La Corte di Cassazione, con sentenza 30611 del 25 luglio 2024, ha fornito chiarimenti in merito alla misura alternativa alla detenzione domiciliare.
Nello specifico, è necessario valutare tutti gli elementi informativi a disposizione, fondando il giudizio sul comportamento, sulla personalità e su eventuali precedenti del condannato.
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Indice
1. I fatti
Il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila ha rigettato l’istanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare presentata dal condannato.
Tale rigetto veniva giustificato per l’elevata caratura criminale dello stesso, attestata dai reati commessi dopo la condanna posta in esecuzione e per la pluralità dei precedenti penali del ricorrente, che rendevano evidente il suo consolidato inserimento nell’ambiente della microcriminalità.
Avverso tale ordinanza è stato proposto ricorso per Cassazione dal condannato il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguenti alla ritenuta insussistenza dei presupposti della detenzione domiciliare: il provvedimento del Tribunale non avrebbe tenuto conto della personalità e del processo rieducativo intrapreso positivamente dal ricorrente dopo l’irrogazione della sentenza di condanna presupposta.
Inoltre, i precedenti richiamati riguardavano reati di modesto disvalore, concernenti illeciti contravvenzionali, che imponevano di escludere l’elevata pericolosità sociale del ricorrente e impedivano di ritenere sussistente il pericolo di commissione di “altri delitti”.
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2. Misura alternativa alla detenzione domiciliare: l’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione, nel dichiarare infondato il ricorso, osserva che il respingimento dell’istanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare veniva giustificato dal Tribunale di sorveglianza sulla base di un giudizio prognostico adeguato della personalità criminale del condannato, che non consentiva di valutare positivamente il percorso trattamentale intrapreso all’interno della Casa circondariale.
Inoltre, anche dopo la condanna posta in esecuzione il ricorrente aveva continuato a delinquere, con diversi procedimenti pendenti a suo carico.
Per ciò che concerne i precedenti penali gravanti sul ricorrente, questi sono rappresentati dai reati di cui agli artt. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 4 legge n. 110 del 1975, che rendevano evidente lo stabile inserimento del condannato nell’ambiente della microcriminalità.
Nella sua valutazione, la Suprema Corte riprende un consolidato principio di diritto secondo il quale “per valutare il comportamento di un soggetto che intende beneficiare di una misura alternativa alla detenzione, non si può prescindere dal vaglio dei comportamenti, antecedenti e successivi alla condanna, prodromici alla concessione del beneficio penitenziario, in funzione della valutazione prognostica del processo trattamentale intrapreso dal condannato“.
3. La decisione della Cassazione
Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione ha affermato che il vaglio sopramenzionato deve essere effettuato tenendo conto del processo di revisione critica dell’istante, che è indispensabile per la formulazione di un giudizio sul suo reinserimento sociale, sul quale, nei confronti del ricorrente, il Tribunale di sorveglianza, anche tenuto conto del breve lasso di tempo trascorso dall’inizio della detenzione, si esprimeva in termini negativi, nel rispetto della giurisprudenza consolidata.
Infatti, la Suprema Corte sottolinea come il Tribunale di sorveglianza abbia valutato correttamente gli elementi informativi di cui disponeva, fondando il giudizio prognostico negativo sul comportamento del condannato su una valutazione della sua personalità criminale congrua e pienamente rispettosa dei principi secondo i quali, ai fii della valutazione del percorso rieducativo intrapreso dal condannato, propedeutico alla concessione di un beneficio penitenziario, “è imprescindibile la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva“.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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