I media quando non si limitano ad informare, contribuiscono a stigmatizzare gli accadimenti socio-criminali provocando il c.d. clamore mediatico. La relazione tra l’allarmismo mediatico e il ricorso al diritto penale sta diventando sempre più consolidata determinando, in tal modo, la frustrazione della funzione penalistica e la distorsione della comunicazione. Il presente contributo indaga la relazione tra i mezzi di comunicazione e la percezione del crimine, al fine di “denunciare” un ricorso scelerato alla sanzione penale, sempre più indirizzato alla logica propagandistica, a discapito della necessarietà.
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Indice
1. Diritto penale dell’emergenza e populismo penale
Emergenza e populismo penale[1] rappresentano due facce della stessa medaglia, quella del diritto penale simbolico. Che vi sia del simbolismo nel diritto penale, è un fatto ormai noto e da un certo punto di vista è un fattore positivo, perché quello di mandare un messaggio forte è parte della natura e della funzione dello stesso. La questione controversa è capire che tipo di messaggio si voglia divulgare e quali obiettivi si vogliano raggiungere. Ed è qui che bisogna fare i conti con le spinte criminogene e con le controspinte del controllo sociale a fini puramente propagandistici. Il confine tra la necessarietà di un intervento punitivo e lo sfruttamento dello stesso per fini populistici, infatti, è davvero sottile.
Il populismo penale è un fattore socio-politico che nasce dalla percezione sociale del crimine da parte della collettività e dalle reazioni avverse di quest’ultima ai fatti di cronaca. Come un circolo vizioso, fonda le sue radici sulla diffusione del sentimento sociale della paura, per poi, apparentemente, soddisfare il bisogno di sicurezza generatosi, trasmettendo la forza dello Stato, sempre pronto ad intervenire. Insicurezza e paura, sono i due stati emotivi su cui la gogna politica e mediatica costruisce la partecipazione di massa. Sono due emozioni connaturate all’uomo, istintive, difficilmente autogestibili e facilmente manipolabili. Il crimine viene, in tal modo, spettacolarizzato al fine di diffondere l’allarme sociale dell’emergenza, manipolando, di fatto, l’opinione pubblica. Normativamente, tutto questo si traduce in una politica penale aspra e giustizialista, incentrata sul panpenalismo (iperlegificazione, inasprimento delle sanzioni, anticipazione della tutela-reati di pericolo astratto). E sono proprio questi effetti, a destare le maggiori peprlessità, perchè il tutto si pone in contrasto con la natura e la funzione del diritto penale stesso. Si iperlegifica a discapito della necessarietà, si inaspriscono le sanzioni facendosi beffa della proporzionalità, si anticipa la tutela ignorando il principio di offensività. E tutto questo per quali obiettivi?
La, dove finisce la verità della necessarietà, inizia la finzione dell’emergenza. E questa finzione appresta utilità alle forze politiche al comando, perchè proprio il populismo penale si presta ad essere l’arma migliore per ottenere il consenso popolare[2].
Il passaggio dalla prima Repubblica alla seconda, caratterizzato dalla frammentazione politica e dalla debolezza partitica, può ritenersi la fase storica in cui il populismo politico e con esso quello penale, ha avuto inizio[3]. A fronte degli attentati terroristici degli anni di piombo, delle stragi mafiose, degli scandali dello Stato corrotto, venuti a galla dalle maxi inchieste di Tangentopoli e Mani pulite, nella collettività si è diffuso il sentimento dell’insicurezza, suffragato dalla debolezza politica e sfruttato per poter ottenere un ricambio partitico a vantaggio delle forze emergenti. Il verificarsi di quei fenomeni criminali, ha minato nel profondo la sicurezza sociale, scatenando, di conseguenza un bisogno impellente di giustizia. Tale bisogno è stato dapprima incrementato con la diffusione stessa delle notizie legate al crimine, secondariamente ha ricevuto appagazione dalle contromisure politiche attuate: riforme organiche penali, insaprimento delle sanzioni, anticipazione della tutela. Si pensi alle norme anti-terrorismo, alla legislazione anti-mafia, alle norme-anticorruzione[4]. Il problema è che da quegli accadimenti, il clamore mediatico non si è più fermato. Al contrario, l’interesse dei media per i fatti criminali è cresciuto a dismisura cavalcando l’alto grado di partecipazione innescato dalla diffusione del sentimento della paura[5].
