno gravi di difetto di rappresentanza, assistenza od intervento dell’imputato. In tal caso la nullità è rilevabile anche d’ufficio, ma entro termini categorici, che si identificano nella pronuncia della sentenza di primo grado, se si tratta di nullità verificatesi durante le indagini preliminari, ovvero nella sentenza di grado successivo, se avvenute nel corso del processo. Inoltre le nullità generali non assolute non possono essere eccepite da chi non vi abbia interesse (es: l’imputato non ha interesse a far valere la nullità derivante dall’omessa citazione della parte offesa) o da chi abbia concorso a darvi causa.
Sono invece relative, secondo gli articoli 181 e 182,, tutte le altre nullità eventualmente comminate dalla legge (stante il principio della tassatività delle nullità) che non rientrino nei tipi fin qui elencati. Esse possono quindi essere rilevate solo dalla parte che ne abbia interesse e che non vi abbia dato causa, che non abbia rinunciato alla relativa eccezione e che non abbia accettato gli effetti dell’atto (art.182). I termini per il rilievo della nullità sono in tal caso ancor più rigorosi, dovendo la parte attivarsi prima che l’atto sia compiuto, o immediatamente dopo il compimento di esso e, comunque, non oltre il termine dell’udienza preliminare, o, ove questa manchi, delle formalità preliminari all’apertura del dibattimento, o, infine, della sentenza che definisce il grado del processo in cui la nullità si è verificata (art. 181).
Non è difficile intravedere in questa disciplina un richiamo alla teoria generale dell’atto giuridico ed alle tipiche forme di invalidità di esso che si denominano nullità ed annullabilità. Dell’atto giuridico, d’altronde, l’atto processuale non è che una specie. La nullità, insanabile e rilevabile da chiunque ne abbia interesse, deriva dalla mancanza nell’atto dei requisiti essenziali cui esso deve rispondere o dalla contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; l’annullabilità discende invece dall’inosservanza di norme che, benché improntate ad un interesse generale, più che altro mirano ad apprestare tutela ad uno dei soggetti del rapporto giuridico, onde solo da questo può essere eccepita, ed in un termine di prescrizione relativamente breve.
Di mera irregolarità deve infine parlarsi a fronte di difetti meno rilevanti, per i quali non è espressamente prevista una invalidità[2].
Passando ad esaminare la disciplina del procedimento di acquisizione della prova, va posto l’accento sul fatto che il codice utilizza raramente, con riferimento al momento della richiesta, a quello della ammissione ed a quello della valutazione della prova le sanzioni della nullità assoluta o relativa (si vedano, nel primo senso, le disposizioni degli articoli 364 e 179, sull’assistenza del difensore, nel secondo, gli artt. 198, sull’avviso della facoltà di non deporre ai prossimi congiunti dell’imputato; gli articoli 213 e 214, sulle formalità della ricognizione; l’art. 222 sulle incapacità ed incompatibilità del perito) ed assai più invece quelli della inammissibilità o della inutilizzabilità.

Quest’ultima, preceduta da qualche annuncio che era contenuto già nel codice abrogato ed in alcune leggi speciali che quello novellarono (v. art. 466 bis, introdotto con la legge 17/2/87 n° 29 ed oggi trasfuso nell’art. 511), è anzi categoria generale che esclusivamente per le prove è stata coniata e nel codice vigente espressamente disciplinata. L’art. 526, infatti, stabilisce in generale che il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione esclusivamente le prove legittimamente acquisite nel corso del dibattimento. L’art. 191, a sua volta, ribadisce che non possono essere utilizzate le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. L’inutilizzabilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
Appare evidente, allora, che la sanzione dell’impossibilità di utilizzazione è destinata ad operare in un momento successivo all’ammissione ed all’eventuale assunzione della prova: nel momento cioè della valutazione del materiale raccolto durante l’istruzione dibattimentale e della deliberazione della sentenza. In una parola, il giudice deve escludere dal materiale probatorio utilizzabile per la decisione quelle prove che per avventura siano state introdotte nel dibattimento non ostante uno specifico divieto in tal senso. Gli esempi possono essere numerosissimi, poiché ogni mezzo di prova ed ogni mezzo di ricerca della prova è stato capillarmente disciplinato in modo da garantirne la aderenza al modello del giusto processo. Vengono in mente, fra i più frequenti, il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato, di cui all’art. 63; il divieto di utilizzare la testimonianza indiretta nel caso in cui una delle parti abbia chiesto la citazione del teste diretto, o nel caso in cui il teste de relato non indichi la sua fonte (art.195); il divieto di testimoniare esteso a coimputati ed imputati in processo connesso (art. 197); il divieto di perizie sulla personalità dell’imputato, non dipendente da cause patologiche, di cui all’art. 220; il divieto di utilizzazione delle informazioni assunte dal perito presso le parti ed i terzi (art. 228); il divieto di acquisire documenti sulla moralità delle parti, dei testi o dei periti (art.234); i divieti di utilizzazione delle intercettazioni telefoniche, posti dagli articoli 270 e 271. In generale, il divieto di consentire metodiche che influiscano sulla libertà di autodeterminazione e di giudizio, di cui all’art. 188, e del quale sono espressione i divieti di domande suggestive o implicanti responsabilità penale del testimone o che comunque possano nuocere alla sincerità della risposta.
