Nessun risarcimento al paziente se non dimostra la causa del danno

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In ambito di responsabilità professionale medica, spetta al danneggiato provare il nesso di causalità materiale tra aggravamento e condotta (Cass. n. 27612/2020)

SOMMARIO:

Il nesso di causalità materiale nella responsabilità medica. 1

Nesso di causalità tra aggravamento e condotta: il caso. 2

La causalità materiale nelle obbligazioni professionali 2

Il danno evento nelle obbligazioni professionali e l’interesse corrispondente alla guarigione. 3

Conclusioni 3

Dopo un trascorso periodo di particolare incertezza sulla questione dell’onere della prova nelle ipotesi di responsabilità professionale medica e sulla ripartizione dello stesso tra le parti nel caso di inadempimento basato su un rapporto contrattuale, può dirsi oggi consolidato il principio secondo cui, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è il paziente che deve dimostrare che la condotta del sanitario, sia stata la causa del pregiudizio alla salute.

Di conseguenza, se resta ignota, anche mediante l’utilizzo di presunzioni, la causa dell’evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul paziente stesso.

Così, se il paziente non riesce a provare che l’evento lamentato risulti collegato all’operato medico (c.d. causalità materiale), lo stesso non potrà essere risarcito, tanto più se, come nel caso che andremo ad illustrare nel corso dell’articolo, l’evento può essere imputabile a una sua condotta imprudente.

Il nesso di causalità materiale nella responsabilità medica

E’ quanto ribadito da una recente ordinanza della Terza sezione civile che, conformandosi ai principi ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, ha stabilito che “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata” (Cass. Civ. 3 Sez, Ordinanza n. 27612/20).

Non vi è dubbio, quindi, che l’approdo giurisprudenziale a cui si è pervenuti in tema di causalità nei giudizi da responsabilità medica, costituisce senz’altro un punto fermo in relazione all’interpretazione della normativa contrattuale applicabile alla speciale responsabilità professionale, nella quale il sanitario assume sì l’obbligo di eseguire la prestazione conformemente alle leges artis, ma il cui inadempimento, tuttavia, non fonda immediatamente la sua responsabilità, fino a quando non lo si colleghi eziologicamente alla lesione del diritto alla salute (con prova il cui onere è a carico del paziente attore).

Nesso di causalità tra aggravamento e condotta: il caso

Nella fattispecie da ultimo sottoposta all’attenzione dei giudici, con l’ordinanza sopra richiamata, la Corte si è trovata ad esaminare un caso in cui una paziente chiedeva il risarcimento dei danni alla rispettiva ASL, per aver subito trattamenti sanitari inadeguati. In particolare, secondo la tesi della paziente, le sarebbero stati prescritti farmaci anticoagulanti che le avrebbero provocato un “ictus cardio embolico” e non sarebbe stata correttamente informata sui rischi connessi sui rischi connessi alla non corretta attuazione della terapia e dei controlli prescritti.

Nella specie la Corte d’appello applicando i principi richiamati ha escluso che la condotta dei sanitari che avevano in cura la paziente potesse considerarsi causa dell’ictus occorso alla stessa.

I giudici d’appello avevano rilevato, infatti, che la terapia anticoagulante prescritta dai medici era stata corretta e che la paziente aveva omesso di recarsi al controllo programmato al fine anche di adeguare la terapia. Rilevavano, più precisamente, che l’ictus era sopravvenuto il 15 maggio 2007 mentre il controllo al quale la signora non si era sottoposta era previsto per il 3maggio dello stesso anno.

Tale condotta aveva, quindi, interrotto il nesso di causalità tra la condotta dei sanitari ed il verificarsi della spiacevole patologia.

La Cassazione, nel confermare le sentenze rese in primo ed in secondo grado, in mancanza della dimostrazione chiara del nesso di causalità da parte della paziente, rigettava pertanto la domanda proposta.

La causalità materiale nelle obbligazioni professionali

La questione risolta attiene al rapporto tra responsabilità contrattuale nel campo medico e causalità materiale, quale fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento.

Negare, infatti, che incomba sul paziente creditore di provare l’esistenza del nesso di causalità fra l’inadempimento e il pregiudizio alla salute, significherebbe escludere dalla fattispecie costitutiva del diritto proprio l’elemento della causalità materiale.

Senonché, nel territorio del facere professionale, la causalità materiale si atteggia in modo diverso rispetto all’inadempimento scaturente da un’obbligazione di dare.

Tuttavia, ciò non deve tradursi in una rinuncia all’indagine del collegamento naturalistico tra i due fatti.

Se in uno schema classico la causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento, non è praticamente separabile dall’inadempimento stesso, poiché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque dal danno evento, nel “sottosistema” della responsabilità per attività sanitaria nell’ambito del sistema “generale” della responsabilità contrattuale, l’accertamento del nesso causale assume una peculiare configurazione.

Il danno evento nelle obbligazioni professionali e l’interesse corrispondente alla guarigione

Il danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale, infatti, non è l’interesse corrispondente alla prestazione, ma l’interesse presupposto.

Qui, l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore-paziente alla guarigione.

La guarigione dalla malattia, ancorché non sia dedotta nell’obbligazione, non costituisce un motivo soggettivo estrinseco rispetto al contratto d’opera professionale, ma è tipicamente connessa all’interesse regolato sul piano negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto.

Oggetto della prestazione resta pur sempre il solo il perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore (o, altrimenti detto, il diligente svolgimento della prestazione professionale), ma il “danno evento” in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie è la lesione dell’interesse presupposto corrispondente al diritto alla salute, in vista del quale è sorta l’obbligazione di diligenza professionale del medico.

Ne consegue, pertanto, che “non essendo l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie (ovvero la morte) “immanenti alla violazione delle “leges artis””, potendo “avere una diversa eziologia”, all’onere del creditore/danneggiato “di allegare la connessione puramente naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico”, si affianca – “posto che il danno evento non è immanente all’inadempimento”, anche quello “di provare quella connessione”” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 28991/2019).

Conclusioni

Allegare, dunque, l’inadempimento, in ambito di responsabilità professionale, non significa allegare anche il danno evento, il quale come abbiamo visto, riguardando un interesse ulteriore e superiore, non è necessariamente collegabile al mancato rispetto delle leges artis, ma potrebbe essere riconducibile ad una causa diversa dall’inadempimento.

Quindi, per il paziente non basta allegare l’inadempimento. Il paziente ha anche l’onere di provare la connessione naturalistica tra la lesione della salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico.

Nel caso sopra esposto è evidente che non era stato provato che l’evento lamentato fosse connesso all’operato dei medici.

Non solo, come ha sottolineato correttamente la Corte, l’inerzia della paziente, che avrebbe omesso di recarsi alla visita di controllo, nonostante fosse stata adeguatamente informata, fa addirittura ritenere plausibile che, se la visita programmata fosse stata effettivamente svolta, avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e tale diagnosi avrebbe evitato l’evento dannoso secondo il criterio del “più probabile che non”.

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Avv. Angelo Forestieri

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