Modifica del regime della recidiva (L. 251 del 5 Dicembre 2005)

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1. PREMESSA
La giurisprudenza di merito (nella specie il Tribunale di Grosseto in composizione monocratica), con la sentenza che si annota, fornisce una risposta condivisibile, seria e meditata al grave problema invalso con la grave e discutibile modifica del regime della recidiva (L. 251 del 5 Dicembre 2005), scelta legislativa che ha comportato sino ad oggi (tramite l’art. 69 comma 4° c.p.) l’annientamento e l’azzeramento del valore processuale di qualsivoglia attenuante a fronte della contestazione – nei confronti dell’indagato/imputato – delle aggravanti di cui agli artt. 99/4° o 111 e 112 comma 1° n. 4 c.p. .
Detto ciò, però, non può tacersi la circostanza che more solito, è l’interprete giurisprudenziale che deve, ricorrendo a complesse costruzioni giuridiche, ovviare a scelte legislative lacunose e, spesso – come nella fattispecie – contradittorie.
La pronuncia offre, così, un’apprezzabile interpretazione del divieto di prevalenza delle attenuanti, contenuto nel novellato art. 69 comma 4° c.p., che, siccome alternativa all’orientamento creatosi, prima facie, supera indubbiamente il mero dato lessicale e si ancora, invece, alla concreta ratio che sottende alla norma.
L’adesione di chi scrive, (che si andrà in prosieguo motivando) a tale posizione giurisprudenziale, non impedisce, però, di rilevare come la soluzione cui il giudice monocratico è pervenuto si ponga nell’alveo della interlocutoria necessità, che si ha ogni qualvolta ci si imbatta in una novella legiferativa a sé stante e, quindi, dagli effetti privi di adeguata meditazione, scollegati dalla realtà giuridica precedente e disarmonici rispetto al tessuto normativo preesistente.
Appare, dunque, di particolare interesse la soluzione prospettata dal Tribunale di Grosseto, soprattutto, in quanto essa si pone in specifica relazione all’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 73 comma V dpr 309/90.
Non si può, infatti, dimenticare che proprio l’entrata in vigore della L. 251/05, ha determinato conseguenze aberranti ed inaccettabili, in quanto vicende processuali che, usualmente, avrebbero dovuto essere ricomprese, sotto il duplice profilo della qualificazione giuridica e della pena effettiva, nell’alveo dell’ipotesi lieve (da 1 a 6 anni), sono state, invece, pesantemente sanzionate con le pene previste dal comma 1 o 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90 (da 6 a 20 anni) e, quindi, con conseguenze che definire del tutto inique è un mero eufemismo.
 
2. L’ART. 73 COMMA V DPR 309/90 (E SUCCESSIVE MODIFICAZIONI).
Per meglio inquadrare la complessiva tematica ed apprezzare le conclusioni cui è pervenuta la sentenza che si commenta, si impone una brevissima notazione relativa all’art. 73 comma V dpr 309/90.
E’ notissima la diatriba insorta e tuttora persistente (sopita sotto la cenere della giurisprudenza, ma pronta a riesplodere) in relazione alla natura dell’istituto.
L’interpretazione imperante considera l’ipotesi lieve quale circostanza attenuatrice della fattispecie base di cui all’art. 73 co. 1 ed 1 bis.
Tale convincimento si fonda sul presupposto, peraltro, richiamato anche dallo stesso giudice monocratico di Grosseto, che la lieve entità sia legislativamente dipendente da tutta una serie elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non appaiono divergenti nella loro consistenza rispetto alle fattispecie previste dai citati commi 1 ed 1 bis dell’art. 73, ma che finiscono per attribuire ad esse una minore valenza offensiva.
La Suprema Corte, Sez. IV, con la pronuncia 24 Febbraio 2005, n. 20556, (rv. 231352), Cianchetta, (in CED Cassazione, 2005, Riv. Pen., 2006, 5, 599) ha ribadito tale concetto, precisando che “L’attenuante speciale prevista dall’art. 73, comma quinto, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per i reati di produzione e traffico di stupefacenti, trova applicazione quando la fattispecie concreta risulti di trascurabile offensività, sia per l’oggetto materiale del reato, in relazione alle caratteristiche qualitative e quantitative della sostanza, sia per la condotta, riferibile ai mezzi, alle modalità e alle circostanze della stessa, per cui il vaglio in senso negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento individuati dalla legge deve condurre ad escludere l’ipotesi del fatto di lieve entità[1].
Parimenti, la giurisprudenza di merito, si è allineata nel palesato senso (cfr. Trib. Rovigo, 19 Gennaio 2005, Riv. Pen., 2006, 3, 341 nota di PIETROPOLLI, PATRIAN), ribadendo la centralità del concetto di minina offensività penale della condotta, che, per quanto riguarda altri e diversi aspetti, conciderebbe con la fattispecie ordinaria, presa a base dalla legislazione sugli stupefacenti.[2]
A fronte del prevalente orientamento non sono mancate, soprattutto in dottrina, voci dissonanti.
E’ il caso di ricordare, fra tutte, la convincente ed importante posizione assunta dal FLORA[3], che ritenne le condotte, integranti la ipotesi lieve, come fattispecie autonome, tali da potere assumere la veste di reati fine di quella che viene considerata un’associazione “minore”.
L’Autore, infatti, si riallacciò all’esame di varie norme, più o meno correlate con l’art. 73 co. V. e che rinviano al contenuto dello stesso, in quanto usano forme lessicali in equivoche e tali da indurre a considerare detta norma quale espressione di un reato autonomo ed indipendente rispetto la fattispecie ordinaria di cui ai co. 1 e 1 bis dell’art. 73 .
Oggettivamente, la stessa normativa in tema di stupefacenti è, infatti, senza dubbio prodiga di riferimenti difficilmente smentibili.