In dottrina si è detto che l’inutilizzabilità si traduce in vizio di motivazione della sentenza[3].
Anche la giurisprudenza distingue la nullità dall’inutilizzabilità della prova, affermando essere la prima dipendente dall’inosservanza di alcune formalità dell’assunzione, che non ne escludono tuttavia la sanatoria o, al limite, la rinnovazione, la seconda, viceversa, consistere in una intrinseca illegittimità dell’atto, perché posto al di fuori, con espresso divieto di legge, dal sistema probatorio[4] e quindi insuscettibile di rinnovazione.
A ben guardare, tuttavia, prove siffatte non dovrebbero in astratto nemmeno entrare a far parte del materiale probatorio: proprio perché compito primario del giudice è quello di ammettere esclusivamente le prove che non siano vietate dalla legge e che appaiano rilevanti. Così si comprende che l’inammissibilità, eventualmente non rilevata, si traduca, in questi casi, necessariamente in inutilizzabilità della prova.
Ma non sempre ciò deve avvenire. Non quando la prova non sia, in sé, vietata.

Quella della inammissibilità, infatti è categoria composita, che non attiene, a differenza dell’inutilizzabilità, esclusivamente ai principi generali della prova. L’inammissibilità sembra sanzione più che altro riservata ai negozi giuridici processuali, ossia alle dichiarazioni di volontà che ciascuna delle parti può essere chiamata a fare nel corso di un processo, con possibilità di determinare conseguenze nello svolgersi di esso. Oltre che alla introduzione di una attività istruttoria, esse dichiarazioni mirano di norma alla apertura di una fase eventuale o accessoria del rapporto processuale principale [5].
Di inammissibilità parla infatti il codice con riferimento, appunto, alla domanda probatoria, ma, soprattutto, alle impugnazioni; agli incidenti di esecuzione (art. 666); alla costituzione della parte civile, del responsabile civile e del civilmente obbligato; all’intervento degli enti esponenziali di interessi lesi dal reato, nonché in altre disparate disposizioni, quali quelle sulle richieste di restituzione nei termini, di riparazione per l’ingiusta detenzione o per l’ingiusta condanna, tutte da proporsi entro termini prefissi.
Le patologie del negozio che possono generare inammissibilità non sono testualmente enucleate in via generale, ma possono agevolmente trarsi dal complesso delle disposizioni che la contemplano: si tratta, di norma, dell’illegittimità derivante dalla mancata previsione normativa di quel tipo di atto; del difetto, in capo all’autore della dichiarazione, della legittimazione attiva a renderla o dell’interesse ad ottenere il provvedimento richiesto; del mancato ossequio a formalità e termini che la legge abbia posto all’esercizio del relativo potere[6]. Categorie generali queste che si rinvengono, d’altronde, nell’articolo 591, relativo all’inammissibilità delle impugnazioni.
Proprio l’articolo 591, al quarto comma, offre il più significativo appiglio all’interpretazione da cui si è presi le mosse, poiché esso stabilisce che l’inammissibilità, quando non sia stata prima rilevata, anche d’ufficio, può essere dichiarata in ogni stato e grado del processo[7].
Ma questa norma, che evidentemente si riferisce all’inammissibilità di una impugnazione, non può essere ritenuta estensibile analogicamente a tutte le categorie di inammissibilità, soprattutto alle inammissibilità probatorie.