2. Il ruolo dei mass media
I mass media costituiscono il più importante mezzo di comunicazione[6]. L’alta capacità di diffusione dell’informazione, costituisce la caratteristica che ne ha determinato il successo. Non a caso, l’espandersi del populismo politico è coincidente con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa. Basti pensare al successo politico ottenuto dall’imprenditore Berlusconi agli inizi degli anni ’90 o al più recente fenomeno Grillo, che proprio grazie al successo mediatico, ha condotto all’affermazione politica del movimento popolare dei cinque stelle.
Ai mass media si associa per struttura e funzione il ruolo dell’informatore. La capacità di raggiungere la popolazione in modo illimitato, consente di veicolare l’informazione abbattendo le barriere spaziali, temporali ed economiche. Proprio la capacità di diffusione dei mass media, si presta ad essere sfruttata per fini estranei alla semplice divulgazione delle notizie. Ci si riferisce in particolar modo al controllo sociale. I mass media operano in tutti i campi del sociale e vengono utilizzati per raggiungere scopi economici, politici, socio-culturali. La capacità attrattiva degli stessi si basa sulla tecnica della persuasione, a sua volta strutturata in base alle caratteristiche del messaggio che si vuole divulgare e al tipo di persone che si vuole coinvolgere. Su ogni messaggio mediatico, vi è uno studio approfondito delle preferenze degli utenti, in base alla conoscenza degli stessi, alla loro predisposizione intellettiva, al contesto spaziale, all’età. L’informazione viene calibrata in base al target di individui che si vuole raggiungere e in funzione degli obiettivi che si vogliono ottenere. E’ presto detto, quando questo meccanismo ingloba i fenomeni criminali, si generano effetti collaterali pericolosi. Ci si riferisce alla distorsione dell’informazione a discapito della realtà e a vantaggio dell’allarmismo propagandistico come effetto diretto[7]. Ci si riferisce al giustizialismo mediatico come effetto indiretto[8]. Come esempio del primo caso, si pensi alla costruzione mediatica-sociale del ‘problema’ immigrazione. La diffusione delle notizie e delle immagini riguardanti gli immigrati da una parte e la contestuale diffusione delle notizie riguardanti i crimini commessi dagli stessi, ha costruito un clima emergenziale nutrito dalla paura[9], determinando la movimentazione dell’opinione pubblica verso l’intervento punitivo, a tutela del bisogno indotto di sicurezza. Di conseguenza la folla ha gridato al nemico e la politica è intervenuta a stigmatizzarlo nelle norme. Si pensi all’introduzione dell’aggravante della clandestinità (art. 61 n.11 bis), poi dichiarata incostituzionale[10] e allo stesso reato di clandestinità. Un esempio perfetto di come il diritto penale venga destrutturato e definalizzato. Una scelta politica penale abnorme. Uno sfregio al fatto e un incitamento all’odio legalizzato. Quando, infatti, il diritto penale si costruisce su basi soggettive, si cade nell’aberrazione del diritto penale d’autore, contribuendo a diffondere credenze separatiste ed estremiste. Calibrare una norma penale sul tipo d’autore, infatti, stigmatizza socialmente la cultura del diritto penale del nemico, a discapito della necessarietà dell’intervento punitivo. Quanto appena affermato, in riferimento alla tematica dell’immigrazione, ci perviene dai dati criminogeni reali, dai quali non trapela alcun risultato allarmante[11], se non una condizione di precarietà sociale e un bisogno di ospitalità[12].