Il richiamo di principale e rilevante pertinenza è, quindi, costituito dal 6° comma dell’art. 74 DPR 309/90, che recita “Se l’associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’articolo 73, si applicano il primo e il secondo comma dell’articolo 416 del codice penale[4]”.        La individuazione della fattispecie di cui all’art. 73 co. V. come ipotesi specifica e paradigmatica, atta a giustificare una previsione sanzionatoria diversa da quella ordinaria prevista ai co. 1° e 2°[5], non può definirsi un casuale lapsus del legislatore. 
Lo stesso tenore letterale della norma denota una scelta legislativa che induce a considerare l’art. 73 come fattispecie di reato autonoma, rispetto alla quale l’art. 73 comma V° viene ad operare in modo autonomo, sì da legittimare una disposizione normativa l’art. 74/6° che differisce oggettivamente dalla basilare ipotesi associativa. 
Vi è, infatti, da domandarsi per quale ragione si sia sentita la necessità di ricorrere ad una previsione ad hoc (quella del 6° comma citato), in presenza di una prospettazione ordinaria del reato associativo involgente, quali delitti fine, le condotte di cui all’art. 73, se non per distinguere sul piano della realtà giuridica due situazioni invero autonome tra loro, anche sotto l’eclatante profilo della sanzione.
Né la scelta di individuare una sanzione specifica e diversa, rispetto a quella concernente l’associazione prevista ai commi 1 e 2 dell’art. 74 DPR 309/90, può a propria volta venire qualificata come esempio di predisposizione di un’ulteriore attenuante ad effetto speciale[6]
Ciò posto, va, inoltre, rilevato che la stessa recente L. 49 del 21 Febbraio 2006, non ha affatto risolto l’arcano, o meglio, non ha colto l’importante occasione di rimodulare, in termini di plausibilità e coerenza giuridica, l’istituto, così che emergesse la vera natura dello stesso, la quale va orientata nel senso di una piena autonomia, rispetto alla fattispecie base.
La scelta di negare il ritenuto carattere di circostanza attenuante dell’art. 73 comma V dpr 309/90, si imponeva e si impone tuttora, proprio allo scopo di prevenire effetti aberranti sia sul piano della discrasia fra fatto reale e qualificazione giuridica dello stesso, sia sotto il profilo dell’eccessività ed irrazionalità della sanzione che venga inflitta, laddove intervengano previsioni normative quali, ad esempio, la L. 251 del 2005 (ex-Cirielli).
E’, infatti, assolutamente contrario ad un criterio di obbiettività giuridica, il fatto che una vicenda che rivesta i caratteri della modestia/lievità e, quindi, rientri nei parametri sanciti per la sussistenza della lieve entità, non possa venire qualificata come tale e venga sanzionata con pene che attengono ad ipotesi di reato del tutto differente, anche e non solo sul piano dell’offensività.
Tant’è, comunque, che allo stato si deve dolentemente prender atto del principio tuttora vigente, nonchè della necessità di dovere percorrere altre vie giuridiche di carattere interpretativo, al fine, di prevenire i guasti di un modo di legiferare incoerente e privo di armonicità.
Non a caso, la sentenza che si commenta si viene a porre nel complesso alveo di quella funzione di salvaguardia dei diritti dell’imputato ad un giusto esito del processo, che – diversamente opinando – verrebbe del tutto disattesa.
Si tratta di un contributo prezioso, che, però, mette spietatamente a nudo i limiti culturali del nostro legislatore, che continua (nonostante si avvicendino governi sostenuti da forze tra loro politicamente differenti ed opposte) ad intervenire con vere e proprie “toppe normative”, preferite a progetti di legge di ampio respiro e coordinati con norme previgenti.
 
3. LA RECIDIVA E LA PREVISIONE DELL’ART. 69 COMMA 4° C.P.
L’elemento giuridicamente destabilizzante il criterio del bilanciamento fra attenuanti ed aggravanti, sancito dall’art. 69 c.p. è stato introdotto con le modifiche apportate sia all’art. 99 c.p.[7] che allo stesso art. 69 c.p. .
Inutile ripercorrere il relativo iter, giacchè lo stesso è pacificamente notorio.
Ai fini che ci occupano, si deve, però, rilevare come – nonostante la novella normativa introdotta – l’istituto della recidiva abbia, comunque, sostanzialmente mantenuto il carattere della facoltatività in relazione all’aumento di pena relativo, fatta eccezione per l’ipotesi di cui al comma V dell’art. 99 c.p. .
Ciò vale a dire che il P.M. ha l’indubbio dovere di contestare la circostanza aggravante, ma che – correlativamente – il giudice non è vincolato alla stessa, avendo egli il potere di applicare o meno l’aumento relativo alla circostanza, se ritenuta sussistente (Cfr. Cass. Pen., 15-05-1986, Menemio, Riv. Pen., 1987, 699).[8]
Corre l’obbligo, però, di chiarire cosa si intenda effettivamente per potere del giudice di non aumentare la pena per effetto della recidiva contestata dal P.M. .
La questione non è di poco conto, né puramente formale, in quanto involge la necessità di determinare e circoscrivere gli effettivi poteri decisori del giudice.
Vale a dire che è fondamentale comprendere e precisare se :
1. il giudice possa ritenere sussistente la circostanza aggravante, ma non applicare l’aumento relativo;
2. il giudice possa, allo scopo di non applicare l’aumento di pena, escludere in toto l’aggravante contestata.
La soluzione del problema, infatti, ruota attorno all’interpretazione da fornire alla locuzione “...può essere sottoposto ad un aumento….”.
Ritiene chi scrive che, per quanto concerne la prima tesi, emerga un’evidente contraddizione fra la disposizione dell’art. 64 c.p., laddove è previsto il principio (peraltro ovvio e logico) che a fronte di una circostanza aggravante debba stabilirsi un aumento, che, ove non predeterminato dalla legge, sia nel massimo pari ad 1/3 della pena prevista, e la considerazione, giurisprudenzialmente esposta, che l’art. 99 cod. pen., nel testo sostituito dall’art. 9 del D.L. 11 aprile 1974 n. 99 convertito in legge 7 giugno 1974 n. 220, conferisce facoltà al giudice non di escludere la circostanza, (che è inerente alla persona del colpevole) ma di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire [Cfr. Sez. II, sent. n. 185 del 15-01-1990 (cc. del 29-11-1988), Sciuto (rv 183010)].