Non v’è dubbio che l’inammissibilità sia insanabile e debba essere ritenuta rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo quando essa derivi dall’inesistenza in diritto di quel tipo di atto ovvero dalla insussistenza, in capo a chi lo compie, della relativa legittimazione o del relativo interesse. In casi siffatti l’impossibilità di una pronuncia nel merito della richiesta discende dall’applicazione dei principi generali in tema di condizioni della domanda, la cui ricorrenza deve essere controllata dal giudice anche in difetto di eccezione di parte. Si comprende così che sia rimessa al rilievo officioso l’esclusione della parte civile qualora non sussistano “i requisiti per la costituzione” (articolo 81 c.p.p.), i quali essenzialmente devono ritenersi individuati, dall’articolo 74, nella titolarità del diritto danneggiato dal reato, o nella successione universale in esso diritto, legittimante la costituzione. Che altrettanto accada per il responsabile civile (articoli 87 ed 83) ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria (articolo 89). Che si possa de plano dal giudice dichiarare l’inammissibilità dell’opposizione al decreto penale, se proposta da persona non legittimata (art. 461). Si comprende, ancora, che sia possibile pronunciare in fase predibattimentale ed in camera di consiglio, quindi con un contraddittorio attenuato o addirittura assente, l’inammissibilità delle impugnazioni avverso provvedimenti non soggetti a gravame o a qual tipo di gravame o a gravame per il tipo di motivi dedotti dalla parte (articoli 591, 593, 606, 629, 630 e 631 c.p.p.), ovvero da soggetti che non siano titolari del relativo potere (articoli 593, 607 e 608, 632). Che trattamento del genere sia riservato agli incidenti di esecuzione (art. 666, 2° comma c.p.p.: “…per difetto delle condizioni di legge…”) ed, in genere a tutti gli affari da trattarsi in camera di consiglio (articolo 127). Invero questi casi sottendono un’unica ragione di invalidità della domanda, ossia la contrarietà di essa a norme imperative o, comunque, all’ordine pubblico che si identifica, nella specie, anche con l’ordinato svolgersi del processo.
A questo stesso ordine ed alla necessità di assicurare all’attività giurisdizionale un andamento sufficientemente celere, si deve ricondurre la previsione dei termini processuali e, per alcuni di essi che peraltro devono essere tassativamente indicati (V. articolo 173, 1° comma c.p.p.), la sanzione, in caso di inosservanza, della decadenza. Si comprende bene, pertanto, che anche il mancato rispetto di termini espressamente posti a presidio di quell’esigenza, ancorché non testualmente definiti come termini di decadenza, possa essere rilevato d’ufficio dal giudice e portare ad una pronuncia di inammissibilità. Ciò vale, per esempio, con riferimento al termine per la costituzione della parte civile[8] o per l’intervento del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria ( artt. 79 ed 81; 85,2° comma ed 87; 89 c.p.p.). Ai termini per l’opposizione a decreto penale (questo pur non prescritto a pena di decadenza) o per le impugnazioni delle sentenze (artt. 585 e 591 lett.C) e dei provvedimenti in materia di misure cautelari (artt.309, 310 e 311; 324 e 325 c.p.p., che anch’essi non prevedono sanzione di decadenza).
Per ragioni analoghe deve ritenersi che siano prescritti a pena di inammissibilità i termini fissati alle parti per l’introduzione di un rito alternativo a quello ordinario, non ostante negli articoli del codice che li prevedono non si parli mai di decadenza o di qualsivoglia sanzione in casi di inosservanza ( v. artt. 439 e 440 per il giudizio abbreviato; 446 e 448 per il “patteggiamento della pena”; 449 e 452 per il giudizio direttissimo, 453 e 455 per il giudizio immediato; 459 per il procedimento per decreto). Si tratta in tutti i casi predetti di modi di definizione del processo che non potrebbero essere attivati dopo la scadenza di essi termini, senza snaturarne l’essenza, senza alterare l’equilibrio fra le parti e senza determinare un inutile dispendio di attività giudiziaria, onde il rilievo della relativa violazione deve essere consentito al giudice indipendentemente da una eventuale acquiescenza della parte avversaria: si pensi all’eventualità che il giudizio abbreviato o il patteggiamento della pena venissero concordati fra le parti nel corso o, addirittura, a conclusione dell’istruttoria dibattimentale ed a seguito dell’incerto risultato di essa. Anche i casi siffatti, ancorché manchi del tutto una espressa previsione in tal senso, il rispetto dei termini deve ritenersi rispondente all’ordine pubblico processuale ed una eventuale pronuncia del giudice che quella inammissibilità non rilevasse dovrebbe essere definita assolutamente ed insanabilmente nulla[9].