In merito al secondo caso, si faccia riferimento al recentissimo fatto della violenza di gruppo di Palermo, che ha cavalcato l’onda mediatica in maniera inaspettata e spropositata, tanto da causare l’intervento del Garante per la Protezione dei Dati Personali[13]. Un fatto di cronaca, che è diventato spettacolo, dove la massa si è animata in maniera unanime contro gli aggressori[14], dove nessuna logica fondata sulla giustizia ha preso forma, dove il principio della presunzione di innocenza si è totalmente disperso e hanno preso corpo la condanna mediatica, la sete di vendetta e lo sfregio all’intimità violata della vittima[15].Tali meccanismi degenerativi sono dovute all’allarme sociale legato alla problematica della violenza di genere. Una movimentazione di massa che da anni, ormai, manifesta incessantemente il bisogno di avere giustizia. Anche in questo caso, la spettacolarizzazione dei fatti di cronaca ha condotto a stigmatizzare i soggetti coinvolti. Anche in questo caso, la massa si è schierata con determinazione e all’unanimità contro ‘i nemici’. Anche in questo caso, si è svolto il processo con condanna senza sentenza. Un’ ondata mediatica che, purtroppo, sta devastando le vite di tutte le persone coinvolte, soggetti attivi e passivi, in totale sfregio alla dignità personale.
Proprio il fatto di Palermo, rappresenta l’esempio perfetto di quanto possa essere pericoloso e degenerativo il lavoro sporco condotto dai media, di come dall’informazione si cada nella manipolazione per ottenere adesione, consenso, popolarità, di come i principi del diritto penale vengano sbeffeggiati, di come la funzione penale venga distorta e annichilita. La violenza che genera violenza, nelle parole, nei contenuti, nelle condanne senza processo, nelle lotte senza giustizia, nella folla ribelle che grida al nemico e che chiede pene esemplari.
La spettacolarizzazione del crimine genera rabbia, repulsione, vendetta e popolarità determinando, troppo spesso, effetti collaterali opposti come l’emulazione, in barba alla stessa efficacia general preventiva della pena, alla presunzione di innocenza e alla tutela psico-fisica sia dei soggetti attivi del reato, che della vittima (vittimizzazione secondaria).
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3. Diritto penale simbolico e crisi del sistema giustizia
Il populismo politico e penale (mediatico), ad oggi, è la causa principale delle scelte di politica criminale. E’ stato così in occasione della riforma sui reati di genere, su tutti, gli atti persecutori. Il clamore mediatico legato al fenomeno dello stalking ha determinato l’introduzione dell’art. 612bis, una fattispecie specifica per comportamenti che risultavano già puniti, si pensi al reato di minacce, alle lesioni personali come fattispecie singole e al reato dei maltrattamenti in famiglia, fattispecie più grave ma limitata ai rapporti familiari o a questi assimilati. Tale fattispecie costituisce il simbolo di una politica criminale diretta a contrastare la violenza di genere, che ha condotto all’emanazione di altre fattispecie autonome di reato come il revenge porn, ha predisposto misure di prevenzione (es. allontanamento dai luoghi frequentati dalla persona offesa) ma, che in realtà non ha prodotto il risultato sperato: la sensibile riduzione dei crimini contro le donne.
Ancora, si pensi al tema dei reati culturalmente orientati. Con tale accezione si fa riferimento alla relazione tra un certo tipo di cultura e la commissione di determinati reati. Il tema è ancora caldo e si concentra sulla possibilità o meno di esimere dalla pena, l’autore a causa della propria cultura o quanto meno riconoscergli un regime sanzionatorio meno severo. Nel diritto interno, non solo non vi è alcuna apertura sul punto, si rifiuta la riconduzione dei motivi culturali nell’ambito dell’esercizio di un diritto o dell’adempimento di un dovere ma, si è verificato l’effetto opposto. L’avversione per le culture straniere è palesata dalla reintroduzione del reato di accattonaggio, anche se nella forma molesta, ex art. 669 bis c.p., dalla penalizzazione come fattispecie autonoma, del reato delle mutilazioni dei genitali femminili ex art. 583 bis, (la condotta era già punita dal reato delle lesioni dolose). Entrambe le fattispecie denotano più che una reale necessità dell’intervento punitivo, una certa carica simbolica, rivolta a placare