Se da un lato, si sostiene sul piano normativo che non si può non far conseguire alla circostanza di ritenere sussistente un’aggravante, il relativo aumento di pena, [che anche fosse di un solo giorno], dal canto giurisprudenziale si reputa, invece, possibile la dicotomia fra riconoscimento di sussistenza di una circostanza aggravante e negazione dell’applicazione del relativo aumento di pena.
La scelta di ritenere possibile in capo al giudice il potere di non computare l’aumento di pena corrispondente ad un particolare e specifico negativo profilo del commesso reato, integra una soluzione indubbiamente ambigua, in quanto non priva di illogicità, perchè contraddice non solo la previsione normativa sopra richiamata, ma la stessa funzione giuridica cui assolvono le circostanze aggravanti [e che è, indubbiamente, quella di delineare in modo pieno sia il fatto da giudicare, che le conseguenze sanzionatorie dello stesso].
Ciò non di meno, però, pare di dovere rilevare che essa sia, allo stato, ahimè, l’unica soluzione possibile, posto che la recidiva può essere esclusa solamente laddove si verifichi che non si verte in ambito di quelle condizioni soggettive che ne giustifichino la contestazione nei confronti dell’imputato.
E’, pertanto, evidente che l’ipotesi dell’esclusione in toto dell’aggravante della recidiva, pur in presenza di effettive condizioni che ne giustifichino l’applicazione, concreterebbe null’altro che una scelta illogica, irrazionale e, probabilmente ocnfigurante una vera e propria illegittimità, se non addirittura un abuso.
Sicchè – cone detto – va preferita la prima opzione, ferme, peraltro, le forti perplessità avanzate sul punto.
 
4. LA SCELTA OPERATA DALLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI GROSSETO.
Esaurite le premesse sistematiche sin qui doverosamente svolte, ed alle quali necessariamente ci si deve riallacciare, si deve valutare la portata concreta della decisione del Tribunale di Grosseto.
Appare, in primo luogo, del tutto condivisibile la preliminare metodologica posta dal giudice, laddove egli intende verificare la ratio effettiva dell’intervento di modifica in ordine all’art. 69 comma 4° c.p., onde inferire dallo stesso elementi atti a permettere un’intepretazione che superi il mero dato testuale .
In effetti, anche alla luce dei limiti evidenziati al punto precedente, in tema di facoltatività della recidiva, appare evidente che il fine del legislatore è stato indubbiamente quello “di evitare il dissolvimento delle aggravanti nel giudizio di prevalenza delle attenuanti, senza tuttavia negare la possibilità per il giudice di perseguire questo risultato mediante l’applicazione in via autonoma delle aggravanti “blindate[9].
Si tratta di un orientamento che appare indubbiamente corretto e che trova effettivi prodromi normativi non solo nell’art. 1, comma terzo, d.l. 15.12.1979, n. 625 come convertito nell’art. 1, legge 6.2.1980, n. 15, ma anche in tempi più recenti nell’art. 12 comma 3 quater del d.l.vo 286/98.
Entrambe le norme contengono, infatti, previsioni del tutto simili a quella dell’art. 69 comma 4° c.p. relativamente alla questione del divieto di equivalenza e di prevalenza delle attenuanti rispetto ad aggravanti specifiche, quale quella della finalità di terrorismo, o quelle concernenti l’ingresso e la permanenza illecita di persone extracomunitarie in Italia[10].
Vi è, però, da chiedersi – ciò posto – perchè mai il legislatore tanto attento, nell’ambito della legge sull’immigrazione, (cioè in un o specifico settore)) a prevedere un meccanismo di temperamento di un’evidente asperità di diritto sostanziale, (atto a recuperare dopo l’aumento dato dalla circostanza aggravatrice l’evenutale diminuzione di pena propria delle attenuanti) si sia mostrato, invece, carente, sul piano della previdenza (lungimiranza è parola troppo pesante) in un contesto di previsione normativa di carattere generale.
Sia chiaro che questa ultima osservazione assume valenza di mera “polemica giuridica” e non intende, affatto, inficiare o porre in discussione un percorso valutativo che si condivide in toto.
Tornando al problema strettamente giuridico, la tesi, riportata nella sentenza che si commenta, ha il pregio di offrire, al giudicante, due concrete possibilità di alternativa decisoria, che rispettano la libertà di convincimento dello stesso.
La prima è di natura strettamente “conservatrice”, in quanto consiste nel mantenere intatto ed inalterato il codificato principio del bilanciamento fra attenuanti ed aggravanti.
Sicchè, in tale occasione, l’eventuale giudizio che si verrà a formulare si porrà come conclusione nel senso di escludere la dichiarazione di prevalenza delle attenuanti, potendo queste, al più, essere configurate come equivalenti.
La seconda, invece, (ed è ciò che maggiormente interessa) assume il carattere della vera innovazione, perchè prevede che l’aggravante specifica (o “protetta” come definisce la sentenza), rimanga al difuori del meccanismo proprio del giudizio di valenza, e venga applicata in modo assolutamente autonomo rispetto alle altre circostanze.
E’ indubbio che la interpretazione fornita dal Tribunale di Grosseto, attraverso la possibilità di introdurre, in relazione alla novella normativa della L. 251/05, una soluzione del tutto alternativa a quella cd. “conservatrice”, permette e rende, per lo meno, sul piano dell’apparenza, accettabile quest’ultima, la quale, ove fosse stata applicata in via esclusiva, quale unica soluzione prevista dall’ordinamento, avrebbe manifestato segni di palese incostituzionalità.
Ove unica soluzione possibile (siccome offerta dall’art 69 comma 4° c.p.) fosse stata quella di blindare in termini di sfavore per le attenuanti, l’istituto del bilanciamento fra queste e le aggravanti, sarebbe balzato all’evidenza la frustrazione del potere del giudice di decidere liberamente.
