Note interpretative e di commento al d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti pubblici)

Scarica PDF Stampa
Sull’iter procedurale che ha portato all’approvazione del Codice si rinvia alla letteratura esistente, non essendo argomento rilevante ai fini del lavoro in oggetto.
Come stabilito e disciplinato dal recente d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, il Codice dei contratti pubblici, appalti e forniture, gli “appalti pubblici di forniture” sono appalti differenti da quelli di lavori o di servizi. Per delinearne il concetto terminologico e contenutistico, essi hanno per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l’acquisto a riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, di prodotti. E con la presente definizione si evidenzia la parola chiave, i prodotti, che circoscrive l’ambito di analisi; infatti, si devono osservare le regole procedurali e le concrete applicazioni del Codice in funzione del suo Regolamento, al fine di concentrare il lavoro sulle possibili e preferibili scelte dell’operatore pubblico quando si tratta di “prodotti”.
Gli economisti, di certo non estranei all’interesse che la materia offre sotto i più diversi profili, sono portati per loro formazione professionale e impostazione culturale a semplificare il concetto, esprimendo il meccanismo dei contratti di forniture come un sistema di acquisizione attraverso il “costo-opportunità[1].
Per affrontare i nuovi meccanismi introdotti dal Codice e dalle successive modificazioni e sentenze della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato, è utile fare alcune premesse.
La l. n. 62/2005 (legge comunitaria 2004) aveva delegato il governo a recepire le nuove direttive comunitarie sugli appalti 2004/18 e 2004/17, imponendo la raccolta in un testo unico sia la disciplina degli appalti e concessioni a rilevanza comunitaria, sia degli appalti e concessioni sotto la soglia. Tutto ciò nel rispetto dei principi di semplificazione, abbreviazione dei tempi, maggior flessibilità degli strumenti giuridici per far giungere il più possibile a buon fine l’azione della pubblica amministrazione. L’opera di riassetto normativo, realizzata dalla Commissione De Lise che ridisegna il Codice dei contratti pubblici, è senza dubbio imponente e complessa, perché si pone l’esigenza di “allineare” il diritto interno a quello comunitario e alla più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Le principali innovazioni hanno riguardato tutti i comparti, in particolar modo quelli relativi ai lavori dove il legislatore italiano si era discostato troppo dal diritto comunitario (la trattativa privata, i criteri di aggiudicazione, le offerte anomale,…). Sono stati recepiti dall’Europa nuovi strumenti negoziali come l’accordo quadro, il dialogo competitivo, la centrale di committenza, l’asta elettronica. Senza dubbio, il dover essere puntuali nel disciplinare una materia di questa vastità ha comportato alcune criticità applicative, che in alcuni casi hanno dato luogo a “disposizioni sospese” in attesa di orientamenti comunitari e giurisprudenziali più chiari. Il tentativo di razionalizzare e armonizzare la legge nazionale con quella comunitaria non fa bene i conti con le difficoltà di attuazione pratica. Ma la preoccupazione maggiore, condivisa da molti, è che la tecnicità e complessità giuridica dell’intera disciplina deve coniugarsi con una non completa preparazione da parte dei soggetti interessati direttamente, in particolar modo delle stazioni appaltanti. Le maggiori difficoltà interpretative non sembra possano attribuirsi all’introduzione di novità; infatti, l’ente che vuole utilizzare una nuova procedura si predispone abitualmente al suo studio. Sono, invece, gli adempimenti endoprocedimentali, soprattutto nell’ambito delle forniture e dei servizi. Vi è da aggiungere che la fase temporale che predispone il regolamento attuativo del Codice è caratterizzata da incertezze sospensive, laddove non vi siano disposizioni “autoapplicative”, cioè quelle che hanno subito efficacia cogente, generando un certo disorientamento negli operatori locali. Un punto sembra fermo, cioè quello di aver affermato dalle più autorevoli fonti giurisprudenziali e dalla stessa Autorità di vigilanza che le disposizioni del diritto comunitario hanno una netta prevalenza ed applicabilità rispetto alle contrarie disposizioni interne. Questo sembra essere già un suggerimento non equivoco per coloro che si trovano ad operare nel campo dei ll.pp.. Anche se vi fosse il tentativo di interventi normativi ad hoc, il principio resta questo. Ogni disposizione correttiva che non vada in tal senso non si applica, evitando così l’apertura di altre procedure d’infrazione comunitaria nei confronti dello Stato italiano. Ma se si vuole essere pratici, sotto un profilo esclusivamente operativo, le modifiche del Codice apparirebbero prive di “causa”, mutuando un concetto del diritto civile. Infatti, non si trova alcuna disposizione del Codice che impedisca espressamente di gestire la gara di lavori come prima; nulla vieta di continuare a fare progetti esecutivi, di aggiudicare al minor prezzo, di non ricorrere alla trattativa privata,…. Anche per quanto riguarda le disposizioni di tipo organizzativo del Codice (artt. 9 -12), vi è anche da considerare il fatto che vi sarà sempre in misura maggiore uno “scorrimento” a favore delle regioni, nella logica della specificità degli ordinamenti, se non in quella più forte del federalismo amministrativo e fiscale (applicabilità concreta dell’art. 119 Cost.).