gli animi popolari sempre più movimentati a rifiutare pratiche lontane dal proprio sentire comune. Ma non bisogna andare oltre le proprie radici per poter apprezzare interventi punitivi simbolicamente carichi, ma privi di effettività ed efficienza[16]. Basti pensare all’introduzione dei reati di omicidio e delle lesioni personali stradali, un tempo circostanze aggravanti, rispettivamente dei reati di omicidio colposo e delle lesioni colpose o alla riforma della legittima difesa domiciliare[17]. Diversi reati ma, stessa tipologia di intervento: aggravamento sanzionatorio. Allo stesso modo, si sta attualmente procedendo in relazione al reato di maternità surrogata. Tutte le fattispecie presentate, come si è già accennato, sono accumunate dall’inasprimento della risposta punitiva-sanzionatoria. Allo stesso tempo, sono accomunate dalla medesima problematica: il fallimento. Se, infatti, si attua una politica criminale aspra, ci si attende senz’altro una riduzione dei crimini a cui questa è rivolta. I dati, invece, fotografano l’inefficacia deterrente. Già in tempi passati, l’illustre penalista Beccaria aveva individuato le chiavi del successo su cui basare la politica penale sanzionatoria: la giustizia e la proporzionalità. Ogni intervento penale punitivo, per essere funzionale deve essere accettato come giusto dalla comunità. Dunque, basare una riforma sul continuo aumento delle sanzioni, sull’iperlegificazione, sul panpenalismo, conduce solo all’effetto opposto. Tale dato, unito alla lungaggine dei processi, alla ferraginosità e alla vetustità del sistema preventivo, sta conducendo al collasso del sistema giustizia. Un barlume di speranza si è riaperto a seguito dell’ultima riforma, ancora in cantiere aperto, sulla giustizia riparativa. Data l’ingente mole su cui intervenire e il poco tempo trascorso dalla sua entrata in vigore, si ritiene di dover rinviare in futuro qualsiasi commento sul punto. Certo è che, finalmente, si è individuato il canale su cui destare l’attenzione, la deflazione, l’alleggerimento, la depenalizzazione. Ci si aspetta, che sfruttando tale onda, si intervenga quanto prima sul sistema preventivo.
4. Conclusione
La manipolazione della comunicazione, come si ha avuto modo di vedere, è capace di produrre gli effetti più aberranti. Il populismo mediatico sta destrutturando e definalizzando il diritto penale, sempre più simbolico e lontano dalla realtà storico-sociale. L’allarme mediatico rivolto ad ottenere il consenso popolare, conduce all’iperlegificazione e all’inasprimento del sistema sanzionatorio su basi artefatte, in totale sfregio alla necessarietà (diritto penale come extrema ratio) ottenendo l’implosione della politica criminale, sempre più aspra e sempre più inefficace. Un circolo vizioso che si ritorce, paradossalmente, sulla collettività, la stessa che, persuasa e dirottata, grida al nemico, chiedendo pene esemplari. Si diffonde l’illusione dell’emergenza e in risposta, si ottiene l’illusione della sicurezza garantita. Una politica criminale appagante del sentimento popolare del momento e che decade, non appena la realtà sociale mostra le sue vere crepe.
Per quanto affrontato e per quanto ancora ci sarebbe da dire, si auspica un ritorno al diritto penale liberale, che recuperi la propria funzione garantista e i propri valori, ormai defraudati e svuotati di senso. Non è solo una questione di distonia normo-valoriale, è soprattutto un bisogno storico-sociale e questo si, che può dirsi davvero emergenziale.
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Alfonso Contaldo, Flaviano Peluso (a cura di), Cecilia Cavaceppi, Francesco Saverio Cavaceppi, Daniela Cavallaro, Raissa Coletti, Alessandra Cortese | Maggioli Editore 2020
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Bibliografia/sitografia
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- Caterini M., Criminalità, politica e mass media, rivistaweb.it Dicembre 2013;
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- Fuscaldo F., Lo stupro non può diventare uno show che prolunga l’orrore, Editore Diritti e Ragione,il Dubbio, 23 agosto 2023, su https://www.ildubbio.news/commenti/lo-stupro-non-puo-diventare-uno-show-che-prolunga-lorrore-wp1vyr77;
- Manes V., Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, riv. Questione Giustizia, n. 1/2019;
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