Se lo sbarramento dato dalla contestazione (anche solo strumentale) della recidiva ex art. 99/4° c.p. e dal meccanismo di cui all’art. 69 comma 4° c.p., fosse unica soluzione orba di alternative desisorie, il giudice si sarebbe trovato, infatti, aprioristicamente ed irrazionalmente vincolato ope legis a non manifestare in modo pieno ed assoluto il suo convincimento, che, invece, avrebbe potuto porsi nel senso di ritenere l’imputato meritevole di attenuanti da valutare con favore preponderante rispetto alle aggravanti contestate.
Si sarebbe, così, giunti alla aberrante conclusione che il giudicante – in forza esclusiva del dettato legislativo – avrebeb dovuto contraddire il proprio orientamento, comprimendo concretamente la consequenziale portata aritmetica di un’attenuante, che egli poteva ritenere giusta, corretta ed aderente alla fattispecie.
Così opinando, dunque il giudicante avrebbe potuto, quindi, solo aderire (al più) ad un giudizio di equivalenza fra le opposte circostanze, soluzione che non appare affatto rispettosa né delle risultanze processuali, né dell’intimo convincimento maturato.
E’, quindi, evidente che ove si dovesse ritenere perseguibile e percorribile solo la tesi che ancora il giudizio di cui all’art. 69 comma 4° c.p. ad una rigida applicazione dell’obbligatorietà del giudizio di comparazione delle aggravanti “protette” con l’aggiunta del divieto di prevalenza delle attenuanti, si perverrebbe ad una situazione nella quale il giudice, dovendo obtorto collo seguire il percorso dettato – senza alternativa alcuna – dalla norma in disamina, vivrebbe una irreversibile discrasia fra l’interno volere del requirente e la forma della pubblica manifestazione di tale orientamento.
Con la ulteriore conseguenza, in fatto e diritto, che il risultato cui si perverrebbe e che è trasfuso in sentenza, non corrisponderebbe, né potrebbe in alcun modo corrispondere, quindi, all’effettiva conclusione che il giudice ha effettivamente raggiunto (e che dovrebbe, invece, costituire la vera decisione presa), né ai presupposti valutati in sede di giudizio.
Non è, pertanto, accettabile un orientamento normativo che frustri e comprima, così, il libero convincimento del giudice, inteso come libertà di valutare la prova, dando conto dei criteri adottati e dei risultati conseguiti. (Cfr. Trib. Napoli, 29/03/2005, Guida al Diritto, 2005, 18, 90).
E’, quindi, assolutamente evidente che la soluzione che il Giudice Monocratico di Grosseto propugna si pone nell’auspicabile senso di contemperare una duplice contrapposta esigenza e cioè, da un lato, quella di riconoscere come obbligatoria l’applicazione di aggravanti specificamente previste (tra le quali la recidiva), e dall’altro, di permettere, però e giustamente, l’applicazione effettiva di una o più circostanze attenuanti.
Coglie, dunque, nel segno la duplice osservazione, riportata in sentenza, sul punto secondo la quale :
1. è principio generale quello per cui l’obbligatorietà dell’applicazione delle aggravanti protette, tende ad impedire quell’effetto indotto dato dalla facoltà del giudice di potere, tramite il giudizio di prevalenza delle attenuanti, svuotare le stesse di pregnanza concreta ai fini della quantificazione della pena,
2. ad un simile risultato si può, però, giungere anche con l’applicazione autonoma di quelle aggravanti, vale a dire escludendole dalla comparazione con le altre circostanze diverse, (salvaguardando a parere di chi scrive – comunque – l’esistenza e l’incidenza delle attenuanti anche in situziani giuridiche del tutto anomale).
In conclusione, una volta definite dal legislatore (discutibilmente) obbligatorie le aggravanti specifiche, sin qui indicate ed illustrate, le opzioni del giudice restano le due già indicate in precedenza e cioè
A) esecuzione di un giudizio di comparazione fra tutte le circostanze aggravanti ed attenuanti ritenute configurabili, fermo il fatto che si può addivenire a due sole ulteriori soluzioni obbligate
A1) giudizio di prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti,
A2) giudizio di equivalenza fra le aggravnti ed attenuanti (caso in cui l’aggravante va considerata come applicata);
B) esclusione dal giudizio di valenza o bilanciamento della sola aggravante specifica.
In questo secondo caso, il Tribunale di Grosseto illustra il procedimento applicativo, affermando che si procederà prima alle diminuzioni di pena per le attenuanti dichiarate prevalenti e, indi, all’aumento conseguente all’applicazione della prima aggravante.
Si tratta di un iter logico e condivisibile anche se, sul piano squisitamente procedimentale in altre previsioni legislative (con buona pace dell’armonicità e della unitarietà del diritto) si è ritenuto, invece, essere opportuno applicare prima l’aumento per l’aggravante isolatamente ritenuta ed indi la diminuzione eventuale in forza del giudizio di valenza fra la altre aggravanti e le attenuanti, (così come previsto espressamente dall’art. 12 comma 3 quater d.l.vo 286/98).
E’, peraltro, evidente che la globale soluzione adottata dal giudice di Grosseto, per quanto sostenibile ed accoglibile (con convinzione), appare più consona e sintonica rispetto ad attenuanti, quali quelle di cui all’art. 62 bis o 62 c.p., le quali circoscrivono il loro raggio d’applicazione sia oggettiva, che soggettiva a specifici e parziali aspetti frazionali della condotta criminosa ipotizzata, a differenza dell’attenuante di cui all’art. 73 comma V dpr 309/90, che, invece, postula un complessivo giudizio di ridotta offensività della fattispecie base, fondato su molteplici parametri, il principale dei quali è quello ponderale.