Per evitare aggravamenti procedurali, sarebbe meglio affidare alla discrezionalità della stazione appaltante il controllo preventivo a campione dei requisiti speciali (art. 48), che impone di effettuare doppie o addirittura triple sedute di gara.
Si deve eliminare anche l’audizione personale del concorrente in sede di verifica dell’offerta anomala (art. 88), chiaramente inopportuna e priva negli effetti pratici di riscontro, in seduta non pubblica tra appaltante e impresa in cui l’oggetto è l’assegnazione o meno dell’appalto. Questa procedura è stata argomentata dalla giurisprudenza amministrativa, sostenendo a favore che la normativa “impone espressamente che l’esclusione dalla gara di un’offerta sospetta di anomalia possa avvenire solo all’esito di una procedura di verifica dell’offerta stessa da effettuare in contraddittorio, ai sensi dell’art. 30, n. 4, della direttiva CEE 93/37/CEE del 14 giugno 1993, senza prevedere in alcun modo che il procedimento in contraddittorio presupponga anche l’audizione della ditta la cui offerta è stata sospettata di anomalia” (Cons. St., sez. IV, n. 5013/2004).
La Corte di Giustizia, infatti, ha stabilito alcuni principi sulla legittimità del procedimento di verifica. In primis ha giudicato inammissibile l’esclusione automatica dalla gara chi fa un’offerta superiore alla soglia dell’anomalia; ha stabilito, inoltre, la necessità che l’impresa possieda la capacità di fornire tutti i chiarimenti che giustificano l’offerta, valutabili dalla stazione appaltante.
La versione attuale del Codice non disciplina gli affidamenti in house, probabilmente a parere di chi scrive perché non si è raggiunto un orientamento condiviso anche in sede politica e non solo giuridica[2]. La procedura in house ha tenuto conto dei vuoti più recenti della normativa comunitaria, consentendo di sottrarsi all’“evidenza pubblica” solo se, in aggiunta alla totale partecipazione pubblica, la società realizzasse la propria attività esclusivamente con le amministrazioni aggiudicatici. L’esigenza di semplificare al fine di raggiungere risultati in tempi ragionevoli è stata ripresa dal d.l. n. 223/2006 “Bersani”, all’art. 13. Infatti, esso contiene norme restrittive circa la possibilità delle società in mano pubblica di svolgere attività estranee alle ragioni del proprio possesso pubblico, cioè si potrebbe dire che sono vietate le attività “extraterritoriali”.
Un’altra chiarificazione per gli operatori sta nel fatto che il Codice, all’art. 53, mantiene il divieto nei lavori pubblici di in house construction; ciò significa il divieto di un obbligo di esternalizzazione. In realtà qesto principio era stato già previsto dalla legge Merloni, pur con alcune disposizioni che per la loro equivocità hanno consentito ipotesi giurisprudenziali non chiare, come l’affidamento di lavori a società mista (art. 32, comma 3). A questo punto si aprirebbe la lunga disquisizione riguardante “la prescrizione di esclusività delle due tipologie di appalto e concessione, di cui ampi sono i riferimenti della dottrina e giurisprudenza. Al fine di semplificare il ragionamento, da un lato viene fatto salvo il contratto di sponsorizzazione e l’esecuzione dei lavori in amministrazione diretta; dall’altro lato si pone un punto fermo sull’idoneità ad acquisire opere pubbliche mediante vendita o locazione di cosa futura, o leasing immobiliare[3].