Soluzione affatto opposta merita invece il caso del mancato rispetto delle norme che regolano la allegazione probatoria ed, in particolare, il mancato rispetto delle formalità previste dagli articoli 79, 468 e 493.

In dottrina, a contrastare la prevalente opinione della insanabilità e della rilevabilità d’ufficio anche di questo tipo di inammissibilità-inutilizzabilità[10], si sono fatte strada due teorie analoghe: secondo alcuni, la inammissibilità della prova non è mai rilevabile d’ufficio dal giudice[11]; per altri, il rilievo da parte del giudice sarebbe precluso solo da un espresso accordo delle parti [12].
La prima delle due soluzione sembra quella più in linea al nuovo rito penale.
Quello della raccolta delle prove non è un momento eventuale od accessorio[13], ma, al contrario, quello centrale del processo e, nel moderno modello accusatorio, essenzialmente rimesso all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, che devono condurre il giudice ad una pronuncia conclusiva seguendo le regole di una giustizia che alcuni hanno definito “sportiva”. In questo ambito il giudice ha il ruolo di mero arbitro della regolarità della contesa, salvi i poteri di integrazione della prova che anche la Corte Costituzionale gli ha riconosciuti, a conclusione dell’istruttoria, al fine di giungere ad una decisione che sia il più possibile rispondente alla verità reale.
Le regole relative al modo di deduzione della prova, si vuol dire, non sono di ordine pubblico processuale, ma essenzialmente volte alla tutela della parte contraria, cui si deve assicurare una facoltà di contrasto almeno pari a quella del soggetto che avanza la richiesta. Sia quelle dell’art. 79, sia quelle degli artt. 468 e 493 sono prescrizioni che mirano ad attuare una compiuta e tempestiva rivelazione della propria strategia processuale (la famigerata “discovery” anglosassone) e di mettere al sicuro la controparte da colpi di scena clamorosi a bocce in movimento. Onde la eventuale violazione di tali norme non mette mai il giudice davanti ad una attività probatoria in sé impossibile, ma solo comprime i diritti di controprova. Non v’è quindi ragione per affermare che l’inammissibilità, pure prescritta come sanzione in casi del genere, debba essere rilevabile d’ufficio dal giudice ed anche insanabile , ben potendosi ritenere, al contrario, che essa possa essere eccepita solo dalla parte nel cui interesse essa è posta e quindi sanata dal mancato rilievo o dall’acquiescenza.
Si viene così a delineare, anche nel campo della inammissibilità probatoria, quella differenziazione fra invalidità più e meno grave, che abbiamo visto essere la ragione della distinzione fra nullità ed annullabilità nella teoria generale dell’atto giuridico. In definitiva, sarebbe assai agevole pervenire alla soluzione della questione che in origine si era posta semplicemente ammettendo che anche nell’ambito della inammissibilità sia possibile distinguere una inammissibilità assoluta da una semplicemente relativa.
La distinzione fra inammissibilità assoluta ed inammissibilità relativa può trovare riscontro e concreta applicazione anche con riferimento ad altre disposizioni che stabiliscono questa sanzione come conseguenza della violazione di date forme.
A proposito della costituzione di parte civile, per esempio, nessun dubbio può nutrirsi, come si è anticipato, che il giudice debba rilevare d’ufficio la insussistenza delle condizioni legittimanti l’intervento di questa parte eventuale del processo, o la avvenuta decadenza per il mancato rispetto del termine finale di cui all’art 79. Ma ritenere che sia rimessa alla iniziativa del giudice la esclusione ex articolo 81 c.p.p., in difetto di apposita eccezione delle parti contrarie, anche nell’ipotesi di semplici difetti delle formalità di cui all’art. 78, pure esse previste a pena di inammissibilità, implicherebbe la adozione di un sistema assai più rigoroso di quello che il codice di rito civile prevede per la nullità della citazione. L’articolo 164 c.p.c., infatti prescrive la necessità dell’eccezione di parte, salvo il caso di contumacia del convenuto, per vizi, quali l’omessa o imprecisa indicazione dell’attore o del convenuto o della persona giuridica che si costituisce, che hanno il loro preciso richiamo nell’art. 78 c.p.p. (lettera a e lettera b). E la costituzione del convenuto, non accompagnata dal relativo, tempestivo rilievo, sana persino l’inosservanza del termine a comparire.