In buona sostanza, appare evidente che se il giudice dovesse ricorrere alla prima delle due opzioni possibili, cioè ad un giudizio di valenza che coinvolga indiscriminatamente tutte le aggravanti e tutte le attenuanti, verrebbe a provocare – comunque e sempre – l’inaccettabile (in fatto e diritto) conseguenza della svalutazione piena e totale di pregnanza dell’attenuante del comma V, e l’ancor più inammissibile conclusione che il quantum di pena in concreto applicato sarà quello concernente un reato assolutamente differente da quello in realtà da lui ritenuto.
Il riconoscimento, in sentenza, della sussistenza dell’ipotesi lieve, infatti, postula un giudizio delibativo che modifica fortemente nella sua sostanza il fatto commesso, il quale, così, assume un connotato di minore (e certamente modesto) allarme sociale e, per tale, motivo viene sanzionato con una pena inferiore di sei volte nel minimo e di circa volte nel massimo, rispetto alla sanzione base.
Per converso, svincolare – come avviene nel secondo caso – l’attenuante da qualsivoglia giudizio di valenza rispetto alla aggravante cd. blindata, permette, indubbiamente il recupero, sotto tutti i profili dell’effettività della stessa, effetto questo che non può essere trascurato, se non a patto di voler stravolgere la realtà processuale.
Non dimentica, certo, chi scrive che la deprecabile natura di attenuante dell’istituto dell’art. 73/5° non pone lo stesso al riparo da altri e diversi possibili giudizi di valenza, rispetto ad altre e diverse aggravanti, per cosiddire comuni, che possano svuotare l’ipotesi lieve di pregnanza concreta nei casi specifici.
E’, comunque, chiaro a chiunque che, sino a che non intervenga un poco di buon senso giuridico, (con una modifica di legge che renda l’ipotesi lieve, come reato autonomo) la soluzione adottata dal Tribunale di Grosseto (come d’altronde le altre che si auspica interverranno in futuro), introducendo un’alternativa ad una scelta, che se unica, apparirebbe – come detto più volte – incostituzionale, intelligentemente sventa e vanifica una istituenda situazione giurisprudenziale che già, nei primi mesi di applicazione dell’ex-Cirielli, ha dimostrata un patente, quanto ingiusto, scollamento fra fatto e diritto.
Certo è che non potrà in eterno essere l’esegeta a colmare lacune o supplire a crassi errori normativi.
 
Rimini, lì 5 Settembre 2006
Carlo Alberto Zaina
 
 
 
Tribunale Monocratico di Grosseto
Sentenza 8 maggio 2006
(Omissis)
Ora, nella fattispecie è stata contestata all’imputato la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, contestazione che risulta corretta da quanto emerge dal casellario giudiziale (v., tra l’altro, ultima condanna da parte della Corte di Appello di Firenze, divenuta irrevocabile il 6.12.2004, per il reato ex art. 73, commi 1 e 5, d.p.r. 309/90 e 99 c.p., commesso in data 15.11.2003, e la precedente condanna del Pretore di Siena, irrevocabile il 19.4.99, per i reati ex artt. 635, 336 c.p.).
Pertanto, il ravvisamento di tale specifica forma di recidiva pone la questione del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sancito dall’art. 69, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5.12.2005, n. 251, nei casi previsti dall’art. 99, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 4 della legge appena citata, novella normativa applicabile in questo giudizio in quanto il fatto è stato commesso successivamente alla sua entrata in vigore.
Secondo il pacifico orientamento della Cassazione, infatti, la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/90, costituisce un’ipotesi aggravata e non già una ipotesi autonoma di reato (v., per tutte, Cass.pen, sez. un., sent. n. 9148 del 1991).
V’è, in realtà, chi – con l’entrata in vigore della legge di modifica n. 49 del 2006 – ha sostenuto che dovrebbe darsi spazio alla teoria della fattispecie autonoma, ritenendo che un argomento letterale si dedurrebbe dall’inciso di apertura della norma di cui all’art. 73, comma 5-bis, che richiama espressamente l’”ipotesi di cui al comma 5”.
Tale osservazione, però, non è condivisibile, in quanto la legge n. 49 del 2006 non ha apportato alcuna sostanziale innovazione alla fattispecie lieve di cui al comma quinto, per cui sono sempre valide le argomentazioni addotte dalla Suprema Corte a sostegno della natura circostanziale, cioè il fatto che la lieve entità è correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano, nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell’art. 73, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva (v. Cass.pen, sez. un., n. 9148/91, cit.).
Una volta stabilito che la fattispecie di cui al comma quinto, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 49 del 2006, va considerata come una circostanza attenuante ad effetto speciale, si pone inevitabilmente la problematica del divieto di prevalenza sancito dal nuovo art. 69, comma 4, in caso di recidiva reiterata.
Quest’ultima disposizione, infatti, nell’estendere il giudizio di comparazione ad ogni circostanza (soggettiva, ad efficacia speciale o autonoma), ne esclude l’applicabilità per le aggravanti di cui agli artt. 99, comma quarto, 111 e 112, comma primo, n. 4), c.p., stabilendo per questi casi un divieto di prevalenza delle attenuanti. Tali circostanze specifiche, pertanto, sono assoggettate ad un trattamento particolare e si possono così definire “blindate” o anche “protette”.
Ad una prima lettura della disposizione novellata sembrerebbe di doversi affermare che la sussistenza di una di tali aggravanti impedisce l’applicazione della diminuzione di pena conseguente al riconoscimento di una circostanza attenuante, stante il divieto della prevalenza di quest’ultima.
Quindi, si dovrebbe affermare che i fatti di lieve entità di cui al comma quinto dell’art. 73, in caso di ritenuta recidiva reiterata, non potrebbero godere del trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie attenuata (cioè la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000,00 ad euro 26.000,00), bensì di quello di cui alla ipotesi ordinaria (reclusione da sei a venti anni e multa da euro 26.000,00 ad euro 260.000,00).
Un simile regime normativo è stato considerato in contrasto sia con il parametro della ragionevolezza desumibile dal principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione sia con la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 della stessa Carta (v. ordinanza del Tribunale di Ravenna emessa in data 12.1.2006, giud. Messini, con cui è stata rimessa alla Corte delle leggi la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 69, ultimo comma, c.p. nella parte in cui esclude la possibilità della prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata).
Ed invero, laddove si propendesse per la obbligatorietà del giudizio di bilanciamento delle aggravanti “protette” con divieto di prevalenza delle attenuanti, il dubbio di costituzionalità sarebbe effettivamente condivisibile.
Tuttavia, qui si ritiene che tale conclusione non discenda necessariamente né dalla disposizione codicistica interessata né dal sistema.
In particolare, il punto nodale sta nello stabilire se con l’attuale formulazione dell’art. 69, comma 4, c.p. il legislatore abbia inteso mantenere la obbligatorietà del giudizio di comparazione delle aggravanti “protette” con l’aggiunta del divieto di prevalenza delle attenuanti ovvero se lo scopo sia stato soltanto quello di evitare il dissolvimento delle aggravanti nel giudizio di prevalenza delle attenuanti, senza tuttavia negare la possibilità per il giudice di perseguire questo risultato mediante l’applicazione in via autonoma delle aggravanti “blindate”. In altri termini, optando per quest’ultima ipotesi, il giudice in caso di aggravante “protetta” concorrente con una o più circostanze attenuanti potrebbe: a) decidere di procedere al bilanciamento, ed in questo caso non gli è consentita la dichiarazione di prevalenza delle attenuanti; b) oppure escludere dal bilanciamento la sola aggravante “protetta”, la quale verrebbe quindi applicata in via autonoma rispetto alle altre circostanze.
A favore di tale soluzione, militano gli argomenti addotti dalla Corte Costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 38 del 1985 (confermata con la successiva sentenza n. 194/85) emessa in relazione al trattamento sanzionatorio previsto per la aggravante della finalità di terrorismo. In quel caso, il Giudice delle leggi era stato chiamato a decidere in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 1, comma terzo, d.l. 15.12.1979, n. 625 come convertito nell’art. 1, legge 6.2.1980, n. 15, relativamente alla questione del divieto di equivalenza e di prevalenza delle attenuanti sull’aggravante della finalità di terrorismo.
Mentre il comma terzo dell’art. 1 del decreto legge prevedeva che in caso di concorso con l’aggravante speciale non si applicavano le disposizioni dell’art. 69 c.p. e le diminuzioni di pena si operavano sulla pena conseguente all’applicazione delle aggravanti, in sede di conversione veniva previsto che le attenuanti concorrenti con l’aggravante della finalità di terrorismo non potevano essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alla stessa (oltre che rispetto alle aggravanti ad effetto speciale o indipendenti).
La Corte di Appello di Genova, ritenendo che la disposizione della legge di conversione avesse comportato l’obbligatorietà del giudizio di prevalenza dell’aggravante della finalità di terrorismo sulle circostanze attenuanti comuni concorrenti, sollevò la questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza. Ebbene, la Corte Costituzionale, con la sentenza suddetta, negò il fondamento della interpretazione fornita dal giudice a quo, sostenendo che l’obbligatorietà in quei casi del giudizio di comparazione ex art. 69 c.p. non si poteva desumere né dalla disposizione normativa interessata né dal sistema.
La Corte, riguardo al secondo aspetto, osservava che “nell’art. 69 cod. pen., infatti, l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del fatto e non numerico delle circostanze contrapposte e concorrenti(…), ed “il giudice, perciò, è libero di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono. Ma, una volta rotto questo perfetto equilibrio valutativo, che implica un globale giudizio sia sul fatto di reato che sulla personalità del suo autore, e privato il giudice (…) del potere di esprimere, ai fini della pena, un giudizio omogeneo e complessivo su tutta la vicenda soggettiva ed oggettiva dell’illecito, tenere ferma tuttavia unilateralmente quell’obbligatorietà, che trovava giustificazione nella corrispettiva omogeneità dei criteri valutativi, determinerebbe effettivamente una situazione del tutto irrazionale”.
Tali considerazioni possono valere anche in ordine alla nuova disposizione di cui all’art. 69, comma 4, c.p.: anche in tal caso, infatti, la previsione del divieto di prevalenza di ogni attenuante (comune o ad efficacia speciale) su una o più delle aggravanti “protette” determina la rottura dell’equilibrio valutativo su cui si fonda, nel sistema, il bilanciamento, di modo che non può più sostenersi la obbligatorietà di quest’ultimo giudizio. Anzi, il sostenerne l’obbligatorietà significherebbe esporre la disposizione novellata al sospetto (più che fondato) di irragionevolezza.
Rimane allora da verificare se la obbligatorietà del bilanciamento nei casi di concorso tra le aggravanti “protette” ed una o più attenuanti discenda dalla particolare formulazione dell’ultimo comma dell’art. 69 c.p.
Anzi tutto, per quanto riguarda il dato letterale, possono essere richiamate le considerazioni formulate dalla Corte Costituzionale con riferimento al regime normativo previsto per l’aggravante della finalità di terrorismo, posto che il legislatore del 2005, al pari di quello del 1980, ha utilizzato una “formula negativa così obliqua” che mal si concilia con la tesi secondo cui lo stesso avrebbe voluto escludere in via assoluta l’applicazione delle diminuzioni di pena conseguenti alle attenuanti concorrenti con una delle aggravanti “blindate”. In questo caso, infatti, la logica avrebbe suggerito l’uso di una formula più diretta ed in positivo, del tipo “in caso di concorso delle aggravanti di cui agli artt. 99, comma 4, 111 e 112, comma primo, n. 4) c.p. con una o più circostanze attenuanti il giudice non può mai applicare le diminuzioni di pena conseguenti al riconoscimento di queste ultime”.
Il legislatore non ha utilizzato una tale formula diretta per la ragione evidente che non era questo lo scopo che si prefiggeva, in quanto il suo vero proposito era quello di rendere obbligatoria l’applicazione di quelle specifiche aggravanti, ma non anche di impedire l’applicazione di una o più circostanze attenuanti.
Né potrebbe obiettarsi che il giudizio di equivalenza in realtà comporta la non applicazione della aggravante, in quanto le sezioni unite della Cassazione hanno avuto modo di precisare che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata nel caso di giudizio di equivalenza, mentre risulta tamquam non esset solo nel caso di prevalenza delle attenuanti (v. Cass.pen., sez. un., 24.7.1991, n. 17).
Quest’ultimo orientamento, quindi, conferma che il legislatore mirava a “blindare” l’applicazione di quelle aggravanti, cioè ad impedire che il giudice, tramite il giudizio di prevalenza delle attenuanti, potesse rendere le prime tamquam non esset. Tale risultato, però, può essere conseguito anche mediante l’applicazione autonoma di quelle aggravanti, vale a dire escludendole dalla comparazione con le altre circostanze diverse.
In definitiva, il legislatore del 2005 ha inteso rendere obbligatoria l’applicazione di quelle aggravanti, consentendo tuttavia al giudice di assicurare questo risultato in due modi alternativi: a) procedendo al giudizio di comparazione di tutte le circostanze eterogenee con la prevalenza delle aggravanti ovvero con l’equivalenza (anche in quest’ultimo caso, come osservato poc’anzi, l’aggravante va considerata come applicata); b) ovvero escludendo la sola aggravante “protetta” dal bilanciamento: in questo caso, si procederà sia alle diminuzioni di pena per le attenuanti dichiarate prevalenti sia all’aumento conseguente all’applicazione della prima aggravante. D’altra parte, questa è la conclusione a cui giunse la Corte Costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto più volte richiamata, per cui – in relazione alle significative similitudini tra le disposizioni di legge interessate – si ritiene che ad analogo risultato ermeneutico possa pervenirsi relativamente alla disposizione di cui al nuovo art. 69, ultimo comma.
Ed appare allora importante richiamare l’orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla aggravante della finalità di terrorismo, in epoca successiva a quella pronuncia del Giudice delle leggi.
La Suprema Corte, infatti, nel ribadire la non obbligatorietà del bilanciamento rispetto alla aggravante speciale, ebbe modo di precisare che in caso di concorso della stessa con aggravanti comuni e con circostanze attenuanti comuni, il giudice non poteva dichiarare la prevalenza delle attenuanti o la equivalenza (stante il divieto, in virtù di quella disposizione speciale, dell’equivalenza e della prevalenza delle attenuanti), ferma restando però la possibilità di sottoporre le attenuanti all’ordinario giudizio di comparazione con le aggravanti comuni, in quanto le attenuanti conservavano comunque sia la capacità di essere comparate ai sensi dell’art. 69 c.p. con le concorrenti circostanze aggravanti comuni sia di operare la diminuzione della pena applicabile per effetto dell’aggravante di finalità di terrorismo (v. Cass.pen., sez. II, 19.12.1987, n. 13042; sez. I, 10.8.1987, n. 8952; sez. I, 28.4.1987, n. 5207).
Né può obiettarsi che l’esclusione di tale obbligatorietà, pur rientrando nei poteri del legislatore, dovrebbe comunque derivare da un’espressa previsione normativa.
Non solo, infatti, tale obiezione appare smentita dall’interpretazione adeguatrice fornita dalla Corte Costituzionale con la pronuncia più volte richiamata, posto che in quel caso la possibilità della sottrazione dell’aggravante dal giudizio di comparazione non discendeva da una specifica disposizione di legge, ma era piuttosto il risultato interpretativo poggiante sui principi del sistema. Ma la medesima obiezione, inoltre, risulta superata anche da un recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui la circostanza attenuante speciale di cui all’art. 8, comma primo, d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991, non è soggetta al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69, nonostante l’assenza di un’espressa previsione di legge, discendendo tale esclusione – secondo la Suprema Corte – dalla obbligatorietà dell’attenuazione delle sanzioni allorché ricorrano le condizioni per l’applicazione della attenuante e tenuto conto dell’intento primario perseguito dal legislatore (che è quello di offrire un incentivo concreto e non meramente eventuale alla dissociazione operosa dalla criminalità organizzata – V. Cass.pen., sez. I, 30.11.2001, n. 43241; n. 36954/2001).
Può dunque affermarsi che l’esclusione di una o più circostanze particolari dal bilanciamento ex art. 69 c.p. non deve necessariamente dedursi da una deroga espressa contenuta in una specifica disposizione di legge, potendo invece la stessa ricavarsi da considerazioni collegate ai principi su cui si fonda lo stesso giudizio di comparazione nonché dal criterio teleologico tramite il quale, in sede interpretativa, si deve risalire all’effettiva intenzione del legislatore.
Alla luce di tali precisazioni, si può concludere che la nuova formulazione dell’ultimo comma dell’art. 69 c.p. non obbliga il giudice a procedere al bilanciamento di quelle aggravanti specifiche.
Egli, invece – nell’esercizio del suo potere discrezionale finalizzato ad esprimere, ai fini della pena, un giudizio omogeneo e complessivo su tutta la vicenda soggettiva ed oggettiva dell’illecito – ha la possibilità di dichiarare prevalenti le attenuanti rispetto alle aggravanti diverse da quelle c.d. “protette”, salvo ovviamente procedere alla applicazione in via autonoma di queste ultime.
In pratica, nei casi in cui quelle aggravanti concorrano con le sole attenuanti comuni (stante il limite contenuto della attenuazione della pena) il giudice non avvertirà alcuna esigenza di estromettere l’aggravante “protetta” dal bilanciamento, poiché in questi casi il giudizio di equivalenza è idoneo a soddisfare l’esigenza di adeguamento della pena alla effettiva gravità del fatto.