Ne consegue che, in sintesi, le nuove “ricette” da consigliare agli operatori delle amministrazioni locali indicano che la scelta tra le ipotesi di appalto (di sola esecuzione, di esecuzione e progettazione esecutiva, di esecuzione e progettazione esecutiva e definitiva) è lasciata alle valutazioni motivate delle amministrazioni aggiudicatici, “sotto la loro responsabilità”. Rimane pertanto esclusa la possibilità di affidare al contraente prescelto, con l’appalto di lavori o la concessione di lavori, anche la progettazione preliminare. Sono quindi “scomparse” le ipotesi c.d. tassative e predeterminate dalla legge in cui la progettazione poteva essere affidata insieme all’esecuzione dei lavori.
Il particolare periodo economico-finanziario italiano si riflette con insistenza sui profili di economicità degli affidamenti. All’art. 2, comma 2, si nota, però, il riferimento a criteri sociali ed ambientali che temperano il principio ormai consolidato dell’economicità[4] (l’art. 6 affida espressamente all’Autorità di vigilanza il compito di assicurare l’economicità dei contratti pubblici).
Come tutti i codici, anche quello in esame presuppone l’emanazione di un regolamento di esecuzione (art. 5); intanto restano in vigore i regolamenti vigenti, con il risultato ovvio di paralizzare le procedure, soprattutto a discapito del Ministero delle infrastrutture. A questo proposito, è utile ricordare la revisione del d.p.r. 554/1999, che recepisce in un unico testo le direttive comunitarie 17/2004 sugli appalti e concessioni di lavori, servizi e forniture nei settori speciali, e 18/2004 sulla disciplina unitaria degli appalti e concessioni di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari.
Il Codice riscrive, inoltre, tutta la materia degli appalti, lasciando a parere delle regioni impregiudicato il riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni (art. 117 Cost.). Le regioni hanno formulato forti critiche al Codice, e sono emersi alcuni importanti rilievi nella Conferenza unificata del 9 febbraio 2006.
In primo luogo, è evidente la “compressione” della potestà legislativa regionale sulla regolamentazione degli appalti e il recepimento di direttive comunitarie in materia. La risposta dello Stato è stata di dover riconoscere allo Stato sua la responsabilità nei confronti delle istituzioni europee circa l’attuazione del diritto comunitario.
In secondo luogo, le regioni lamentano una restrizione anche della delega legislativa, ritenendo che l’opera di riordino del settore giustificherebbe invece una sua estensione a favore delle regioni.
In terzo luogo, nelle more del recepimento delle direttive comunitarie, vi era il problema di individuare quelle norme contenute nelle direttive che dovevano essere considerate immediatamente cogenti, avendo carattere auto-applicativo; quindi anche a beneficio delle regioni stesse che avevano un loro ruolo ed esprimevano, secondo lo spirito della legge “Merloni”, un principio di “effettività”.
Ma se si vuole avere un segnale non equivoco sui rilievi sollevati dalla regioni, è sufficiente l’attenta analisi dell’art. 5, comma 1, del Codice. Pertanto, quando le regioni lamentano di non aver potuto avviare un percorso condiviso e concertato con lo Stato in materia di appalti, cercando di avvalersi anche degli orientamenti della Corte Costituzionale ad esse favorevoli, sottovalutano che in quell’articolo la volontà del legislatore statale è chiara. La legge, infatti, demanda ad apposito regolamento la disciplina esecutiva ed attuativa del Codice, nelle “materie di competenza legislativa statale esclusiva”. Tali materie sono indicate proprio nell’art. 5, comma 4. Secondo questa impostazione, tutte le materie destinate ad essere regolate nel dettaglio dal regolamento sarebbero perciò stesso di potestà legislativa esclusiva dello Stato; d’altronde è l’art. 117, comma 6 Cost., che circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza esclusiva.