Il termine per l’intervento degli enti o delle associazioni che intendano esercitare i diritti di persona offesa è espressamente detto di ammissibilità dall’art. 94 c.p.p. Ma esso non è anche definito termine di decadenza, né può ritenersi che il rispetto di esso risponda a criteri di ordine pubblico processuale, in quanto lo svolgersi del processo non sarebbe turbato o vanificato da un intervento tardivo. Anche in tal caso l’eventuale inammissibilità deve essere dichiarata solo su eccezione della controparte.

Che quella proposta sia la soluzione meglio vista anche nel complesso delle disposizioni del codice che regolano la istruzione probatoria si ricava proprio dalla lettura dell’art. 495, ultimo comma. Dopo aver fissato nella conclusione della esposizione introduttiva delle parti il momento in cui il giudice deve emettere il suo provvedimento sulla ammissibilità delle prove da quelle richieste, si stabilisce infatti, con regola di carattere generale, che “Nel corso dell’istruzione dibattimentale, il giudice decide con ordinanza sulle eccezioni proposte dalle parti in ordine alla ammissibilità delle prove”. Una norma siffatta è del tutto ultronea ove si ritenga che il termine di cui all’art. 495, 1°comma, sia perentorio e che il giudice possa d’ufficio pronunciare l’inammissibilità di una richiesta di prova intervenuta successivamente allo scadere di esso.
Proprio il riferimento espresso alla “eccezione della parte” dimostra, al contrario, che in assenza di essa opposizione, il termine possa essere superato dall’accordo delle parti e che il giudice, in tal caso, non possa rigettare la richiesta comune che per irrilevanza o superfluità della stessa.

Guglielmo TROVATO
magistrato

[1] Vedi Cass. sez.III,25/5/92 n° 6298; ma anche, con esclusivo riferimento al deposito fuori termine delle liste dei testimoni, Cass. sez. VI, 13/12/96 n° 1332; Cass.sez. VI, 7/4/94, n° 4607; Cass. sez. III, 30/11/92, n° 11530.
[2] vedi Leone, Trattato di diritto proc. pen. Vol. I, Napoli 1961, pag. 684.
[3] Cordero, Codice Proc. Pen. Commentato, Torino 1989, 684.
[4]Vedi Cass. Sez. III, 24/9 – 17/10/97 n° 9390, Consani; Cass. Sez. V, 20/5 – 10/11/97 n° 10046, D’Ambrosio.
[5] Vedi Peyron, voce Invalidità (Dir.proc.penale), in Enc.Diritto, vol.XXII , pag 619 e bibliografia ivi citata. G.Galli, l’Inammissibilità dell’atto proc. pen., Milano 1968, pagg.107 e ss.
[6] Delogu, Contributo alla teoria dell’inammissibilità nel dir. proc. pen., Milano 1938, pag. 22.
7V. Fortuna Ennio, in Manuale Pratico del Nuovo Processo penale, Padova 1990, pag. 308: “…non essendo ammessa alcuna forma di sanatoria (sotto tale profilo valendo il regime delle nullità assolute)”.
Cordero, Procedura penale, Milano 1991, pagg. 977 e ss.
8 V. Cass. IV, 29/4/69 n°1350.
9 F.De Priamo, voce “Inammissibilità” in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol.VI, Torino 1992,pag.300.
10 F.Peroni, Sull’onere di allegazione di cui all’art. 468 comma 1 c.p.p., in Cassazione Penale 1993, V, pag.1154.
11Vedi D.Potetti, Vicende del diritto alla prova nella fase del giudizio, in Cass. Pen. 1994, pag.1399; G.Chelazzi, Disciplina processuale e poteri del giudice del dibattimento, in Arch.nuova proc.pen. 1990, pag. 290. G.De Roberto, Prime riflessioni sull’assunzione della prova in sede dibattimentale, in Giur. Merito 1992, pag. 165.
12A.Bassi, Le parti e la disponibilità del diritto all’iniziativa probatoria, in Cass.Penale 1993, fasc.II. pag.
13 Galli, op. cit., pagg. 205 e ss., propone di ritenere sanabili solo le inammissibilità relative ad atti introduttivi di procedimenti ininfluenti sull’esistenza del rapporto principale.

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