È proprio nel rispetto delle garanzie fondamentali che opera il divieto di retroattività sfavorevole: un principio assoluto ed inderogabile, che trova il proprio fondamento nell’ordinamento interno (art. 11 Disp. Prel.[1], art. 25 Cost.[2], art. 2 c.p.[3]), ma anche in fonti sovranazionali, come corollario del principio di legalità (art. 7 CEDU[4]). Il carattere assoluto ed inderogabile del divieto, oltre a risiedere nel proprio fondamento, risiede anche nella sua ratio: garantire la certezza del diritto.
Così, da un lato, la regola in questione assicura la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta; d’altro lato, è garanzia contro possibili abusi da parte del potere legislativo. Dialoga, quindi, con una serie di altri principi (prevedibilità, colpevolezza, riproverà abilità, responsabilità soggettiva, tassatività, determinatezza, funzione rieducativa della pena), nell’impedire che una disciplina successiva più favorevole produca i suoi effetti nei confronti di chi ha commesso il fatto sotto il vigore di una legge meno severa.
Il divieto di retroattività sfavorevole opera non solo nei confronti di leggi che prevedono nuove incriminazioni, ma anche nei confronti di quelle leggi che delineano un trattamento penale più severo per un fatto già previsto come reato. Nello specifico riguarda tutti gli istituti di diritto sostanziale che delineano l’area dell’illecito penale, andando ad includere i requisiti costitutivi del reato, le condizioni di punibilità e le relative conseguenze penali, gli istituti di diritto sostanziale che delineano le risposte sanzionatorie, comprendendo le norme che prevedono pene principali ed accessorie. In generale sono interessati istituti che in vario modo incidono sul trattamento penale del reo.
Al contrario delle norme sostanziali, quelle processuali sono soggette al principio “tempus regit actum”. Si tratta di norme che non interferiscono con le garanzie fondamentali e con le libere scelte di azione dei soggetti, sfuggendo pertanto all’applicazione dell’irretroattività sfavorevole. Ciò comporta che gli atti processuali già compiuti rimangano validi ed assoggettati alla disciplina vigente al momento del compimento degli stessi; al contrario, gli atti ancora da compiere saranno assoggettati alla nuova disciplina, alla norma successiva, vigente al momento dell’adozione dell’atto, anche se collegati ad atti compiuti in precedenza o relativi ad un processo iniziato sotto la vigenza della norma precedente. In considerazione del fatto, l’effetto è retroattivo: ad un fatto anteriore è applicata una norma successiva. Questa retroattività, che implicitamente porta con sé il principio del tempus regit actum, può anche essere in senso sfavorevole.
La questione relativa alle norme che disciplinano l’esecuzione della pena
La qualificazione di una norma come sostanziale o processuale e, di conseguenza, l’applicazione rispettivamente del divieto di retroattività sfavorevole o del principio del tempus regit actum, non sempre è agevole.
Ciò è quanto avviene in relazione alle norme che disciplinano l’esecuzione della pena, rispetto alle quali si contrappongono orientamenti differenti in ordine alla qualificazione della loro natura sostanziale o processuale.
Considerando il diritto vivente, tali norme sono da considerare processuali, in quanto concernenti le modalità esecutive della pena. Se ne esclude pertanto il loro carattere sostanziale, quindi l’applicabilità del principio di legalità in materia penale e del suo corollario dell’irretroattività sfavorevole. Sono quindi norme assoggettate al principio del tempus regit actum, per cui l’esecuzione della pena è soggetta alle norme vigenti al momento in cui questa deve essere eseguita. A ciò consegue anche l’implicita, naturale retroattività del principio in questione, perché la norma applicabile sarà tale anche se successiva al fatto ed anche se disciplina l’esecuzione in una maniera peggiorativa per il reo.
Anche la Corte Costituzionale considera le norme sull’esecuzione della pena come norme processuali, non soggette pertanto al divieto di applicazione retroattiva. Le ragioni che sottendono tale impostazione sono di ordine pratico: esecuzione della pena è un fenomeno di durata che si dipana diacronicamente nel tempo, per cui può essere frequente la necessità di adattare la sua disciplina al mutamento del contesto sociale, economico e tecnologico. Inoltre, non sempre è agevole affermare che una norma successiva sull’esecuzione è più o meno favorevole di quella precedente, nell’ottica del bilanciamento degli interessi in gioco. Infine, adottare al contrario la norma vigente al momento del fatto, comporterebbe difficoltà di gestione dell’istituto penitenziario e differenze di trattamento tra i detenuti, legate al configurarsi di una pluralità di regimi sull’esecuzione paralleli, ciascuno connesso alla data di commissione del reato.
Tale prospettiva è condivisa anche dalla Corte EDU, secondo la quale di regola le norme sull’esecuzione della pena non sono assoggettate al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU.
Nonostante si tratti di un principio di ordine generale, tale regola può subire eccezioni, che si configurano rispetto alla questione in esame, in un caso peculiare. Secondo la stessa Corte infatti, qualora una norma sull’esecuzione della pena determini una ridefinizione, una modificazione della portata applicativa della pena stessa, va considerata come sostanziale. In quanto tale è quindi soggetta al divieto di retroattività sfavorevole.
A tutto ciò, la Corte Costituzionale aggiunge inoltre che una norma del genere non comporta una mera modifica delle modalità esecutive della pena, al pari di una norma processuale, ma una vera e propria trasformazione della natura della pena stessa e della concreta incidenza di quest’ultima sulla libertà personale del condannato. In tale modo la pena è sostanzialmente un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto, alla luce di tale trasformazione: pertanto entrano in gioco le garanzie alla base del principio di retroattività sfavorevole esattamente come per le norme sostanziali.
Ciò avviene, in maniera esemplificativa, quando una pena da eseguirsi fuori dal carcere, per effetto della norma successiva, vada eseguita dentro al carcere; o ancora qualora una norma successiva modifichi il regime di accesso alle misure alternative alla detenzione, in quanto vere proprie pene alternative alla stessa, caratterizzate da una portata limitativa della libertà personale ridotta rispetto alla detenzione; o infine con la norma che dispone il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione, che comporta che almeno una parte la pena sia scontata in carcere in attesa della decisione sull’istanza di ammissione la misura alternativa, anziché con le modalità extra murarie previste in precedenza.
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Note
[1] Art 11 Disp. Prel.: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
[2] Art. 25 Cost., comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”.
[3] Art. 2 c.p., comma 1: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.
Art. 2 c.p., comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
[4] Art. 7 CEDU: “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.
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