Maltrattamenti in famiglia è reato anche se i due che hanno in comune la prole non coabitano

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Il reato di maltrattamenti si integra anche quando la vittima, nonostante non coabiti più, continui a mantenere un rapporto con l’autore dei comportamenti violenti per via della prole.

In relazione ai soprusi commessi ai danni di un familiare o di una persona che convive, il codice penale prevede il reato di maltrattamenti, che viene punito in modo più severo rispetto alle semplici lesioni personali o le percosse, a causa del legame tra la vittima e il carnefice e del contesto nel quale gli abusi vengono realizzati.

Questo particolare reato presuppone una coabitazione tra colpevole e persona offesa.

Con il passare del tempo, la giurisprudenza ha interpretato questo requisito in modo sempre più estensivo.

A questo proposito è corretto chiedersi se i maltrattamenti in famiglia rappresentino un reato anche tra ex conviventi.

Alla domanda ha risposto una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass., sent. n. 17885 del 7/05/2021).

Esponendosi con altre pronunce dello stesso tenore, sembra che abbia introdotto un concetto di famiglia che rilevi in ambito penale.

Ammesso che anche il convivente non sposato può essere vittima di maltrattamenti, la Suprema Corte, con la sentenza in questione, si è spinta oltre, ritenendo che il reato esista anche tra persone  separate, che non coabitano più.

Di conseguenza si ha reato di maltrattamenti in famiglia anche tra ex conviventi.

Che cosa dice la legge sul reato di maltrattamenti

Secondo il codice penale (art. 572 c.p.) è punito con la reclusione da tre a sette anni chi maltratta una persona della famiglia o comunque convivente.

Con la stessa pena viene sanzionato anche chi maltratta una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Per legge il reato di maltrattamenti si integra in modo alternativo all’interno di un contesto familiare, purché ci sia coabitazione, nell’ambito di un rapporto di istruzione o custodia.

Ad esempio, gli abusi degli insegnanti, delle badanti e simili.

Le pene sopra indicate sono aumentate se i maltrattamenti sono commessi in presenza o in danno di un minorenne, di una donna in stato di gravidanza o di una persona portatrice di handicap, oppure se il fatto è commesso con armi.

Sono previsti altri aumenti di pena se dai maltrattamenti derivino lesioni personali o, addirittura, la morte della vittima.

In che cosa consistono i maltrattamenti

Sulla legge per maltrattamenti sono ricompresi i classici abusi fisici, come percosse, schiaffi, pugni, e simili.

La giurisprudenza ritiene che costituiscano maltrattamenti anche i comportamenti che, nonostante non implichino l’utilizzo della forza fisica, costringano la vittima ad essere sottoposta a violenza psicologica.

Ne sono esempio gli insulti, le umiliazioni e le vessazioni capaci di umiliare la persona offesa.

Sempre secondo la giurisprudenza, le ricorrenti discussioni in presenza dei figli integrano il reato di maltrattamenti in famiglia perché, a causa dei continui contrasti, i minori potrebbero riportare danni psicologici irreversibili che si ripercuoterebbero sulla loro crescita.

Il resto di maltrattamenti in famiglia viene integrato dal comportamento indirizzato contro l’amante anziché contro il coniuge (Cass., sent. n. 7929 dell’1/03/ 2011).

In  questa circostanza, però, è necessario che il colpevole abbia con la vittima una relazione duratura simile a quella familiare.

Secondo i Supremi Giudici, la stabilità della relazione determinerebbe vari obblighi nei confronti dell’amante, che si possono paragonare agli obblighi di solidarietà e assistenza tipici della famiglia.

In quali circostanze i maltrattamenti non configurano un reato

Secondo la Suprema Corte di Cassazione (Cass., sent. n. 2911 del 25/02/2021) se la relazione è iniziata da poco e la coabitazione è saltuaria, è difficile qualificare i soprusi dell’uomo verso la compagna come maltrattamenti in famiglia.

Una coabitazione occasionale inserita in una relazione sentimentale recente non è sufficiente per ritenere dimostrata l’esistenza di un rapporto di convivenza caratterizzato da stabilità e da reciproca solidarietà.

Secondo la Suprema Corte di Cassazione ( Cass., sent. n. 2911 del 25/02/2021) se la relazione è iniziata da poco e la coabitazione è salturare il reato di maltrattamenti.

Secondo i giudici, l’appartamento destinato alla relazione clandestina e non a un progetto di vita fondato su solidarietà e assistenza non permette di configurare quella “convivenza” che è elemento indispensabile perché si integri il delitto di maltrattamenti.

La casa presa in affitto per incontrare l’amante non è sufficiente per fare scattare il reato di maltrattamenti, per il quale è necessario che la relazione sia stabile, vale a dire, che possa nascere un nucleo familiare, indipendentemente dal matrimonio e dai figli.

Il reato di maltrattamenti ai danni di ex un convivente

Da quanto scritto sinora, si sarebbe portati ad escludere la sussistenza del reato di maltrattamenti se gli abusi sono commessi nei confronti di una persona con la quale non si convive più.

Secondo la Suprema Corte, il reato di maltrattamenti si integra anche quando la vittima, nonostante non coabiti più, continua a mantenere un rapporto con l’autore dei  violente per via della prole.

Nonostante la fine della convivenza, il rapporto tra due persone non si deve ritenere finito se esse sono unite da un figlio.

Finita la relazione sentimentale, i due partner restano sempre genitori, con la conseguente necessità di relazionarsi per le quotidiane esigenze dei figli.

La Corte di Cassazione, con la sentenza, sostiene che anche se mancano vincoli che derivano dal matrimonio, il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di una persona non più convivente con l’agente quando lo stesso conserva con la vittima una stabilità di rapporti “dipendente dai doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza del figlio minore, derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale”.

Da qui è derivata la condanna per l’uomo che aveva maltrattato la sua ex convivente, anche in presenza dei loro figli minorenni, con ingiurie, percosse e lesioni, sino a costringerla all’allontanamento da casa e poi perseguitandola e minacciandola.

Non è servito a niente obiettare che parte del comportamento fosse avvenuto a convivenza terminata.

Qualche anno fa, la stessa Suprema Corte di Cassazione aveva affermato che la cessazione della convivenza non determina necessariamente il venire meno di vincoli e obblighi tra i componenti del nucleo familiare (Cass., sent. n. 25498/2017).

La presenza di figli, imponendo la frequentazione tra i genitori, fa in modo che il vincolo nato durante la convivenza non cessi neanche a coabitazione terminata.

Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche se la vittima non convive più con il colpevole.

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Dott.ssa Concas Alessandra

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