E’ evidente che, sulla base del ragionamento esposto, ciò preclude alle regioni, che non abbiano ancora legiferato in materia di lavori pubblici, la possibilità di legiferare su argomenti che pur rientrerebbero nella potestà legislativa regionale (es. la programmazione, il responsabile del procedimento, le fasi di progettazione, direzione lavori, collaudo,…). Quindi, si dovrebbe desumere che l’art. 5, comma 1, del Codice sia lesivo delle competenze legislative regionali in relazione ai numerosi aspetti dei lavori pubblici, e non solo, per i quali si fa rinvio al regolamento di attuazione e per i quali si ritiene che non rientrino nella potestà legislativa esclusiva dello Stato[5]. Quindi, i contratti della p.a., i pubblici lavori, servizi o forniture non hanno un inquadramento agevole. Da un lato la disciplina, come si è visto, ha carattere trasversale e rientra per molti aspetti in altre materie dell’art. 117 Cost. ed attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato o alla legislazione concorrente Stato-regioni; sotto un altro profilo, si deve distinguere tra i contratti stipulati da amministrazioni o enti statali e i contratti di interesse regionale.
Se è chiaro che lo Stato è titolare di potestà legislativa esclusiva, con riguardo ai pubblici lavori, forniture e servizi “statali”, resta da definire l’ambito di competenza statale in relazione ad alcune materie nominate nell’art. 117, comma 2, Cost., cioè “tutela della concorrenza”, “ordinamento civile”, “giurisdizione e norme processuali” e “giustizia amministrativa” (Corte Cost. n. 14 e n. 272 del 2004 e n. 29 del 2006 a cui si rinvia per tutti quegli aspetti interpretativi, applicativi e discrezionali che sono funzionali alle scelte da operare sul campo da parte della pubblica amministrazione).
 
 


[1] In realtà, si tratta del valore dei beni o dei servizi a cui un individuo (soggetto privato o pubblico come in questo caso) rinuncia quando opera una scelta tra diverse alternative. Il ricorso al concetto di costo opportunità si rende necessario ogni qualvolta non sia possibile una quantificazione monetaria di particolari beni e servizi (da tener presente nel valutare l’utilità marginale di un certo servizio pubblico, quando si vuole garantirne o meno la fruibilità). Ciò accade in concreto nell’analisi costi-benefici dei progetti di pubblica utilità, che è un requisito essenziale nella programmazione e progettualità dei servizi pubblici.
[2] La norma riportava la disciplina dei c.d. affidamenti “in house providing”, generalizzando il principio stabilito dalla nota sentenza Teckal s.r.l., che ha fornito un contributo decisivo per la definizione di questo meccanismo. I limiti più evidenti stanno nell’individuazione di due criteri cumulativi, la cui coesistenza consente di sottrarre alle procedure di aggiudicazione prevista per gli appalti pubblici tutti i rapporti che intercorrono tra un’amministrazione pubblica ed un ente soggetto all’influenza dominante di quest’ultima.
[3] In casi eccezionali viene riconosciuto dalla giurisprudenza un residuo spazio per la vendita di cosa futura, come fattispecie contrattuale diversa dall’appalto, classificazione voluta dal codice civile per quanto riguarda i contratti “tipici”. In particolare, si riconosce questo spazio nei soli casi in cui vi sia la necessità di rivolgersi ad un esecutore determinato, perché il bene da acquistare è infungibile per le sue caratteristiche, cioè un bene unico nel suo genere (Cons. St., ad. gen., 17 febbraio 2000, n. 2, in Cons. St., 2001, I, 1009; Cons. St., sez. VI, 1 marzo 2005, n. 816, in Cons. St., 2005, I, 360; Urb. e app., 2005, 944, con nota di G. M. RACCA, Vendita di cosa futura e recesso corretto della parte pubblica delle trattative). Tutto ciò implica sempre una verifica preventiva della impraticabilità delle procedure di evidenza pubblica dell’appalto (Cons. St., ad. gen., 17 febbraio 2000, n1, in Foro amm., 2000, 2752).
[4] La teoria economica individua l’economicità come il fattore inverso del costo delle risorse, derivando con la seguente formula: 1/cR. In tutte le amministrazioni pubbliche, con l’avvento del Patto di stabilità e crescita anche negli enti locali, l’economicità è un parametro del controllo gestionale inscindibile dagli altri tre, l’efficienza, l’efficacia, la produttività.
[5] In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato, considerando “i contratti della p.a. e i lavori, servizi o forniture non sono nominati dal nuovo art. 117 della Costituzione, ma ciò non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle regioni” (Cons St., sezione consultiva atti normativi, ad. 6 febbraio 2006, sez. n. 335/06), in quanto, come rilevato dalla Corte Costituzionale con riferimento ai lavori pubblici, “si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive della Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (Corte Cost. n. 303/2003).

Prof. Gaboardi Franco

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento