Misure di prevenzione all’indomani della sentenza De Tommaso

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Tra giurisprudenza nazionale ed esigenze di coordinamento europeo

Il tema oggetto di analisi presenta una complessità ed ampiezza tale da rendere necessaria un’anticipazione del percorso logico-normativo seguito nella presente indagine. In primo luogo l’attenzione sarà concentrata sulla nota sentenza De Tommaso[1] resa dalla Grand chamber della Corte EDU di Strasburgo, la cui portata rivoluzionaria ha riacceso l’intenso e quanto mai attuale dibattito tecnico-giuridico sulla compatibilità con i principi costituzionali e sovranazionali delle misure di prevenzione con speciale riguardo ai casi di c.d. “pericolosità generica”, ovverosia quella pericolosità fondata sul giudizio probabilistico che il soggetto possa concretamente compiere in futuro azioni delittuose[2]. Seguirà, poi, l’esame dettagliato delle diverse ricostruzioni interpretative snodatesi nel variegato panorama giurisprudenziale, provando, infine, a fornire un quadro che possa, quantomeno, guidare l’interprete nella risoluzione dei casi concreti.

La vicenda è particolarmente spinosa e, prima ancora di approcciare ai numerosi spunti cui dà vita la pronuncia in esame, è bene, prima facie, chiarire che “prevenzione” non è di per sé un concetto giuridico. Il termine, lessicalmente inteso, interessa la medicina e allude al tentativo di evitare l’insorgenza di una certa patologia o, comunque, di un suo aggravamento. In senso giuridico, e con particolare riguardo al diritto penale, si fa riferimento all’adozione di specifiche misure[3] dirette ad impedire la previa commissione di fatti costituenti reato: da qui la dicitura di misure ante delictum o praeter delictum.

Sulla conformità di tali misure con i criteri cardine di rango costituzionale si sono, nel tempo, succedute animate polemiche[4], sopite, puntualmente, dalla Corte Costituzionale, la quale, fin dalle origini della sua attività, ha sempre fugato i dubbi di legittimità costituzionale mediante la fissazione di una serie di importanti principi che, ancora oggi, risultano essere alla base del congegno prevenzionale[5].

Più di recente, il tetragono scetticismo avvolgente l’intera disciplina ha trovato ulteriore temperamento nella sentenza n. 282 del 2010 della Corte Costituzionale, la quale, in considerazione della supposta genericità delle prescrizioni determinate al proposto, ha ribadito che tali prescrizioni si risolvono “nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di “vivere onestamente” si concretizza e si individualizza”, aggiungendo, altresì, che “la prescrizione di “rispettare le leggi” (…) non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale[6]”.

L’annoso dibattito è tornato con vigoria alla ribalta a seguito del richiamato precipitato sovranazionale, il quale pare avere assunto il sapore di un suggestivo fenomeno di overruling e, come tale, destinato ad invadere sovente le aule di giustizia locali. Difatti, sebbene la regola dello “stare decisis” non trovi cittadinanza alcuna all’interno del nostro ordinamento, non potrà di certo negarsi la speciale autorevolezza e la rilevante incidenza che la pronuncia europea avrà trasversalmente nel futuro archetipo prevenzionale[7].

Orbene, il citato provvedimento prende le mosse dal ricorso inoltrato dal sig. Angelo De Tommaso, destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni due con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza applicata, su proposta della Procura, dal Tribunale di Bari e successivamente revocata dalla Corte d’Appello del medesimo distretto territoriale, stante l’assenza, sulla scorta degli elementi investigativi acquisiti al fascicolo, dell’indefettibile presupposto dell’attualità della pericolosità sociale del ricorrente al momento dell’imposizione della misura medesima. Tuttavia, mal grado l’accoglimento del gravame, il sorvegliato speciale, reputandosi comunque vittima di una violazione dei propri diritti fondamentali[8], decideva di rivolgersi alla Corte europea, la quale, preso atto della peculiare complessità del caso di specie, investiva della trattazione del ricorso la Grande Camera, ai sensi dell’art. 30 CEDU.

Il fulcro motivazionale della sentenza in commento va, senz’altro, individuato nella paventata violazione dell’art. 2 Protocollo n.4 della CEDU, in base al quale i diritti riconosciuti al paragrafo 1[9] possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica, discendendone quale diretto corollario il principio secondo cui ogni misura che comporti la menomazione, seppur limitata, di tali diritti deve essere “in accordance with law”, nel senso che “the expression “in accordance with law” not only requires that the impugned measure should have some basis in domestic law, but also refers to the quality of the law in question, requiring that it should be accessible to the persons concerned and foreseeable as to its effects”[10].

Ciò posto, la Corte dei diritti, con un’ampia maggioranza di dodici giudici, ha mostrato un certo biasimo nei riguardi della legge nazionale, identificata nella L. n. 1423 del 1956 (in larga parte oggi riversata nel d.lgs. 159/2011 – c.d. codice antimafia), ritenendo che la stessa, seppur accessibile per l’interessato e dotata di base legale interna, non soddisfa i canoni qualitativi richiesti dalla Convenzione europea, rilevando un chiaro deficit di prevedibilità non soltanto in merito all’operatività dei presupposti applicativi, ma anche e soprattutto con riferimento ai profili contenutistici delle prescrizioni[11]. In altri termini, i giudici della Grande Camera, hanno accertato l’insufficiente adeguatezza della legislazione italiana in materia che, concedendo ampi margini discrezionali al giudice interno, non garantisce al cittadino un’idonea protezione contro indebite ingerenze dell’autorità giudiziaria, privandolo in tal guisa della possibilità di regolare a priori i suoi comportamenti e di consentirgli di orientarsi nel prevedere le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta[12].

La pronuncia in parola si è, poi, focalizzata sulla contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo delle prescrizioni di “vivere onestamente e rispettare le leggi” per la loro obiettiva ed estrema vaghezza, nonché per l’ampia libertà decisoria riservata al giudice nazionale, conducendo, rispetto alla monolitica giurisprudenza nazionale, ad un significativo cambio di rotta per cui “the interference with the applicant’s liberty of movement cannot said to have been based on legal provisions complying with the Convection requirements of lawfulness”.

Sul punto si sono espresse anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel c.d. “caso Paternò[13], le quali, recependo il dictum proveniente dall’Unione europea, si sono, mediante l’utilizzo dello strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme, pienamente allineate alla sentenza resa dalla Corte EDU in un momento storico in cui sembrano dominare le spinte centripete ostili al progetto di europeizzazione del sistema penale italiano, in nome della tutela dell’”identità costituzionale” e della specificità della nostra tradizione[14]. Nella fattispecie concreta, i giudici di Palazzo Cavour, avuto riguardo al precetto di cui all’art. 75, co. 2, d.lgs. 159/2011 (che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposte con la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza), hanno precisato, sulla scia di quanto già affermato a Strasburgo, che il reato de quo non è prospettabile anche in relazione alle prescrizioni del “vivere onestamente e rispettare le leggi”, attesa la scarsa tassatività delle condotte valutabili come costitutive di un pericolo per la tranquillità collettiva e la pubblica sicurezza[15].

Il fermento ermeneutico prodottosi a seguito della sentenza De Tommaso ha, poi, indotto la Corte d’Appello di Napoli[16]  a rimettere gli atti al giudice costituzionale sollevando questione di legittimità costituzionale[17]  degli artt. 1, 3 e 5 L. n. 1423/1956 nonché degli artt. 1, co. 4, lett. c), 6 e 8 d.lgs. 159/2011 per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione non soltanto alla violazione dell’art. 2 Protocollo n. 4 della CEDU (libertà di circolazione) ma anche dell’art. 1 del medesimo Protocollo (protezione della proprietà). In buona sostanza, sul solco tracciato dai giudici di Strasburgo, la Corte di merito territoriale, muovendo dalle argomentazioni svolte in sede europea in rapporto alle misure di prevenzione personali, è giunta a diffidare della legittimità costituzionale anche delle norme che governano le misure di prevenzione patrimoniali, sub specie la confisca, edificate su fattispecie di pericolosità generica[18].

In posizione diametralmente opposta si è collocato il Tribunale di Milano[19], che ha, invece, reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale ingenerata dalla Corte EDU[20], sottolineando come la decisione, pur provenendo dalla Grande Camera (…) non integra, allo stato, un precedente consolidato nei termini descritti dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49/2015, al cui interno è scolpita l’importante statuizione in base alla quale il giudice nazionale sarà tenuto a recepire l’indirizzo convenzionalmente indicato solo nel caso in cui si trovi innanzi ad un “diritto consolidato”[21] o ad una “sentenza pilota”. Ora, i motivi addotti dai giudici milanesi, a sostegno del proprio convincimento, sono svariati[22] e tra i più significativi rileva senza dubbio alcuno l’evidente dissenso, relativamente alla motivazione della decisione assunta, mostrato da ben cinque giudici componenti il Collegio giudicante EDU, tra cui figura anche il nome del Presidente della Corte.

Ed invero, a parere dei giudici concorrenti, il costante imbarazzo che permea l’intero tessuto preventivo risiederebbe non tanto sulla non conformità della disciplina italiana alla Convenzione europea, su cui tutto sommato si concorda, quanto piuttosto nel fatto che esse siano da ritenersi “necessary in a democratic society”. Vale la pena segnalare il pensiero del giudice Dedov, il quale non manca di sottolineare come tali misure, atteso l’elevato tasso di sproporzione da cui sono strutturalmente affette, contribuirebbero a realizzare l’ordinato vivere civile mediante il ricorso ad una coazione pubblica del tutto inadatta al reinserimento sociale del prevenuto[23].

Più estrema appare, poi, l’opinione del giudice Pinto de Albuquerque, secondo cui gli strumenti in parola altro non sarebbero che l’equivalente di pene sprovviste di garanzie processuali e fondate, anziché sull’accertamento di un fatto tipico, su meri sospetti e presunzioni[24]. In altri termini, esse avrebbero natura sostanzialmente penale ed essendo applicabili sulla base di elementi indiziari[25] affidati in toto alla libera valutazione del giudicante, potrebbero ingenerare pericolose disfunzioni in un sistema come il nostro informato ai principi di tassatività e determinatezza, oltre che di legalità.

Hanno, altresì, aderito alla medesima linea interpretativa seguita dal citato Tribunale di Milano i giudici del Tribunale di Palermo[26], ponendo a fondamento delle loro ragioni il mancato consolidamento della sentenza De Tommaso, il che, come detto, implicherebbe la facoltà del giudice interno di seguire un’autonoma ermeneutica che sia comunque conforme ai principi costituzionalmente e convenzionalmente protetti[27].

Meno radicale, per converso, sembra la decisione assunta dal Tribunale di Monza[28], il quale, pur giungendo, nel caso concreto, ad applicare la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno e quella patrimoniale della confisca di beni mobili e immobili nella disponibilità del prevenuto, mostra apertamente di condividere il filone giurisprudenziale formatosi in seno alla Corte europea[29]. In particolare, l’imposizione delle misure trae origine dalla circostanza per la quale esistevano a carico del soggetto destinatario del provvedimento sufficienti indizi di pericolosità sociale tali da permettere di inquadrarlo non soltanto nella categoria criminologica di cui all’art. 1, lett. a) e b) d.lgs. 159/2011, che – com’è noto – descrive i soggetti portatori di pericolosità c.d. generica, ma anche e soprattutto nella categoria di cui all’art. 4 del medesimo decreto, il quale, invece, fa riferimento ai soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso ex art. 416bis c.p., nonché ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, co. 3bis, c.p.p. Ed è proprio in ragione dell’asserita pericolosità c.d. “qualificata” del proposto che il collegio monzese ha disposto l’applicazione delle misure in parola, rilevando come la sentenza De Tommaso, alla quale riconoscono piena applicazione, interessasse, in verità, soltanto le fattispecie di pericolosità generica[30].

In considerazione del complesso quadro tratteggiatosi, è di rilevanza palmare l’attesa decisione della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in merito alla sollevata questione di legittimità costituzionale, al fine di mettere ordine in una materia che, ormai da tempo, sembra irrefutabilmente supplire alle deficienze del sistema penale ogniqualvolta questo si appalesi inadatto o insufficiente[31].

Gli scenari che si prospettano all’orizzonte sono diversi, anche se una soluzione di compromesso, cosi come adombrato da una parte della dottrina[32], pare essere quella di una pronuncia additiva con la quale la Corte dichiari l’incostituzionalità della legge italiana nella parte in cui non prevede parametri sufficientemente tassativi e prevedibili per verificare, tramite un giudizio prognostico, se il soggetto possa potenzialmente commettere illeciti penali indicativi dell’animo sprezzante dello stesso nei confronti dello Stato e delle regole della legale convivenza.

I giudici della Consulta, pertanto, in ragione dell’inerzia del legislatore italiano – il quale continua a modificare le norme del codice antimafia[33] anziché fornire, perlomeno, un fumus di risposta ai seri interrogativi innestati dalla sentenza De Tommaso- dovranno individuare un punto di equilibrio tra i valori sottesi ad un materia che ad oggi sembra essere divenuta una vera e propria vexata quaestio, sì da comprendere, in una prospettiva de iure condendo[34], quale sarà la fisionomia che nel prossimo avvenire dovrebbe assumere il nostro modello di prevenzione.

Proprio in quest’ottica, a parere di scrive, sembrano spingere i recentissimi contributi offerti dalla giurisprudenza di legittimità[35] verso un processo maggiormente tassativizzante e tipizzante le fattispecie di pericolosità generica, mercé una rilettura interna della nozione di “traffici delittuosi” di cui all’art. 1, lett. a) d.lgs. n. 159/2011. Difatti, i giudici della Cassazione, nel c.d. “caso Carnovale”[36], hanno avuto modo di precisare che “la nozione di “traffici delittuosi” (…) designa qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti; ne consegue che assumono rilevanza non solo le condotte delittuose riconducibili ad una tipica attività trafficante, ma anche quelle connotate dalla finalità patrimoniale o di profitto che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili”. Sulla nozione in parola, la Suprema Corte si è, poi, espressa in termini ancor più stringenti nel c.d. “caso D’Alessandro”[37], affermando che “la nozione di “traffici delittuosi” (…) non ricomprende qualsivoglia attività delittuosa idonea a generare un provento, dovendo essere riferita alle ipotesi di commercio illecito di beni materiali (ad esempio: stupefacenti, armi, materiale pedopornografico, denaro contraffatto, documenti contraffatti impiegabili a fini fiscali, proventi di delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio) ed immateriali (traffico di influenze illecite, di notizie riservate, di dati protetti in tema di “privacy”), nonché a condotte “latu sensu” negoziali ed intrinsecamente illecite da cui sia derivato una qualche forma di provento (quali l’usura o la corruzione)”.

In definitiva, volendo rappresentare graficamente quanto finora detto, potrebbe argomentarsi che in un sistema di coordinate cartesiane l’asse delle ascisse, formante la retta di riferimento, è rappresentata dalla sentenza De Tommaso e dalle impetrate esigenze di adeguamento europeo; l’asse delle ordinate, che indica la retta ortogonale alla retta di riferimento, è, invece, costituita dalla nuova giurisprudenza nazionale registratasi in argomento, che pare abbia intrapreso l’auspicato percorso di specificazione del punto d’origine nel quale le due rette dovranno incontrarsi per sorreggere la futura impalcatura prevenzionale.

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[1] Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, n. 43395/09.

[2] In tema si veda F. VIGANO’, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 3, pag. 378, il quale appalesa la necessità di un celere intervento legislativo che ponga rimedio alle carenze normative emerse in sede internazionale; F. MENDITTO, La sentenza De Tommaso c. Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 3, pag. 172 ss., che intende la sentenza quale richiamo alla modernizzazione di un sistema oramai obsoleto; L. CAPRIELLO, La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale ed il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale ed europeo, in Giurisprudenza penale web, 2017, 6 e A.M. MAUGERI, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della legge, ma una rondine non fa primavera, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 3, pag. 35, la quale auspica il consolidamento dell’indirizzo europeo in future pronunce, sì da atteggiarsi quale punto di partenza per un più generale restyling delle misure di prevenzione personali e patrimoniali.

[3] Sul punto M. DE LONGIS e C. FATTA, Profili critici e conseguenze pratiche della decisione della Grande Camera sulle misure di prevenzione, in Giur. penale web, 2017, 5, pag. 1 ss., i quali esordiscono parlando di “misure segnate dalla criticità di dover conciliare, da un lato, le esigenze di calmieramento della sensazione sociale di insicurezza e di prevenzione dei reati e, dall’altro, le conseguenze della limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo disposta indipendentemente dalla commissione di reati”.

[4] Sul punto si veda ampiamente V. MAIELLO, La prevenzione ante-delictum: lineamenti generali, in La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, a cura di V. MAIELLO, Torino, 2015, p. 299 ss.; A. DE LIA, La sconfinata giovinezza delle misure di prevenzione, in Archivio penale web, 2017, 1, pag. 13, il quale parla di misure che “appoggiano il cappotto sulla sedia del (sospetto del) reato, mettono il cappello sulla poltrona della pericolosità, ed allungano i piedi sul divano della sanzione”.

[5] In argomento si veda F. MENDITTO, Presente e futuro delle misure di prevenzione (personali e patrimoniali): da misure di polizia a prevenzione della criminalità di profitto, in Dir. pen. contemporaneo, 2016, 5, pag. 6 ss., in cui l’Autore evidenzia come “lo stridente contrasto delle norme che disciplinano le misure di prevenzione col nuovo ordinamento è riconosciuto dalla Corte costituzionale con una delle prime sentenze pronunciate dopo la sua istituzione (26 giugno 1956, n.2) con cui fissa principi ancora attuali: la necessaria giurisdizionalizzazione di misure limitative della libertà personale, l’utilizzabilità di fatti (e non sospetti), l’obbligo di motivazione, il divieto di discriminazione politica e di limitazione della manifestazione del pensiero, il rispetto del diritto di difesa”. Tali principi vengono, poi, riaffermati dalla Corte costituzionale con sent. n. 11 del medesimo anno, argomentando che “il grave problema di assicurare il contemperamento tra le due fondamenti esigenze di non frapporre ostacoli all’attività di prevenzione dei reati e garantire il rispetto degli inviolabili diritti della persona umana, appare (…) risolto attraverso il riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpurs nell’ambito del principio di stretta legalità”, in modo tale che “in nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni”. Nello specifico, la Consulta, con sent. n. 23 del 1964, ha puntualizzato che “nella descrizione delle fattispecie di (prevenzione) il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, però, sempre a comportamenti obiettivamente identificabili”. Più recentemente, la Corte cost., con sent. n. 177 del 1980, ha ribadito che “la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (…). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio”. In particolare, secondo i giudici costituzionali, “il principio di legalità in materia di prevenzione (…) implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità previste descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata”. D’altro canto “l’intervento del giudice (e la necessità della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate. (…) L’accento, anche per le misure di prevenzione, cade dunque sul sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa dei presupposti di fatti dal cui accertamento dedurre il giudizio, prognostico, sulla pericolosità sociale del soggetto (…) Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire. Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti”.

[6] Per ulteriori approfondimenti in merito alla definizione di “pericolosità sociale” si veda R. MAGI, Per uno statuto unitario dell’apprezzamento della pericolosità sociale, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 3, pag. 136 ss., il quale discorre di “nozione controversa, accusata di scarsa base scientifica e dai contorni descrittivi sovente inafferabili (…)”. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha più volte sostenuto che: “la pericolosità è una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si deduce la probabilità che egli commetta nuovi reati. Essa si differenzia dalla capacità criminale, che esiste sempre in misura più o meno accentuata, per il fatto stesso che il soggetto ha già commesso il reato e costituisce quindi un’attitudine soggettiva alla commissione di ulteriori reati dello stesso tipo. La capacità criminale è, quindi, il genus e la pericolosità la species, poiché la prima è solo possibilità, mentre la seconda è probabilità di compiere illeciti penali. La capacità coincide solo con la dimensione prognostico-preventiva della capacità criminale ma non con quella etico-retributiva della medesima” (cfr. Cass. pen., Sez. II, sent. 5 giugno 1990, n. 9572, Aresu, CED).

[7] In argomento si veda S. FINOCCHIARO, Come non detto. Per il Tribunale di Milano la sentenza della Grande Camera De Tommaso in materia di misure di prevenzione non integra un precedente consolidato, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 4, pag. 322, il quale precisa come “l’effetto delle pronunce della Corte europea è sostanzialmente quello di delegare ai giudici nazionali il compito di adeguare l’ordinamento interno al principio di diritto affermato a Strasburgo. L’efficacia vincolante delle sentenze della Corte europea si sostanzia infatti nel dovere per il giudice dello Stato di assegnare alla disposizione di legge un significato conforme al diritto, anche giurisprudenziale, europeo (mediante un’interpretazione convenzionalmente conforme) oppure, ove la prima via risulti impraticabile, di subappaltare il compito alla Consulta (mediante lo strumento dell’incidente di costituzionalità che assuma quale parametro l’art. 117 co. 1 Cost.).

[8]E’ utile ricordare che il prevenuto, oltre a lamentare l’ingiustizia del processo e la mancata garanzia da parte dello Stato italiano di un valido strumento d’impugnazione (entrambe puntualmente rigettate), adiva la Corte di Strasburgo contestando la violazione dell’art. 5 della CEDU nonché dell’art. 2 Protocollo n.4 CEDU in relazione ai nove mesi trascorsi in regime di coercizione della libertà personale. Sotto il primo profilo, la Corte, sostenendo che “In order to determine whether someone has been “deprived of his liberty” within the meaning of Article 5, the starting-point must be his or her specific situation and account must be taken of a whole range of factors such as the type, duration, effects and manner of implementation of the measure in question. The difference between deprivation and restriction of liberty is one of degree or intensity, and not one of nature or substance”, escludeva che la misura applicata potesse configurarsi lesiva del proprio diritto alla libertà personale, evidenziando come tale norma tutela un diritto alla libertà in senso fisico che può essere violato solo con atti di deprivation of liberty e non di mera restriction. Nel caso di specie, la libertà del ricorrente era stata solo parzialmente limitata, avendo quest’ultimo mantenuto la facoltà di allontanarsi dalla propria abitazione durante le ore del giorno e conservare i contatti con il mondo esterno.

[9] Tale paragrafo, come peraltro evidenziato dalla Corte in motivazione, “guarantees to any person a right to liberty of movement within a given territory and the right to leave that territory, which implies the right to travel to a country of the person’s choice to wich he or she may be admitted”.

[10] In particolare, sostiene la Corte che “the level of precision of domestic legislationm which cannot in any case provide of every eventuality, depends to a considerable degree on the content of the law in question, the field it is designed to cover and the number and status of those to whom it is addressed”.

[11]Cfr. S. RECCHIONE, La pericolosità sociale esiste ed è concreta: la giurisprudenza di merito resiste alla crisi di legalità generata dalla sentenza “De Tommaso c. Italia” (e confermata dalle Sezioni Unite “Paternò”), in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 10, pag. 130. In tal senso si veda anche l’apprezzabile contributo di M. FATTORE, Cosi lontani cosi vicini: il diritto penale e le misure di prevenzione, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 4, pag. 103, in cui l’Autore evidenza come “la sentenza della Grande Camera mette a nudo tutto il congegno ben oltre il dispositivo finale, decretandone il contrasto con i pilastri del progetto liberale”.

[12] Si legge in motivazione: “thus, the Court considers that the law in force at the relevant time did not indicate with sufficient clarity the scope or manner of exercise of the very wide discretion conferred on the domestic courts, and was therefore not formulated with sufficient precision to provide protection against arbitrary interferences and to enable the applicant to regulate his conduct and foresee to a sufficiently certain degree the imposition of preventive measures”, ed ancora, “it was therefore impossible for the applicant to ascertain the precise content of some of the requirements to which he has been subjected while under special supervision”.

[13] Cass. Sez. Un. Pen., sent. 27 aprile 2017 (dep. 5 settembre 2017), n. 40076, Rv. 270496, le quali, a seguito della pronuncia europea, “sono chiamate ad una rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU (…)”, con la conseguenza che “solo una lettura “tassativizzante” e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche”.

[14] Testualmente F. VIGANO’, Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 9, pag. 146. In posizione similare G. BIONDI, Le Sezioni Unite Paternò e le ricadute della sentenza Corte EDU De Tommaso C. Italia sul delitto ex art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011: luci ed ombre di una sentenza attesa, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 10, pag. 167 ss., in cui l’Autore manifesta la propria ammirazione per una sentenza che mostra di rispondere alle istanze di adeguamento del sistema penale italiano al processo di integrazione europea, esponendo, tuttavia, talune perplessità in merito all’uso della tecnica dell’interpretazione conforme, dal quale, a suo parere, potrebbero scaturire nuove questioni di non facile risoluzione.

[15] Nello specifico, si legge in sentenza che le prescrizioni del “vivere onestamente e rispettare le leggi” “non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento “morale”, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice. Ed ancora, le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di “vivere onestamente e rispettare le leggi”, perché, il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L’indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del giudice”. In particolare, per ciò che concerne l’obbligo di rispettare le leggi esso “si propone in termini talmente vaghi da presentare un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo. Si tratta di una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato: la formula legale che deriva dal richiamo contenuto nell’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 alla prescrizione di rispettare le leggi non ha la struttura né la funzione di un’autentica fattispecie incriminatrice, dal momento che, da un lato, non consente di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, derivi una responsabilità penale e, dall’altro, attribuisce uno spazio di incontrollabile discrezionalità al giudice”.

[16]Corte d’Appello di Napoli, VIII Sez. pen. – misure di prevenzione, ord. 14 marzo 2017.

[17]Sul punto si veda il contributo di F. VIGANO’, Illegittime le misure di prevenzione personali e patrimoniali fondate su fattispecie di pericolosità generica? Una prima ricaduta interna della sentenza De Tommaso, in Dir. Pen. Contemporaneo, 2017, 3, pag. 298, il quale sostiene che “se (…) la disciplina italiana in materia di pericolosità generica è stata ritenuta inadeguata a legittimare mere restrizioni alla libertà di circolazione, ben difficilmente quella stessa disciplina potrà essere ritenuta sufficiente a legittimare una misura – come la confisca di prevenzione – che comporta l’ablazione definitiva di un altro importante diritto convenzionale, come per l’appunto il diritto di proprietà”. 

[18] In particolare, si legge nell’ordinanza di rimessione che “poiché le misure di prevenzione patrimoniali, oggetto del giudizio di appello pendente innanzi a questa Corte, sono state imposte nei confronti di persona portatrice di pericolosità generica ai sensi dell’art. 1 L. 1423/1956 per effetto dell’art. 19 L. 152/1975, nel momento in cui si afferma che l’art. 1 L. 1423/1956 è costituzionalmente illegittimo perché contrasta con l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 4 alla Convenzione EDU in ragione dell’assenza di precisione e prevedibilità che lo caratterizza, deve conseguentemente affermarsi il medesimo contrasto anche con riferimento all’art 19 cit., pervenendosi altrimenti all’illogica conseguenza per cui le misure di prevenzione patrimoniali potrebbero essere imposte nei confronti di persone che non possono definirsi pericolose a seguito della dichiarata illegittimità costituzionale della norma che definisce tale pericolosità. Si perverrebbe pertanto al paradossale assetto nromativo per cui persone non pericolose potrebbero essere destinatarie di misure di prevenzione patrimoniali, aggiungendo cosi alla violazione della Convenzione EDU anche la violazione dell’art. 42 della Costituzione, trasformando le misure di prevenzione patrimoniali in una vietata actio in rem”.

[19]Trib. Milano, sez. aut. misure di prevenzione, decreto 7 marzo 2017 (dep. 13 marzo 2017).

[20]In argomento si veda S. FINOCCHIARO, Come non detto, cit., pag. 323, il quale sottolinea come “il decreto in commento si inserisca nell’ambito di un quadro eterogeneo di reazioni della giurisprudenza italiana alla dirompente sentenza della Corte EDU (…)”.

[21]Nel tentativo di ricostruire la nozione di “diritto consolidato” la Consulta, nella citata pronuncia, ha individuato alcuni “indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti allo caso italiano”.

[22]Nello specifico, si legge in motivazione che “depongono in tal senso la novità della questione, mai specificamente affrontata in precedenza dalla Corte EDU; il flusso della giurisprudenza convenzionale, prima costante nel ritenere il sistema delle misure di prevenzione conforme alla Convenzione EDU e nell’individuare le ragioni di eventuali violazioni nell’applicazione concreta delle norme che disciplinano le misure di prevenzione personali e non nella loro formulazione; l’interpretazione stabilmente offerta dai giudici nazionali chiamati ad applicare la Convenzione, in primo luogo la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione, mai rappresentativa di un contrasto in questi termini tra le norme vigenti ed i diritti dell’uomo ed affermativa, per contro, della legittimità costituzionale e convenzionale delle norme che governano la conduzione del giudizio di pericolosità; il numero e la solidità delle opinioni dissenzienti espresse su questo punto della sentenza De Tommaso da cinque giudici, incluso il Presidente della Corte; l’ostacolo che tale ultima circostanza pone alla possibilità di attribuire alla decisione la funzione di una sentenza destinata a sciogliere definitivamente una questione di principio; la possibilità, viceversa, che la Corte EDU, in  quanto chiamata a giudicare un caso specifico di applicazione della ormai abrogata legge n. 1423/1956, per di più condizionato dall’imposizione della sorveglianza speciale in base all’attribuzione al sottoposto di tendenze criminali piuttosto che di condotte specifiche, non sia stata posta in condizione di apprezzare appieno i tratti peculiari delle norme vigenti, posto che l’art. 1 del d.lgs. n. 159/2011 ha sì ripreso gli elementi costitutivi della pericolosità personale c.d. “generica” contemplati dalla norma abrogata, di cui è stata ritenuta l’inadeguatezza, proiettandoli però in una cornice sistematica diversa che contribuisce a precisare la fattispecie, aprendo nuovi spazi interpretativi sia ai giudici nazionali che a quello convenzionale”.

[23] Sul punto si veda ampiamente F. VIGANO’, La Corte di Strasburgo, cit., pag. 374 ss.

[24]In argomento si veda anche M. FATTORE, Cosi lontani cosi vicini, cit., pag. 84 ss., il quale utilizzando l’espressione “frode delle etichette” spiega come “(…) per salvarsi da un’incostituzionalità sempre più con il fiato sul collo, la prevenzione si è messa in primis alla ricerca degli ambiti regali del diritto penale – su tutti quello del “fatto” – per tentare di coprire le sue oscenità di tipo rozzamente funzionalistico-repressivo. L’autore, inoltre, dove aver ripercorso brevemente il sistema prevenzionale dal punto di vista storico-normativo, prima e dopo l’ingresso della Costituzione e alla luce delle più rimarchevoli pronunce della Corte Costituzionale, giunge ad affermare che (…) permangono molti dubbi sulla compatibilità costituzionale del meccanismo e sulle distorsioni prodotte alla sistematica dall’affannoso tentativo di giustificazione della natura e della vocazione teleologica del congegno, che – quand’anche superati – lasciano comunque il livello delle garanzie attestato su una quota assai insoddisfacente, sia per quel che concerne i presupposti sostanziali, sia per la sommarietà del rito e delle regole di giudizio”.

[25] Sul punto ha avuto modo di precisare la giurisprudenza più autorevole sull’argomento che “nel giudizio di prevenzione vige la regola della piena utilizzazione di qualsiasi elemento indiziario desumibile anche da procedimenti penali in corso e, persino, definiti con sentenza irrevocabile di assoluzione, purché certo ed idoneo per il suo valore sintomatico a giustificare il convincimento del giudice che è ampiamente discrezionale in ordine alla pericolosità sociale del proposto”(tra tutte si veda Cass. pen., Sez. II, sent. 28 maggio 2008, n. 25919, dep. 26 giugno 2008, Rv. 240629).

[26] Trib. Palermo, Sez. I pen. – misure di prevenzione, decreto 28 marzo 2017.

[27] Per una disamina dettagliata circa la decisione palermitana si veda F. BALATO, Su talune recenti prese di distanza dalla sentenza della Corte EDU De Tommaso da parte della giurisprudenza di merito, in Dir. pen. contemporaneo, 2017, 4, pag. 317 ss.

[28] Trib. Monza, Sez. unica pen., decreto 15 maggio 2017.

[29] Sul punto si veda S. FINOCCHIARO, Ancora in tema di ricadute della sentenza De Tommaso. Una pronuncia del Tribunale di Monza su misure di prevenzione e fattispecie di pericolosità “qualificata”, in Dir. pen. contemporaneo, 2018, 5, pag. 197 ss., il quale pone in rilievo il cospicuo contributo che il citato decreto potrebbe offrire all’interno del dibattito insorto alla luce della sentenza De Tommaso.