Diverso il discorso nei casi come quello in esame, in cui l’attenuante consiste nella determinazione della misura della pena in modo indipendente (basti pensare che nella fattispecie contestata la pena minima del primo comma è sei volte superiore a quella della ipotesi attenuata): in questi casi, infatti, il giudizio di equivalenza non riuscirebbe a soddisfare l’esigenza di adeguamento della pena alla reale offensività del fatto valutato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per cui quasi sempre il giudice si vedrà costretto ad applicare l’aggravante “protetta” in via autonoma estromettendola dal bilanciamento con l’attenuante. In tali ipotesi, per quanto riguarda la determinazione della pena, trattandosi di attenuante con previsione della misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria, dovrà prima procedersi alla determinazione della sanzione base con riferimento alla pena prevista per l’ipotesi attenuata e quindi all’aumento per la circostanza aggravante esclusa dal bilanciamento.
Nei casi, poi, di concorso delle aggravanti “blindate” con altre aggravanti e con altre attenuanti, il giudice potrà alternativamente: a) procedere al bilanciamento fra tutte se ritiene di dichiarare la prevalenza delle aggravanti ovvero la equivalenza; b) procedere al giudizio di comparazione soltanto tra le aggravanti diverse da quella “blindata” e le attenuanti nel caso in cui ritenga di dichiarare prevalenti queste ultime, salvo applicare comunque l’aumento per l’aggravante non comparata (in quest’ultima ipotesi, pertanto, si applicheranno tanto le diminuzioni per le attenuanti con i limiti di cui all’art. 67 c.p., quanto l’aumento per l’aggravante “protetta” esclusa dal bilanciamento).
Ciò che conta è che, qualunque sia la scelta in concreto fatta dal giudice, è assicurato il risultato voluto dal legislatore, cioè l’applicazione di quelle specifiche aggravanti, senza però pervenirsi alle conseguenze irragionevoli in punto di adeguamento della pena secondo un giudizio di valore globale del fatto, a cui, invece, condurrebbe la diversa interpretazione circa la obbligatorietà del giudizio di equivalenza o di prevalenza delle aggravanti di cui all’art. 69, u.c., per cui la prima opzione interpretativa si impone in quanto costituzionalmente orientata.
(Omissis)
 
 


[1]          Nella fattispecie, la Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva negato l’applicazione dell’attenuante in presenza di quantitativi di eroina non cospicui, commercializzati in modo frequente e sistematico, ritenendo tale condotta sintomo di una non trascurabile potenzialità diffusiva dell’attività di spaccio.
[2]         La circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti), deve essere riconosciuta in tutte le ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione). Nel caso di specie è stata ritenuta sussistente la circostanza attenuante "de qua" in considerazione della qualità e quantità di sostanza stupefacente sequestrata (trattasi di un quantitativo non elevato, gr. 30,8 di cocaina pari a 270 dosi commerciali, con principio attivo non particolarmente elevato), nonché delle modalità della condotta (risulta infatti che l’imputato ha posto in essere la detenzione a fine di spaccio con mezzi e modi assai semplici e limitati: la cocaina era detenuta sulla persona).
[3]          In La nuova normativa sugli stupefacenti. Commento alle norme penali del Testo Unico, Milano, 1991,  
[4]          Il testo dell’art. 416 del codice penale è il seguente:
"Art. 416 (Associazione per delinquere). – Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni.
            Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
            I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori.
Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie si applica la reclusione da cinque a quindici anni.
            La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più".
[5]           Recitano i primi due commi dell’art. 74 DPR 309/90 Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall’articolo 73, chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione è punito per ciò solo con la reclusione non inferiore a venti anni.
            Chi partecipa all’associazione è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni.
[6]   Per una disamina più approfondita delle ragioni a sostegno della tesi di minoranza V. C.A. ZAINA
     LA NUOVA DISCIPLINA PENALE DELLE SOSTANZE STUPEFACENTI, Maggioli Editore, 2006
[7]       Art. 99. Recidiva.
            Chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.
            La pena può essere aumentata fino alla metà:
            1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;
            2) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente;
            3) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.
            Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l’aumento di pena è della metà.
            Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi.
            Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto.
            In nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo»
            [Articolo così sostituito prima dall’art. 9, D.L. 11 aprile 1974, n. 99, sulla giustizia penale e poi dall’art. 4, L. 5 dicembre 2005, n. 251. Per quanto riguarda le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva con la semidetenzione, con la libertà controllata o con una pena pecuniaria, vedi l’art. 59 della L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale. Vedi, anche, l’art. 57, R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, sulla repressione delle frodi agrarie, l’art. 82, L. 17 luglio 1942, n. 907, sul monopolio dei sali e dei tabacchi, l’art. 7, L. 3 gennaio 1951, n. 27, sul contrabbando, gli artt. 296, 342, D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, in materia doganale e l’art. 52, comma 3, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, sulla competenza penale del giudice di pace.]
[8]         L’art. 9 d. l. n. 99 del 1974, che ha profondamente modificato la disciplina dell’art. 99 c. p. sulla recidiva non ha reso facoltativa la contestazione della stessa, ma ha conferito al giudice di merito il potere di non aumentare la pena per effetto della recidiva contestata, attribuento una semplice facoltà di non apportare l’aumento di pena corrispondente al tipo di recidiva contestata; ne consegue che il giudice ha l’obbligo di motivare, ove ritenga di aumentare la pena per effetto della recidiva, onde mettere in luce i rapporti tra il nuovo reato e la condanna precedente; mentre se ritiene di procedere ad un giudizio di comparazione con eventuali circostanze attenuanti deve motivare esclusivamente in ordine alle ragioni per le quali ha ritenuto la equivalenza o la prevalenza per le fattispecie circostanziate di segno opposto.
            V.però anche Sez. I, sent. n. 2031 del 17-03-1983 (cc. del 13-07-1982), Lo Cascio rv 157808In base alla normativa sulla recidiva introdotta con la legge n. 220 del 1974, il giudice ha la facoltà di escludere la recidiva che, nonostante la particolare natura di qualificazione giuridica inerente alla persona del colpevole, riceve nel vigente ordinamento penale un trattamento giuridico del tutto identico a quello previsto in generale per le circostanze aggravanti del reato.
 
[9]   Cfr, sentenza Tribunale Grosseto
[10] Cfr. commi 3 bis e 3 ter art. 13 d.l.vo 286/98

Zaina Carlo Alberto

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