[30] Si legge in motivazione: “Il Tribunale ritiene di non poter aderire, infatti, all’orientamento espresso dalle sezioni specializzate dei Tribunali di Milano e Palermo, secondo le quali la sentenza De Tommaso non integrerebbe un precedente consolidato nei termini descritti da Corte cost. n.49/2015; un orientamento, questo, che parrebbe essere già stato sconfessato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la pronuncia del 27.04.2017, (…) (…) non è possibile ignorare il principio di diritto affermato dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza De Tommaso c. Italia, né ignorare le implicazioni che la stessa anche sul fronte delle misure di prevenzione patrimoniali che la suddetta pronuncia non ha specificamente affrontato, ma che sono all’origine dell’incidente di costituzionalità sollevato dalla Corte d’Appello di Napoli. A questo proposito, non pare tuttavia superfluo evidenziare: (…) che le censure della Corte di Strasburgo hanno riguardato esclusivamente le categorie di pericolosità c.d. generica di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1 d.lgs. n. 159/2011, e non invece quella di cui alla lett. c) del medesimo articolo, la quale dunque appare, allo stato, esente dai profili di frizione con la CEDU e i suoi Protocolli addizionali evidenziati dalla sentenza De Tommaso”. In conclusione, ne discende “(…) l’irrilevanza delle censure della Corte di Strasburgo e dell’eventuale declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni sopra richiamate nel giudizio de quo”. 

[31] Sul punto perentorio M. FATTORE, Cosi lontani cosi vicini, cit., pag. 83, il quale, con atteggiamento critico, evidenzia come “(…) il diritto penale e il sottosistema prevenzionale, negli oltre 150 anni di storia (…) si  sono “visti avvolti in una relazione a spirale, simbiotica, di reciproco parassitismo, della quale si sono nutriti per sperimentare nuove frontiere del diritto criminale”.

[32] In argomento si veda S. RECCHIONE, La pericolosità sociale esiste ed è concreta, cit., pag. 140 ss., la quale spiega come, da un lato, potrebbe negarsi la qualità di diritto consolidato alla sentenza De Tommaso, il che implicherebbe, tuttavia, un drastico depotenziamento dell’influenza del diritto comunitario nell’ordinamento interno; dall’altro lato, invece, potrebbe riconoscersi il valore di diritto consolidato alla dirompente pronuncia tramite la declaratoria di incostituzionalità ex art. 136 Cost. della legge italiana. Ciò, tuttavia, comporterebbe per lo Stato italiano la privazione di un importante strumento di controllo e repressione della criminalità. Infine, aggiunge, come la Consulta “(…) potrebbe riconoscere valenza conformativa alle indicazioni della Corte di Strasburgo e sanare il difetto di prevedibilità con uno sforzo interpretativo finalizzato a concretizzare  le indicazioni legislative ed a precisare i parametri di riferimento per i giudizi relativi alla pericolosità generica”.

[33] Il riferimento è chiaramente alla recentissima novella introdotta con L. 17 ottobre 2017 n. 161, che ha ampliato il novero dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali facendovi rientrare anche gli indiziati del reato di assistenza agli associati e di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la p.a., stalking, terrorismo e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

[34] Significativo è il pensiero di A. DE LIA, La sconfinata giovinezza, cit., pag. 14, secondo cui “il sistema preventivo vada (per lo meno) ripensato in ottica di maggiore certezza del diritto, e quindi attraverso una riscrittura delle norme in direzione di legalità: le categorie dei soggetti pericolosi sono senza confini, e si rischia pertanto che nella rete (…) gettata per pescare il colpevole finisca anche l’innocente”.

[35] Tra tutte si veda Cass. pen., Sez. I, sent. 15 giugno 2017, n. 349 (dep. 9 gennaio 2018), Bosco, Rv. 271996, secondo cui “Parlare di “traffici delittuosi” o di proventi di “attività delittuose” (…), significa (…) che (…), il legislatore ha inteso prendere in esame la condizione di un soggetto che, (…) ha, in precedenza, commesso dei “delitti”” (e quindi non contravvenzioni) “consistenti in attività di intermediazione in vendita di beni vietati (…) o generalmente produttivi di reddito. In altre parole, il “delittuoso” non è connotazione di disvalore generico della condotta pregressa ma attributo che la qualifica, dunque il giudice della misura di prevenzione deve, preliminarmente, attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate (dato il riferimento alla abitualità) che – vuoi facendosi riferimento ad accertamenti realizzati in sede penale che attraverso una autonoma ricostruzione incidentale (non contraddetta, però, da esiti assolutori in sede penale) – siano rispondenti al tipo di una previsione di legge penalmente rilevante”. Tanto premesso, la Corte ha, poi, esplicitato i criteri per un inquadramento del soggetto nella detta categoria:“a) la realizzazione di attività delittuose (trattasi di termine inequivoco) non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto; b) la realizzazione di attività delittuose che oltre ad avere la caratteristica che precede siano produttive di reddito illecito (il provento) o caratterizzate da un particolare modus operandi (il traffico); c) la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare (per l’ipotesi di cui alla lettera b)”.

[36] Cfr. Cass. pen., Sez. II, sent. 19 gennaio 2018, n. 1186 (dep. 15 marzo 2018), Rv. 272495.

[37] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 21 settembre 2017, n. 53003 (dep. 21 novembre 2017), Rv. 272266.

Dott. Infusino Marco

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